contadini

I miei contadini

“Quant’e nas un purèt, che nasés un sòrgh, e par bàeglia cl’avés la gàta” (quando nasce un povero, nascesse un topo e per balia avesse la gatta). 

Questa frase la pronunciò un giorno mio nonno Finotti a Panzini, durante una delle discussioni di carattere “sociale”, mentre mio nonno lavorava nel campo e Panzini si concedeva un po’ di relax fra una fatica e l’altra attorno alla sua instancabile opera letteraria, che si faceva più proficua proprio nei mesi estivi, liberi da impegni scolastici, nella pace e nella tranquillità della villa bellariese.

Panzini voleva sostanzialmente bene ai contadini. Negli ultimi anni della sua vita, quando la sua attività di brillante scrittore portava buoni introiti al suo bilancio familiare, investiva gli utili in ciò che ha sempre amato e decantato nelle sue prose: la terra.

Infatti, alla sua morte, i figli si sono ritrovati eredi di sette poderi, alcuni di modeste dimensioni (come quello attiguo alla “casa rossa”) che non davano certamente grandi utili. Infatti, frugando fra la sua copiosa corrispondenza, ho ritrovato più di una lettera al figlio Emilio (che dalla villa di Bellaria sovrintendeva ai lavori nei diversi poderi sotto la regia del padre che da Roma lo consigliava) con cui si diceva contento se per quell’anno l’introito dei raccolti avesse pareggiato le spese.


I poderi

Dei sette poderi, i più importanti per Panzini ed ai quali “voleva più bene” erano, oltre a quello lavorato da Finotti, attiguo alla Casa rossa, quello di Donegallia condotto dalla famiglia Sberlati, il cui azdór andava spesso a prelevare Sua Eccellenza col calesse alla stazione di Bellaria.

L’altro podere, forse il più bello, era quello di Canonica, condotto dalla famiglia Zamagni, per cui aveva fatto ristrutturare la vecchia casa colonica dal muratore Ciuchèt (Amati). Panzini era innamorato di quel luogo, perché attorno al podere c’erano solo tre case, la chiesa (con annesso cimitero) e l’osteria. Aveva confidato alle donne del luogo che l’ultima sua “residenza” l’avrebbe voluta lì, in quel piccolo cimitero invaso dal sole, in una fossa con sopra poca terra, così… per respirare meglio. Questo suo desiderio l’avrebbe voluto affidare al parroco, ma non ne ebbe il coraggio.
“Lui – dice Panzini – andava sempre di fretta con la sua bicicletta” e poi temeva che l’avesse scambiato per matto. Le donne, invece, gli promisero che sarebbero andate a trovarlo, almeno una volta all’anno, nel giorno dei morti. Questo suo desiderio fu esaudito dai figli, che dopo la sua morte lo portarono direttamente in quella chiesetta, dove tutti i suoi contadini lo vegliarono per tutta la notte, in attesa delle esequie nella mattina seguente. 


Finotti

Ma il contadino che più di altri è stato a contatto con Panzini è stato senza dubbio mio nonno Finotti, che si accasò sul piccolo fondo lasciato incustodito dal precedente mezzadro, Guidi.
 “Quel “sabbione” arido – dice Panzini ne I giorni del sole e del grano – lo ha ridotto a gentilezza”, e osannava l’opera del suo contadino di fronte ad amici, colleghi ed ospiti che spesso venivano a fargli visita alla Casa rossa.

Mio nonno Finotti (all’anagrafe Giuseppe Morri – 1887 – 1952) era figlio di una famiglia numerosa che lavorava alle dipendenze dei Conti Torlonia, sui poderi della “Torre” di San Mauro di Romagna. La famiglia si era allargata tanto da raggiungere il numero di 19; solo il fratello maggiore di Finotti aveva collezionato in poco tempo sette figli. Decise così di “mettersi in proprio” e si accasò sul piccolo fondo di Panzini, che aveva trovato nel più squallido abbandono.

Panzini era entusiasta dell’opera del nonno e portava gli amici in visita ai campi per far loro ammirare l’opera del suo contadino. 
Certamente Panzini era sempre considerato un “padrone” e nei dintorni della via Pisino era chiamato “e màt” (il matto) per via del cappellaccio nero a larga tesa o del basco che portava in testa e per il suo modo di fare brusco e sbrigativo. 
Del resto, in quei tempi, i contadini lavoravano tutti a mezzadrìa, ed il proprietario terriero era sempre un “padrone” che, se possibile, si poteva anche “fregare”. Il padrone, dal canto suo, doveva mettere in atto tutti gli accorgimenti possibili per non farsi “fregare”; pertanto, in alcuni casi, i rapporti potevano essere anche difficili e tesi.

Panzini amava spesso fermarsi nella casetta di Finotti all’ora di pranzo, per vedere cosa mangiavano i suoi contadini. Il menù, purtroppo, era quasi sempre identico: grande zuppiera di minestra coi fagioli, che il “padrone” chiamava “brodaglia fumante”. Non era raro il caso che lo scrittore facesse portare alla Delina, la moglie di Finotti, la carne del bollito, quando la governante, la Emma, faceva il brodo di carne che Panzini stesso ordinava a Giannetto, il macellaio buontempone di Bellaria.

Mia madre ha sempre avuto parole di elogio e di riconoscenza per quel “padrone” dall’aspetto burbero, ma che in fondo amava molto la terra ed i contadini che la lavoravano.
Ricordava come il nonno fosse contrariato quando Panzini gli chiedeva di portarlo, col calesse e la cavalla “Dora”, in giro per gli altri poderi che aveva nei dintorni. Vi andava per vedere la sua terra, fermandosi in mezzo ad un campo, assorto come in meditazione. Quando Panzini diceva a mio nonno di preparare la cavalla ed il calesse, Finotti brontolava tra sé dicendo: “Sa tót quel c’aiò da fae, adès ò da purtae a spas e padràun!” (Con tutto quello che ho da fare, ora devo portare a passeggio il padrone!). Ciò perché la cavalla, molto scontrosa e ombrosa, si lasciava guidare solo dal nonno, e di questo Panzini se ne doleva; gli sarebbe piaciuto poter girare nei dintorni, da solo, a suo piacimento. 

L’unica cosa che mia madre non poteva sopportare, era il fatto di non poter mai far sfoggio liberamente di un vestitino nuovo quando si poteva permettere di andare a ballare a San Mauro Mare. Si doveva sempre discernere chi erano i padroni e chi i contadini. Infatti sia lei che il fratello Guerrino, ogni qual volta che avevano un vestito nuovo o un paio di scarpe nuove, dovevano uscire di nascosto per non contrariare i “padroni”.

Panzini, poi, era contrario al lusso, ed appena giungeva a casa toglieva gli abiti “buoni” per indossare quelli dimessi. 

L’unica volta che Panzini si arrabbiò “di brutto” con Finotti, fu quando decisero di costruire il porcile per l’allevamento dei maiali. Quando mio nonno andò a ritirare dal fabbro Richìn (Valentini) le inferriate per la divisione delle “poste” all’interno del porcile, dimenticò di caricare sul biroccino le corde per fissare le inferriate stesse. Quel giorno pioveva a dirotto e l’asina, sotto la pioggia, non voleva camminare. Spronata da Finotti, si ribellò e scaricò nel fosso tutto il carico che non era stato fissato, ed un ferro gli era finito li, nella “natura”, in quella parte – dice Panzini – che è sacra anche per gli animali, per cui presentava il sottocoda tutto sanguinolento.
 Finotti si vergognò a dire che aveva dimenticato le corde per fissare il carico, e disse di averla “frugata” lì per farla camminare. Panzini gli dimostrò tutta la sua indignazione e rimbrottò Finotti aspramente. Questi non riuscì a dormire la notte a causa della bugia che aveva detto al padrone, ed il giorno dopo decise di andare alla villa per spiegargli quello che era veramente accaduto. 
Chiarita la cosa, ritornò il sereno fra Panzini e Finotti.



Arnaldo Gobbi

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