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Bibliografia

Le tre fasi di Panzini

Se si dovesse trovare una formula per esprimere sinteticamente la storia della fortuna critica di Panzini, non potremmo non concordare con il titolo, Il caso Panzini, scelto da Tommaso Scappaticci, autore nel 2001 dell’ultimo studio sistematico sull’intera opera del nostro scrittore.
Con questa definizione Scappaticci intende porre l’accento sulla singolare sorte di un artista, la cui “bibliografia critica nel periodo tra le due guerre è più ricca di quella che possa vantare qualunque altro scrittore italiano e che annovera i nomi più noti della cultura del tempo, senza distinzioni di carattere estetico o ideologico”, passato da un invidiabile successo, sia di pubblico che di critica, nell’ultimo trentennio della sua vita, ad uno sconsolante oblio solo qualche decennio dopo la morte.
Percorrendo rapidamente, e ovviamente con notevoli semplificazioni, la storia della fortuna critica panziniana si possono individuare tre fasi:

  1. l’assoluto anonimato degli inizi;
  2. il notevole successo raggiunto negli anni immediatamente precedenti al primo conflitto e proseguito, con naturali oscillazioni, fino alla morte (1939);
  3. il definitivo accantonamento e la catalogazione tra i “minori”.

Nell’orbita dei vociani

Nonostante i due importanti interventi di Gaetano Negri, insigne personalità politica e letteraria del tempo, e di Luigi Capuana, Panzini entra effettivamente nel dibattito letterario nel 1910 grazie ai contributi di Renato Serra ed Emilio Cecchi, che per primi designano lo scrittore come un “piccolo classico”, erede della migliore tradizione della prosa italiana.
In particolare l’interesse di Cecchi non è casuale, ma si inserisce in quello più generale di un gruppo di letterati (Giovanni Papini, Giovanni Boine, Clemente Rebora) gravitanti nell’orbita de “La Voce”, la mitica rivista fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini. Questi intellettuali vedevano in Panzini un valoroso alleato contro il dilagare del dannunzianesimo, che con il suo sgradevole e ostentato sensazionalismo stava, a loro giudizio, minando lo spirito autentico della letteratura.
A partire da questa, seppur tardiva, “scoperta” Panzini diventa un autore non solo famoso (il suo nome è spesso accostato a quello di Pirandello!) ma pure molto venduto, tanto che dalla quantità di opere e di collaborazioni giornalistiche è evidente la sua consapevole adesione a quelle logiche di mercato che nei primi lavori aveva velatamente condannato. Proprio per questo motivo, il grande Piero Gobetti accusò Panzini di essere l’alfiere di quell’editoria (simboleggiata dalla casa editrice Treves) che mirava al profitto più che alle qualità delle pubblicazioni, rendendo così concreto il pericolo di una spaventosa massificazione e standardizzazione culturale.
Nonostante qualche piccola riserva, Panzini si guadagna il sostanziale favore dell’establishment letterario, non solo quello ufficiale dei colleghi accademici, ma persino quello della più grande personalità culturale del tempo, Benedetto Croce, il “terrore dei vivi e dei morti”, che, sebbene giudichi manieristica ed inconsistente la produzione tarda dello scrittore, gli concede un’autentica vena poetica.

Verso l’oblio

Dopo la morte, tuttavia, l’opera panziniana piano piano scivola sempre più silenziosamente verso l’oblio, e, tolto il commosso omaggio all’“ultimo degli artisti umanisti” di Luigi Russo, il passato consenso sparisce.
Alla inappellabile scomparsa di Panzini dal novero degli autori fondamentali delle nostre lettere (si ricordi che ancora negli anni ’50 Nardi dà alle stampe un’antologia di scritti panziniani per le scuole superiori) contribuiscono in modo decisivo Antonio Gramsci e la critica marxista, in primis Carlo Muscetta, che disprezzandolo al limite dell’irrisione, lo relegano tra gli esponenti dimenticabili della cultura piccolo-borghese nel senso più deteriore del termine. Gli interventi critici successivi alla stroncatura gramsciana, se si esclude l’originale saggio di Raffaele Girardi del 1977, hanno una valenza puramente storiografica, senza alcun carattere propositivo, si preoccupano soltanto di trovare a Panzini una collocazione nella storia della nostra letteratura, dando per acquisita la sua definitiva uscita dal dibattito culturale contemporaneo.
Una ragione della decadenza della fortuna panziniana va ricercata senz’altro nell’eccessiva “attualità” della produzione artistica dello scrittore, molto vincolata alla piccola borghesia rurale, che, prima, viene fiaccata e svigorita dalla crescita irrefrenabile del sistema capitalistico-industriale, e poi finisce annichilita e annientata dalla sconfitta del fascismo, che per molti versi costituiva la sua ultima speranza di riscatto. I temi prediletti da Panzini, figli del periodo storico e letterario in cui avvenne la sua formazione artistica, nel secondo dopoguerra vedono annullare la loro carica propositiva e polemica, per retrocedere, a causa della loro particolare contingenza storico-sociale, quasi al ruolo di resti archeologici di una civiltà definitivamente tramontata.

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