Luigi Pasquini
Luigi Pasquini nasce il 13 febbraio 1897 nel Borgo San Giuliano a Rimini e muore il 20 marzo 1977. Insegnante di disegno, pittore (fatta eccezione per alcune opere a pastello del secondo decennio del '900, la tecnica impiegata da Pasquini è quella dell'acquerello), scrittore e pubblicista (ha svolto una vivace attività giornalistica sia su testate locali che regionali e nazionali), è stato un punto di riferimento nel dibattito culturale riminese. Ha stretto amicizia con Alfredo Panzini, ma anche con Marino Moretti, Manara Valgimigli e Antonio Baldini.
 
"Alcuni anni fa Pasquini insorse contro Carlo Muscetta, colpevole di aver detto - sulla scia di un frettoloso giudizio di Gramsci - che Panzini nutriva odio per le masse, paura e repulsione quasi "estetica" per gli operai che scioperano e per i contadini affamati di terra…
Luigi Pasquini: Panzini che odia…!? Ecco una cosa strampalata; lui, tutto candore, lui che un giorno mi scriveva: "La parola malanimo verso alcuno, mi è ignota!" Panzini che odia le masse, che odia i contadini? Egli che, capitando al mercato, comprava questo o quell'indumento per i suoi contadini. Una volta, acquistando un paio di pantaloni per Pinotti (Finotti, ndr), suo mezzadro, mi disse: "Non posso vederlo, codesto eroe moderno, lavorare con i calzoni rotti!"
Sergio Zavoli: Per quali amicizie Panzini nutriva il maggior rispetto, a quale umanità maggiormente si interessava?
L.P.: A parte le amicizie ad alto livello, cioè con i membri dell'Accademia (con i quali del resto non familiarizzava affatto), gli piaceva intrattenersi con la gente comune: pescivendole, sensali, contadini, marinai!
Non di rado lo si vedeva in piazza, a Rimini, confuso tra la folla al mercato, con il cartoccio del granturco in saccoccia o alla fiera del bestiame di Sant'Arcangelo. Contemporaneamente curava i suoi interessi di agricoltore e di scrittore, trascrivendo su pezzetti di carta i modi di dire che coglieva sulla bocca dei propri interlocutori, modi di dire che andavano poi ad aggiungersi al materiale per una nuova edizione del suo "Dizionario moderno".
Ebbe caro Marino Moretti. Durante il tempo di Bellaria non passava giorno, si può dire, che l'uno non andasse a Cesenatico o l'altro non si recasse a Bellaria. Panzini, sempre dubbioso, leggeva spesso a Marino le sue pagine prima di darle alla stampa.
Altra amicizia particolarmente cara era quella di Antonio Baldini, al quale, morendo, lasciò la bicicletta, la compagna del "Viaggio di un povero letterato" e della "Lanterna di Diogene".
Amava i bibliotecari, benché lui, a casa sua, non conservasse libri. Uno di questi fu Carlo Lucchesi, della Gambalunghiana di Rimini, col quale si intratteneva spesso parlando dei classici e compulsando vocabolari su vocabolari.
S.Z.: Come poté conciliare un carattere così libero, così indipendente, con i tempi difficili che allora correvano?
L.P.: Beh… ti citerò un esempio. Un esempio che vale per tutti. Ricordo la commemorazione pascoliana del 21 settembre 1924, durante un periodo assai agitato di vita politica italiana. Matteotti era stato assassinato nel giugno dello stesso anno! Panzini parlò nella sala dell'Arengo, a Rimini, presente Mussolini. Il luogo metteva veramente paura: gremito e nero di squadristi armati fino ai denti, calati dal Montefeltro, venuti dal litorale, dalla bassa ferrarese. Anche le piazze e le strade erano piene di gente armata, in febbrile attesa di ordini.
Quando Panzini cominciò il suo dire, già per l'aria c'era un sentore di intolleranza. Mussolini gli stava seduto di fronte. Secondo gli accordi, Panzini doveva leggere diciotto cartelle dattilografate, con interlineo a tre punti; roba da dire in trenta minuti, non volendo accelerare! Lui, viceversa, impiegò un'ora e mezzo, cominciando a scandire e a far più frequenti le pause proprio nei momenti in cui i clamori montavano con le grida di "basta".
Gli stavo a lato. Leggevo ciò che stava scritto nelle cartelle contemporaneamente a lui. Pensavo: qui va a finir male. Alla settima cartella mi accorsi, terrorizzato, che oltre alle pause e alla lentezza veramente esasperanti, cominciava con le aggiunte non comprese nel testo; assente, cattedratico…!
Da un momento all'altro mi aspettavo che uno squadrista venisse a prelevarlo. Mussolini gli stava addosso con gli occhi e la sua calma, anche se pareva tale, era cosa che effettivamente faceva impressione. La massa, furente, gridava ogni sorta di improperi contro Panzini. C'era la squadraccia di Dumini, quello di Matteotti, che reclamava da Mussolini le mani libere per la progettata notte di S. Bartolomeo!
Panzini di quella giornata campale dirà:
"Nello sfolgorante mattino di settembre, Rimini presentava l'aspetto fantastico del campo dei Crociati che si desta. Invece di Crociati erano fascisti, accorsi dalle Marche, dall'Emilia, dalla Toscana. L'arrivo di Mussolini nella piazza urlante di sole e vessilli è stato qualcosa di impressionante. Forse così doveva arrivare Garibaldi; solo che, allora, le "camicie rosse" sospingevano la carrozza, ed ora le "camicie nere" sospingono l'automobile.
Sotto, la piazza tumultuava perché voleva sentire lui, Mussolini! Io ero alle prime battute del mio discorso e i volti degli amici e conoscenti mi apparvero esterrefatti per amore e per pietà verso di me. Grazie! Ma niente paura. Decisi di andare avanti adagio, anche con maggior calma, alzando quanto più potevo la voce, ma con una lentezza esasperante; e appunto nei momenti in cui andavo adagio mi rivolgevo a quei signori del "basta" e del "torna al tuo paesello!"
Ecco la conferma, inedita, di quel che io stesso ho visto. A cose fatte Mussolini gli si fece dappresso e disse: "Vi siete affaticato troppo, professore!". E Panzini, tergendosi il sudore: "L'ho fatto per Vostra Eccellenza, signor Presidente! E, se permettete, per la cultura delle masse!" Mussolini ammiccò e gli strinse la mano.
S.Z.: L'hai sentito dolersi della sua semplice vita? Che cosa, di preciso, realizzava in Romagna?
L.P.: Ti dirò che Panzini, come Pascoli, non si è mai trovato bene dentro "l'orrida città". Di sé aveva giustamente uno smisurato, ma sconfortato e casto orgoglio, una nascosta tristezza provocata dalla noia di vedersi attorno tanta mediocrità. Avrebbe voluto essere più compreso dai contemporanei, forse per il bisogno che sentiva di ricambiare amore e comprensione. "Ho dovuto scavare entro me stesso - confessò un giorno - e ciò è cosa dolorosa!"
"Umiliato nella carriera, respinto o posposto nei concorsi a cui dovetti partecipare per vivere, travolto in molte traversie familiari, ho mutato il dolore in quello che qualcuno, benevolo verso di me, chiamò umorismo; e che è nato, se c'è, io non so come!"
Insegnante di scuola media a Milano, poi a Roma per 40 anni, la sua mente era sempre fissa là, a Bellaria, alla "casa rossa", la "casa cantoniera", dove la sua fervida vita era questa: lavorava fino alle dieci, dalle dieci in poi si dava alla amministrazione rurale e ai sopralluoghi alle nuove piantagioni; poi mangiava e si buttava a letto; nel tardo pomeriggio passeggiava, solo, per le strade di campagna e per quelle che conducono al mare o riceveva qualche visita o faceva una corsa in macchina coi figlioli nei poderi poco lontani.
Questa vita di libertà, una volta, a Roma, gli fece esclamare: "Quanto era meglio, quanto più sicuro, mangiar piada assiso a un focolare di Romagna piuttosto che essere maestro nella Capitale alli ragazzini delle scuole tecniche! Non pe' li poveri ragazzini, che sono buoni e non ne hanno colpa, ma per quel che se magna ogni dì e per il veleno che se beve; mentre in Romagna, con la piada, si mangia galletti d'estate e salsicce d'inverno; e vino, si beve!"
S.Z.: Che opinione aveva Panzini del mondo ufficiale, accademico, ministeriale?
L.P.: Ai colleghi d'Accademia dava dell'eccellenza, addolcendo alla romagnola la zeta in esse! Mi raccontava Ugo Oietti che Panzini partecipava alle sedute plenarie con le tasche piene di schede e schedine di ogni forma e origine, magari il rovescio di una busta o di una bozza di stampa, e s'andava a sedere accanto al giurista o all'archeologo, al filologo o all'astronomo e, sottovoce, educatamente scusandosi, domandava che cosa volesse dire veramente quella nuova parola che aveva udito in un discorso.
La sua opinione sul mondo accademico era fondata su considerazioni di carattere vario, complesso, qualche volta paradossale, in cui faceva spesso capolino l'ironia, la sua terribile e temuta ironia!
S.Z.: Che cosa lo spinse a prendere la via delle grandi città?
L.P.: Bellaria… era il suo luogo di produzione, mentre la grande città era il luogo per … smerciare il prodotto. La provincia è sempre la provincia e, per quanto voce robusta tu abbia, ti par sempre di gridare da dietro una inferriata.
S.Z.: Che cosa gli attirò l'accusa di reazionario, la più dolorosa e la più rifiutata fra quante gli mossero i romagnoli?
L.P.: Panzini nacque da famiglia benestante. Babbo e nonno materni furono medici. Doveva diventare medico anche lui e invece, vinto un premio per la Facoltà di lettere all'Università di Bologna, abbandonò l'idea della medicina e diventò letterato. Panzini non ha mai accettato per oro colato tutto ciò che produce la cosiddetta modernità. Volle sempre dire la sua, fu un originale. C'è poco da dire: fu un individualista! Era rimasto professore anche giù dalla cattedra…
Avrebbe voluto essere capito in ogni sua manifestazione. Oltre ai libri, scriveva articoli che buttava giù con la voglia matta di pestare i piedi a qualcuno. Ed erano spesso grane! E spesso accadeva che venisse tartassato sul marmo della vivisezione critica e politica. Più che reazionario, una frase abusata e senza senso se gli togli quello giusto e virile di colui che reagisce, direi Panzini conservatore, conservatore cioè di quel poco di buono che ogni generazione, passando, lascia nel mondo. Comunque, credo che l'accusa di reazionario abbia avuto la sua origine con la pubblicazione del "Libro dei morti", il primo lavoro di Panzini pubblicato sul finire del secolo; un libro attuale, ancora oggi utile per la revisione del termine reazionario.
S.Z.: Che cosa rappresentavano per lui i poderi, i contadini e certo benessere borghese?
L.P.: Lo dico con le sue parole. Rivolto alla moglie e ai figli, un giorno di aprile del 1939 (è morto il 10 aprile, il lunedì dell'Angelo!), approssimandosi la guerra e sentendosi di morire. raccomandò loro l'unico rifugio. la terra! I poderetti di Romagna, frutto di 40 anni di fatica. "Il pane, disse, non vi mancherà. Terra, significa il pane!"
S.Z.: Fu fedele fino in fondo alla Romagna? Egli non era stato sempre tenero con la sua terra.
L.P.: Figlio di Romagna, volle riposare qui. Questo basti. Ad Aldo Spallicci che era andato a salutarlo durante l'ultimo autunno romagnolo, disse: "Rimanete fedele alla Romagna! E' la terra ove rimane ancora quel po' di buono che resta nel mondo".
 
(Tratto da: Sergio Zavoli, Campana, Oriani, Panzini, Serra. Testimonianze raccolte in Romagna, Cappelli editore, 1959).