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Clelia Gabrielli

La moglie di Alfredo Panzini, Clelia Gabrielli (figlia di Pietro e Marianna Guadagnino), nacque a Parma l’uno dicembre 1867.
Il suo rapporto giovanile con Alfredo fu alquanto tormentato. Il fidanzato si mostrava nei suoi confronti freddino, tardava nelle risposte alle sue lettere che trasudavano non di rado un marcato pessimismo, anche a causa, diceva Panzini, della sua solitudine nella grande città di Milano dove aveva ottenuto il trasferimento da Imola. Forse, però, c’erano anche motivi diversi: nel frattempo Panzini aveva intrecciato rapporti con altre ragazze conosciute nella nuova realtà milanese.
Numerose le lettere di Clelia ad Alfredo Panzini custodite nel fondo appartenuto a Giulio Torroni ed ora custodito nella Biblioteca comunale di Bellaria Igea Marina.
Panzini riceveva le lettere di Clelia alternate a quelle di altre giovani, con le quali ebbe frequentazioni forse non solo epistolari, come traspare da alcune missive. Una certa Adriana, poi, aveva perso la testa per il giovane professore e lo subissava continuamente di lettere grondanti amore.
In successione, due lettere di Clelia e due di Adriana.

Parma 10 settembre ‘88

Alfredo mio,
vorrei posare la testa su la tua spalla per nascondere le lagrime che mi corrono giù calde dagli occhi e minacciano di scancellare ciò che scrivo: vorrei sentirmi accarezzata come un bimbo malato, vorrei sentire la tua voce chiamarmi “dolce amore” e poi chiudere gli occhi e morire. Mi sento tanto male! Ho un peso qui sul petto che non mi lascia respirare liberamente e il mio Alfredo non è vicino a me, non mi parla, non mi consola, non può sollevare il mio povero cuore!
Perdonami, amore, se scrivo in questo modo, se affliggo te cui abbisogna pure di tanto conforto, cui voglio tanto bene! Ma, vedi, io non sono che una povera donna debole e bisognosa quindi di compatimento. Molte, molte cose concorrono ora a rendermi così triste, così debole. Anzitutto la tua lontananza, il saperti afflitto da tante cose, scoraggiato da tante altre, il sapere che non vi è alcuna via di scampo per salvarci ambedue dalla nostra continua tristezza, dal nostro dolore, perché per quanti sacrifici noi possiamo fare, per quanto tu possa con piacere rinunciare, per amor mio, a tante soddisfazioni della vita, non arriveremo a nulla, capisci? Io, io non ho da offrirti che il mio povero amore che i miei poveri sforzi per renderti felice che la grande abnegazione, la forza di sacrificio che ha ogni anima quando ama!
Mio padre non mi può dare nulla: il nostro capitale è il collegio.
Non ho ricevuto ancora nessuna notizia dal Ministero. All’Angelina hanno rimandato le carte, a me no. Ebbene, se mi dessero un posto anche in Sardegna l’accetterei, v’andrei sola; io e il mio dolore. Me ne dispiace per te, Alfredo, Alfredo mio, per te, che non ti dò che pensieri e dolori, io, che ti vorrei così felice, così spensierato!
E vedi, è egoismo anche questo, si soffre più per la sofferenza della persona che amiamo che per le nostre proprie: ed è naturale; non la consideriamo essa come parte di noi stessi? Ma come parte migliore, più nobile, dunque maggiore è il dolore che proviamo se essa viene colpita. E poi noi donne siamo avvezzate fin da bambine a rassegnarci, a sopportare, a far sacrifici di tante e tante cose, siamo avvezzate fin da bambine a sentirci ripetere “non sei che una povera donna, non avrai che da soffrire”.
Ma questo ci fa bene, frena quella baldanza, quella spensieratezza che è propria della gioventù e ci fa entrare in noi stesse e prepara l’animo nostro a sopportare, più rassegnatamente che gli uomini, prima i piccoli indi i grandi dolori.
Alfredo, Alfredo, questa mia lettera ti fa male, molto male, lo vedo, lo sento, ma la tua Clelia ha tanto bisogno di sfogo, ha tanto desiderio di vederti e non vede che un cielo bigio bigio, monotono, plumbeo, ti vuole tanto bene e sta tanto male.

Parma 10 settembre ‘88

Alfredo mio,
il cielo è grigio, grigio, l’aria umida e fredda: una giornata triste e monotona che pesa su l’animo nostro con penosi presentimenti, con tetri fantasmi. Ed io ti mando viole e gaggi perché il loro profumo ti dica tante, tante cose che la penna non può scrivere. Ti dica che io ti voglio un gran bene e che ho un prepotente desiderio di sentire la tua voce mormorarmi amor mio, Clelia, sentirti dire che verrà anche per noi un tempo di piacere, di amore e di pace: tu dici che non hai a lamentarti del freddo dell’anima, perché, vedi, quando si ama e si è riamati non si ha, no, freddo nell’anima.
Te le dice tutte queste cose, il loro profumo dolce e delicato. Ti dice che vorrei correre al tuo fuocherello, aspettarti con ansia e farti mille carezze e dirti mille sciocchezze.
Alfredo, la tua lettera mi ha fatto bene al cuore e te ne ringrazio.
Ma ecco, c’è un punto nero. Perché dirmi quelle brutte parole “tutte le donne tradiscono l’amante” il marito. Non ti vergogni di dire tali cose? Non offendi me, tua madre?
Tu non hai conosciuto, Alfredo, che una parte di noi donne; e la parte più degna di compassione e di disprezzo. Ignori, o piuttosto vuoi ignorare che ne esista un’altra buona, virtuosa, attiva che è onesta e pudica non per mancanza di occasioni o per freddezza, ma per un sentimento profondo infusole dall’educazione ricevuta in cui vive. E tu non devi dimenticare che quest’ultima è in numero maggiore della prima.
Ma è inutile che io mi sforzi a persuaderti di questo. Hai, a dire il vero, una testolina un po’ dura e quando essa pensa, sostiene che una cosa è così, deve essere assolutamente così.
Da bravo, Alfredo mio, ragazzaccio mio, metti giudizio, vogliami bene, non oggi soltanto, ma sempre, ed abbi fiducia in me. Per esempio, credimi un’eccezione alla regola … sarai più tranquillo così mio furibondo Otello? Sono tre giorni che sono in pieno esercizio delle mie funzioni: cioè che vado a due lezioni alla Scuola Normale. Augurati che ogni corso è composto di più di 60 ragazze! Naturalmente sono tutte entusiasmate di me: mi dicono sfrontatamente in faccia ma piene di civetteria, che sono un angelo di bellezza e di bontà. Lo credi tu pure? Ne dubito.
Del resto mi piace molto insegnare ed è per me di grande soddisfazione essere capace tenere disciplinatamente una scolaresca così numerosa.
Alfredo, è proprio vero che tu vai a casa alle nove? Sei proprio un così esemplare Alfredo? Eccoti un bel bacione per ricompensa. Ma fai una faccia da bimbo imbronciato…
Via, via, sta tranquillo e addormentati sempre nella dolce speranza, anzi nella persuasione che verrà quel giorno di amarci di più.
Tua Clelia
Quelle che seguono sono invece due lettere di Adriana, forse una ragazza che Panzini conosce a Milano durante il periodo di insegnamento.

Lettera indirizzata a: Distinto Signore Alfredo Panzini

Via Montebello N. 20 – Milano
17-3-89
Signor Alfredo,
mio Dio che fretta!… Ansioso di mettere fine al suo scritto ha dimenticato persino la firma. Bene! Crede forse che questa noncuranza mi faccia piacere?
Ammesso poi che ieri per lei era una giornata di riposo, mi sento davvero fiacca e sconsolata. Mi ha detto, se non erro, che mi vuol bene; … forse perché mi vede bella?… No, signor Alfredo, s’inganna, non posso permettere un altro errore, quindi, per farmi piacere, smetta quei continui complimenti che danno nei nervi e sorrida con meno generalità. Desidera parlarmi!… Sa il cielo quanto l’aneli io pure, sentire la melodiosa sua voce, fissarlo negli occhietti belli, deve essere gioia infinita, ma a me non concesso. Però se mi vuol bene, pensi; chissà che l’affetto non suggerisca cose impossibili! Ha chiesto pure il mio ritratto nevvero?… Anche qui è necessario un rifiuto. S’immagini che ne posseggo una sola e sono unita a mia sorella in un gruppo. Al contrario s’ella volesse favorirmelo, gliene sarei riconoscentissima. Non l’ha?… Ebbene, lo faccia fare! mi dia una prova che non gli sono indifferente!… Non dubito della risposta e l’attendo ansiosa; è tanto buono e compiacente!…
Alcune volte non mi posso capacitare come un visino sì grazioso parli di prova… sì professore, prosaico, prosaico; già non mi dovrei far meraviglia; la prova è l’elemento particolare dell’uomo, (così dicono) ed io sono addolorata di vederlo lei pure nel numero. Non dico di non alimentarsi chè allora si morirebbe; ma vivere per mangiare poi…… Ammiro la prepotenza nel obbligarmi ad avere rispetto profondo per la sua pipa… poveretta!… è un bene che non mi si avvicini, altrimenti conoscerebbe troppo presto il genio della distruzione. Si può dar di peggio!… tutti mi fanno la corte? Signor Alfredo ha mal compreso! Chi mai!… Parlavo delle freddure dei giovanotti, insipide freddure e nulla più; via non me li rammento e non so s’erano suoni intelligibili o parole. Avevo ideato di scrivergli una lettera breve breve, asciutta asciutta tanto per rendergli pan per focaccia invece… l’uomo propone e Dio dispone; mi sono dilungata fin qui. Basta, basta, smetto subito con un affettuoso saluto.
Adriana

Lettera indirizzata a: Distinto Signor Alfredo Panzini

Via Montebello N. 20 – Città
Casa 1 di notte 4 – 4 – 89
Avete ragione, signor Alfredo, sono proprio spensierata ed irriflessiva, e spiacemi che a mio motivo voi perdiate della vostra reputazione. Perdonate, sono come una bimba viziata, non trovo ben fatto che ciò che mi fa piacere.
Però io vi voglio bene, molto bene, e questo forzato distacco mi cagiona grande dolore e profondo solco nella mia vita. Vedete, sono turbata da mille angosciati pensieri, non posso lasciarvi senza una lagrima amara; mi sembrate tanto buono… siete tanto gentile nel vostro sguardo… nel vostro sorriso!…
Sono qui sola, sola nella mia cameretta, turbata soltanto dal cadenzato tocco della pendola; e sono tanto triste… un nodo alla gola m’impedisce il libero respiro… Oh!, non ho mai sofferto tanto!… chiudo gli occhi perché mi sembran umidi, e davanti mi si para la vostra immagine!… Perché mi perseguitate?
Non sentite che non resisto all’erompente baldanza del mio affetto! Vorrei avervi vicino e dirvi tutto questo affanno che sento in petto; voi forse sapreste addolcire le mie pene. Vorrei non avervi conosciuto, vorrei non avervi amato. Vorrei essere invecchiata di vent’anni affinché questo presente doloroso fosse annebbiato dal tempo, vorrei essere morta…..vorrei appoggiare la mia testa sulla vostra spalla, bearmi ad un vostro sorriso, il primo e l’ultimo. Come sono triste e stanca della vita.
Eppure v’ha uno scampo, chiedetemi al padre mio, oh! Egli non mi vorrà infelice!… Esponete alla mia famiglia l’affetto sentito, prometto di non indietreggiare davanti a qualsiasi ostacolo. Se mi volete quel po’ po’ di bene che dite, non vi deve riuscire penoso.
Sig. Alfredo, voi siete buono, me ne avvedo e il vivere con voi deve essere un paradiso di delizie…, le sollecitudini devono rendere casa questa povera esistenza a chi la sente raddolcita dall’ebbrezza della felicità.
Altro non dico, pensate al mio affetto; ed ora tocca a voi rispondermi lealmente.
Vostra Adriana
Clelia ed Alfredo si sposarono a Parma il 28 luglio 1890 e la moglie ha sempre seguito da vicino il marito, ottenendo un posto di insegnamento (lei insegnava disegno) prima a Milano e poi a Roma.
Oltre all’insegnamento, Clelia è stata un’ottima pittrice, realizzando esposizioni in Italia e all’estero. Alla sua morte, avvenuta a Bellaria il 15 agosto 1954, i quadri che erano conservati nella “casa rossa” in parte furono rubati, alcuni furono donati all’Amministrazione comunale, altri venduti dal figlio Piero.
Anche Clelia Panzini riposa nel piccolo cimitero di Canonica di Santarcangelo, accanto al marito.
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