Aldo Spallicci

Il testo che segue, di Aldo Spallicci (deputato alla Costituente e poi senatore della Repubblica, medico e personaggio influente della cultura romagnola del Novecento, nato a Santa Croce di Bertinoro il 21 novembre 1886 e morto a Premilcuore nel 1973), è tratto da “In Romagna con Panzini”, pubblicato su “Vie d’Italia”, ottobre 1963, nel centenario della nascita di Panzini.
 
"Era tutto felice quando poteva salire in treno e piantar lì la scuola e i "regazzini", e venirsene alla sua romita casa di Bellaria sull'Adriatico. Il silenzio era turbato solo dal fumoso trenino che passava sotto alle ore ben note, per cui si potevano chiudere a tempo le imposte a impedire l'aggressione del fumo nelle stanze. Del resto era il fruscio del vento fra i pinastri e l'eterna canzone del mare. Felice come quando sulla soglia dei quarant'anni poteva dare un addio alla scuola e, "dall'alto della sua vecchia bicicletta", oltrepassare il dazio milanese di Porta Romana e iniziare l'itinerario della Lanterna di Diogene che, pur attraverso varie deviazioni montane, aveva la stessa meta bellariese. Talvolta "apriva la finestra prima che si levasse il sole. La finestra dà sul mare verso l'oriente: tutto il ricamo delle stelle ardeva ancora; poi quella luce azzurrina schiariva: poi la palpebra del sole si apriva". Salutava la rossa aurora e, indossando un accappatoio che gli dava un curioso aspetto fratesco e calzando un imbuto di berretto bianco, faceva la sua passeggiata lungo la spiaggia.
La casa, la "casetta sul mare", era sua. Era riuscito lui, povero professore di liceo, a farsela, mattone su mattone, con quei "quattro stracci" che parevano rappresentare tutto il suo patrimonio. E aveva voluto scriverla sulle pareti la parola dello sprezzo e della povertà: "stracci stracci", quasi per gridare ai quattro venti la sua orgogliosa proprietà, affermarsi nonostante la sua pretesa povertà.
Ora sulla fronte che dà sulla ferrovia un marmo dice di lui (l'epigrafe, dettata da uno dei figli, parla così: "Dal sole dal cielo dal vento ispirato / in questa casa / Alfredo Panzini / scrisse pagine umane / che il tempo non disperderà/"), e sulla parete che si presenta a chi varca il cancelletto all'ingresso, sale una parietaria a rivestire la casa di un fresco verde silenzioso. E andava sostando e socchiudendo gli occhi dietro le lenti davanti alle carni abbronzate di qualche bella bagnante, perché non era insensibile al fascino della bellezza femminile, lui che aveva rievocato con tanto vivo compiacimento "le candide carni" e le "meravigliose pupille di Lesbia".
Così, un giorno si era accompagnato alla fiorente giovinezza di Renato Serra, mentre "le onde azzurre si venivano umilmente a smorzare su le arene, i grandi corpi delle donne, distese su la sabbia, entro gli accappatoi, volgevano verso di noi gli occhi indolenti".
Un mare accogliente e non insidioso come quando tirava il "garbino" (affrico, libeccio), che soffiando da terra cancella ogni traccia di onde e invita gli inconsapevoli a tuffarsi, "invece il mare porta in fuori e lavora sotto le bugie dell'arena". E gli inconsapevoli finiscono per non trovare più la via del ritorno. Lungo quel suo mare dove sotto quattro frasche e un tavolaccio si affettavano le rosse angurie che, "come dicono a Napoli: si mangia, si beve e si lava la faccia".
Nella sua "casetta" aveva scritto La Madonna di Mamà, Il bacio di Lesbia, e vi aveva incominciato Il padrone sono me, in cui si narrano le agitate vicende del periodo che seguì alla guerra del 1915-18, quando il disagio e le delusioni avevano preso il sopravvento e i contadini e i braccianti facevano paura ai "signori" proprietari delle "ville", sparando schioppettate nella notte e cantando "viene Lenin!".
Lo ricordo negli ultimi anni di sua vita, quando, sulla soglia della villa, congedandosi mi aveva tenuto a lungo la mano nella sua "... e tenetevi fedele alla Romagna, il paese ove c'è ancora qualcosa di buono e di onesto". Non c'erano, allora, i torbidi giorni della minaccia comunista, ma il mito del "padrone sono me" era suggellato col pugno delle costruzioni di una Roma di cartapesta. Panzini aveva finito da poco la storia di Catullo e delle bastonate che s'era buscate da certi squadristi del suo tempo. "Alcuni scherani di quello svergognato di Mamurra" gli s'erano fatti incontro "con certi loro randelli" e l'avevano conciato per le feste. Ma questo succedeva ai tempi di Catullo e di Clodia. E Panzini strizzava l'occhio.
Oltre alla sua "casetta", egli amava le aie assolate del contado, ove appunto si svolge tutta la vita del figlio Mingòn, Zvanì, che si finge autore del romanzo. Qui c'è no solo la viva voce popolare, riportata con fedeltà fotografica, ma tutto il costume e tutta la mentalità della gente dei campi che egli prediligeva. Chi voglia entrare nel mondo di questi lavoratori, non vada ad ascoltare le concioni dei capi-popolo, e non legga i giornali politici, ma scorra le pagine di Panzini. Un'umanità davvero a contatto con le stagioni e con la durezza della vita, che segue il corso degli astri e ne trae ammaestramenti e timori, che interpreta a suo modo la religione e il mistero dell'al di là. Gente che considera i "poeti" uomini fuori della realtà, un po' bizzarri, anzi matti del tutto.
Le case, le vecchie case coloniche, coi pagliai di paglia e di fieno e coi nidi delle rondini alle grondaie, le rondanine, che, al dire della padrona, lanciano un piccolo grido come un riso di bambino.
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