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Panzini epurato

“Non si vede perché Panzini debba essere ancora lasciato nell’ombra e nel silenzio del ‘purgatorio’. Quando sono “stati riportati sugli altari delle nostre piccole cappelle letterarie scrittori minori, certamente inferiori al Panzini e per intrinseco valore e per importanza storica.” Parole del grande critico letterario Carlo Bo, pronunciate nel marzo del 1983 in occasione del convegno organizzato dall’amministrazione comunale di Bellaria Igea Marina (la ‘regia’ fu di Ennio Grassi, che curò anche gli atti del convegno: “Alfredo Panzini nella cultura letteraria italiana fra ‘800 e ‘900”, Maggioli Editore, 1985).
L’allora magnifico rettore dell’università di Urbino (e un anno dopo nominato senatore a vita), aveva sollevato il velo sulla grande ingiustizia di cui Panzini è stato vittima, anche se non aveva voluto farne un caso, dicendo che “la storia letteraria è fatta anche di queste ingiustizie e rientra nella norma il caso del Panzini”. Ma aveva aggiunto. “Speriamo che da Bellaria parta un’inversione di rotta”.
Molti anni dopo, il “programma” indicato da Bo comincia ad essere attuato, ma adesso che anche la “casa rossa” è stata ristrutturata (dopo decenni di incuria), è su questa linea che occorre pensare alla “riscoperta” dello scrittore di Bellaria, senza accontentarsi di qualche mostra e pubblicazione estemporanea.
Panzini va riproposto al grande pubblico, prima di tutto rieditando le sue opere. “Attenzione per Panzini, rileggiamolo”, questo l’invito accorato di Carlo Bo. Perché in Panzini ci sono pagine bellissime di “spirito stupito” (Bo) e di ironia. I libri di viaggio mantengono intatta tutta la loro freschezza. Pagine che fanno vibrare il cuore: “…i mattini, le albe dell’Adriatico, la luce del mezzogiorno nella campagna, un albero, insomma le stesse cose che duemila anni prima aveva cantato Virgilio ma lui si limitava a prendere nota sui quaderni di questi eventi eterni e di cui non ci rendiamo più conto e quando gli mancavano le parole passava alle reminiscenze, alle citazioni…” (Carlo Bo).
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Panzini rimosso
Panzini è stato qualcosa di più di un letterato, ci ha ricordato sempre Carlo Bo nel 1983, “di un buon letterato uscito dalla mitica scuola del Carducci ma perché è stato un interprete del suo tempo, molte volte un giudice senza eccessivi scrupoli, tormentato dal lento franare delle cose in cui era stato educato a credere.”
Carlo Bo si spinse anche oltre nel tracciare il suo ritratto di Panzini. Disse: “Più che dimenticato è stato rimosso dalla nostra memoria o catalogato fra i “nipotini di padre Bresciani”, secondo la formula di Gramsci che, se poteva avere qualche credito negli anni Venti, era poi diventata anch’essa inerte”. E’ vero che la storia letteraria è piena di ingiustizie e non solo di scrittori minori. Un destino simile a quello di Panzini toccò anche a Giovanni Papini, che del primo scrisse: “Non ho mai visto la faccia di Alfredo Panzini né ho sentito il caldo della sua mano, ma non posso fare a meno di volergli bene.”
E fu Borges, nel 1975, a ricordarci: “Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato”. Entrambi, Panzini e Papini, amanti della stroncatura e per questo motivo si attirarono in vita grandi rancori. Entrambi non entrarono nelle grazie di Benedetto Croce e Antonio Gramsci ed anzi li ebbero come nemici e questo pesò non poco nell’epurazione di cui furono vittime. Entrambi “religiosi”: “convertito” Papini, intriso di valori tradizionali legati al cattolicesimo Alfredo Panzini. E c’è anche un terzo elemento comune: entrambi furono bollati come scrittori attigui al fascismo. Nella vita di tutti e due il fascismo entrò, ma senza il peso dell’ideologia soffocante e codina, senza godere dei benefici che invece caddero su altri intellettuali (di uomini di cultura schierati col regime ce ne furono tanti) che poi lavarono il loro passato facendo professione di fede antifascista ed entrando nel gotha della nuova egemonia intellettuale. Per capire quale fu il rapporto di Panzini col fascismo, basterà leggere le stupende pagine di “Le avventure di un oratore ufficiale” (in: Alfredo Panzini, Per amore di Biancofiore, a cura di Manara Valgimigli, Le Monnier, 1948), che racconta la commemorazione di Pascoli, nell’agosto del 1923, nella sala dell’Arengo di Rimini, alla presenza di Benito Mussolini e di una marea di camicie nere. Uno humor (istruttiva questa voce nel “Dizionario moderno”) devastante quello di Panzini verso il regime e le sue “camionate” di fascisti coi loro gagliardetti. Benedetto Croce definì invece l’umorismo panziniano (tanto apprezzato da Clemente Rebora: Panzini è “il maggior umorista italiano dell’età nostra”) “la spiritosaggine di uno che è persuaso di dover essere spiritoso (…) e vuol lasciare intendere che egli vede il fondo della realtà”, fino a qualificare il Panzini come un “buffoncello”.
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La stroncatura di Croce e Gramsci
L’ostracismo idealista che tanto ha pesato nell’epurazione di Panzini comprende anche Piero Gobetti. La triade Croce, Gobetti (che insieme a Panzini epura anche il “romagnolo”, facendone uno “stadio barbarico-conviviale della coscienza” (Marino Biondi), perché l’aggettivo etnico di “romagnolo” è sinonimo di Duce e Panzini rappresenta l’archetipo della provincia romagnola fascista) e Gramsci, scarica su Panzini il peso dell’emarginazione: “La critica idealistica guarda dall’alto la povera innocenza culturale di Panzini e vi spande sopra la piena del proprio disprezzo; mentre Gramsci non ritiene innocente quella cultura e la contrae duramente come avversaria di classe”. (Marino Biondi) Il risultato di tutto questo è che oggi nessuno legge Panzini e “nessuno lo legge perché non si saprebbe come leggerlo, dove trovare i suoi libri: tranne che in biblioteca, dove il lettore comune non va a cercare racconti e romanzi”. (Giuseppe Petronio)
Il risultato è che Mondadori ha smesso di pubblicare Panzini in una collana di “classici moderni di gran consumo” quale “Omnibus”, nel 1950: Sei romanzi fra due secoli (1939),Romanzi d’ambo i sessi (1941), La cicuta, i gigli e le rose (1950).
In seguito uscirono solo le Opere scelte (a cura di G. Bellonci) nel 1970 e in una collana non popolare quale “I classici contemporanei italiani”. Negli Oscar Panzini ha avuto una sola ristampa col Padrone sono me! Mentre, nota Petronio, “sono largamente presenti Marino Moretti, Grazia Deledda, Riccardo Baccelli, Aldo Palazzeschi…”
E allora bisognerebbe ripartire da qui, con l’aiuto di qualche bravo studioso e di qualche editore coraggioso per rimettere in circolazione le pagine di uno scrittore che non merita davvero l’eclissi.
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