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Carlo Bo
Carlo Bo (1901-2001), nell’Eredità di Leopardi, si preoccupa di rievocare diffusamente l’adolescenza di Panzini, e in particolare gli anni trascorsi al collegio “Marco Foscarini”, responsabili di avergli lasciato nell’anima quel “sedimento d’amarezza e di risentimento” che lo accompagnerà, nonostante i successi personali, per tutta la vita.
Bo ricorda l’impatto devastante, sul quel ragazzo carico d’idealismo, dell’arroganza dei suoi compagni di scuola, dai comportamenti dei quali scopriva “il movimento della forza, della potenza, della ricchezza, dell’arbitrio e del sopruso”, che, a dispetto delle belle parole e della morale pubblica, governa implacabile la vita degli uomini.
Suggestiva la comparazione con D’Annunzio, in cui Bo legge la contrapposizione tra due concezioni antitetiche esistenziali prima ancora che letterarie. Bo sostiene che questi due scrittori sono un esempio di identità assoluta tra arte e vita, e che quindi il prevalere dell’uno sull’altro nel favore del pubblico ricalcava le oscillazioni del gusto e della morale. Non è un caso che il successo di Panzini, “vent’anni di trionfi, di applausi, di riconoscimenti della critica e dei lettori”, coincida con l’affievolirsi dell’euforia intorno al “profeta della gloria, del piacere e della libertà”, e Bo avanza l’ipotesi che la presa d’atto da parte dell’opinione pubblica dell’intima povertà, nascosta dalla magniloquente apparenza, dei miti dannunziani sia stata favorita dal magistero panziniano.
Bo è convinto che l’immagine presentata abitualmente da quotidiani e riviste di un Panzini umile e bonario alle fiere di paese mischiato alla folla di mercanti e compratori, sia stata un “farmaco” per le giovani generazioni, soccorrendole nel conservare “il senso delle proporzioni e soprattutto a non disprezzare il metro della realtà e della cose”. Insomma, per il giovane Bo, Panzini ha rappresentato un saggio invito alla moderazione contro la demoniaca hybris dannunziana.
“Forse Panzini, certamente il Panzini migliore, sta nella dura vocazione degli inizi, nel contrasto primo con la realtà. Bisogna per questo mettere in luce il fondo di forte resistenza degli anni dell’adolescenza, gli anni di scuola e soprattutto quelli del collegio a Venezia, beninteso non dimenticando di tenere il pedale sull’importanza determinante della vita familiare. La storia della sua famiglia è alla base della concezione sentimentale che lo scrittore ha della vita ed del mondo, né si esagera quando si dice che dalla storia della famiglia egli ha conosciuto, come il Pascoli, il volto chiuso e irrimediabile del male e del dolore. Ci sono a questo proposito continui ritorni nelle pagine della maturità: ricordate che il Panzini dei viaggi al momento di salire il Catria, nella notte di Scheggia-Pascelupo, è fulminato dal ricordo del disastro della sua famiglia e questo ricordo sarà così forte da essere identificato addirittura con i luoghi: il sentimento a un certo punto sovrasta, sopraffà tutto e diventa luce, memoria delle cose. I suoi erano, dunque, sentimenti concretati, tradotti in immagini sacre, o almeno inviolabili per una forte soggezione di carattere sacro. Dei suoi primi anni sappiamo poco, sappiamo soltanto quello che egli stesso ci dice in rari momenti di passione, potremmo nella luce di pochi singhiozzi ma quel poco che riusciamo a intravedere ha sempre conservato nella sua memoria un peso assoluto. La vita di Rimini, il fallimento della vita del padre, il dolore e le pene della madre e poi il senso della clausura e soprattutto il senso dell’ingiustizia, così come gli è apparsa per la prima volta a Venezia, in collegio, con l’aggravante della consacrazione ufficiale, delle giustificazioni. Si direbbe che da quei colpi di sventura il Panzini non si sia più sollevato, forse non ha neppure tentato di capirli, di trovare una spiegazione di carattere umano: no, il dolore il sopruso rimasero fino alla fine degli ostacoli chiusi, insuperabili. Anche da questo punto di vista la vicinanza col Pascoli è abbastanza notevole, se pure ognuno ha scelto poi la sua vocazione e ha cercato di reagire, di dare una risposta a quelle prime domande desolate, gonfie di amarezza e di pena. Naturalmente non tutti i dolori generavano in lui gli stessi risentimenti: è chiaro che allo smarrimento derivante dalla situazione familiare era forse impossibile trovare una ragione mentre sarebbe stato più facile trovare una spiegazione alla serie d’ingiustizie di cui è stato vittima nel collegio veneziano. Ma l’ingranaggio di queste prime delusioni non è troppo semplice: oltre l’ingiustizia, che dipendeva dalla diversa situazione di sangue e di censo degli studenti, il Panzini era rimasto sconvolto dall’abisso che era costretto a registrare fra le buone parole, fra le invocazione e le proteste della scuola o almeno del rettore del collegio e la pratica della vita, il comportamento dei maestri. Panzini rimase profondamente contristato e offeso, soprattutto si sentì paralizzato di fronte a questa scoperta che faceva naufragare di colpo tutta la retorica della morale, dei buoni sentimenti: in quel momento egli fece per la prima volta la conoscenza con un movimento dell’animo che lo avrebbe sempre umiliato e avvilito, il movimento della forza, della potenza legata alla ricchezza, insomma il movimento dell’arbitrio e del sopruso, con tutto quello che si trascina fatalmente dietro di ipocrisie, di menzogne e di vergogne camuffate e travestite. Questa amara conquista, questa prima verità restò alla base di tutte le operazioni dello scrittore e vi restò come un masso irriducibile, come qualcosa che nessun altro sentimento umano, anzi nessun intervento divino avrebbero potuto annullare: perfino nei giochi dell’ironia, nella frase della satira il Panzini a un certo punto si sentiva raggiunto da questa forma di paralisi, era la memoria di quel “male”, era l’atomo pascoliano che gli impediva di andare oltre, di superare il livello delle apparenze, costringendolo alla fine a delle semplici variazioni.
Purtroppo su questo punto non c'è stato progresso: anche al momento della guerra del ’15 che costituisce il secondo grosso trauma della sua storia, anche allora nel gorgo della disperazione, si capisce che la partita era stata giocata molti anni prima e che l’uomo era inerte di fronte agli avvenimenti e giudicava la bontà, inutile. Non c’è posizione più pericolosa, non soltanto dal punto di vista dell’evoluzione interiore, non c’è posizione più pericolosa per la vita della nostra anima e il Panzini si è portato dietro questo sedimento di amarezza, questo profondo risentimento: la convinzione, cioè, che da una parte ci sono le buone parole, i buoni sentimenti e dall’altra il libero intervento del male, della vergogna mascherata. Se si ammette questo principio, nessun credito può essere concesso al dialogo, anzi all’ambizione che lo spirito sia libero di costruirsi un’idea sua, di viverla, insomma si nega il diritto di vita all’idea prima di fede. Ecco su cosa si basa il viaggio il viaggio umano del Panzini o, meglio ancora, su cosa articola la funzione del suo viaggio: l’uomo, tutt’al più, può arrivare alla notazione, a mettere insieme parole e fatti, in attesa che la realtà della vita si diverta a provocare gli scoppi di delusione, di dolore, di sconfessione.
Naturalmente su questa trama abbastanza semplice lo scrittore ha costruito la sua opera, e come tutti sanno, l’ha costruita non di colpo, tanto meno per una grazia indeterminata, per arbitrio, ma la contrario attraverso una seria e profonda divinazione, costante e controllata. Fra il primo Panzini che più denuncia il peso delle sue letture e il Panzini che tutti conoscono, arricchito di tutte le grazie della Musa, non c’è soltanto una differenza di realizzazione pratica: i suoi progressi consistono piuttosto in conquiste d’ordine interiore: una volta lasciata intatta la parte della formulazione vera, c’era tutto il tempo per correggere, per sfrondare, per diminuire il calore del discorso e raggiungere quella semplice e lineare vocazione dei suoi dialoghi minori, in cui sta appunto il maggior risultato degli ultimi trent’anni della sua straordinaria carriera di scrittore. Si aggiunga ancora che il Panzini –non è mai stato uno scrittore precoce- ha dovuto faticare per raggiungere il piano sicuro della sua scrittura: se leggiamo i suoi primi racconti, se teniamo presente soprattutto quel racconto che passa come esemplare della sua prima stagione, La cagna nera, vediamo che a quel tempo egli credeva di poter intervenire su un fondo più importante e di poter operare qualcosa di concreto verso il limite stesso della verità. In parole povere, al tronco originale delle sue sofferenze egli aveva aggiunto una materia più ricca, meno personale: c’era, cioè, in lui la tendenza a trasferire l’esperienza personale su un terreno più vasto, anonimo, semplicemente umano. Soltanto con l’abitudine del viaggio, soprattutto dal momento in cui ha brandito come arma di scrittore “La lanterna di Diogene”, Panzini ha ridotto le proprie ambizioni, riportando tutto l’accento su se stesso: il che non è, come generalmente si crede, un atto di presunzione o do egoismo ma al contrario un atto di modestia. È da allora che egli ha accettato il metro della musa minore, operando una specie di ridimensionamento con la sua stessa vita, con la vita del professore.
[…] Voi sapete che Panzini era coetaneo di D’Annunzio; provate a rifare insieme la strada delle due vite. Tutti e due nascono in provincia, anche se Pescara era allora soltanto un piccolo borgo estivo per i baroni d’Abruzzo mentre Rimini o la stessa Senigallia, dove Panzini era nato per caso ma da madre marchigiana, erano centri di civiltà, con una tradizione di cultura. Per tutt’e due l’esperienza del collegio: D’Annunzio va la Cicognini ma come figlio si signori, Panzini va al Foscarini di Venezia ma come vincitore di una borsa (e come gli ricorderà il rettore, la sua pensione viene ricavata sulla retta pagata dagli studenti di famiglia facoltosa). Basterebbe confrontare i ricordi dei due scrittori per gli anni di studio: D’Annunzio scriverà il Compagno dagli occhi senza cigli, dove per l’appunto la realtà viene trasfigurata dal sogno e le ambizioni crescono all’ombra del mito di Napoleone. Panzini non riuscirà a nascondere nei suoi rari ricordi lo sgomento di quegli anni: la sua adolescenza ci è riportata nel gioco più povero della realtà truccata e menzognera e non ci sono sogni di gloria, al contrario c’è il tirocinio di chi nella vita si appresta ad essere sfruttato in nome della morale, della religione: tutte cose che diventeranno altrettanti tabù, che lui Panzini si guarderà bene dal rovesciare e a cui resterà attaccato in modo del tutto sterile e inerte. Ma continuiamo: Panzini quando esce dal collegio, imbocca la strada dell’Università e fatalmente quella dell’insegnamento, senza alcuna vera vocazione, ma per non aver saputo o potuto fare altro. Sapete invece la fortuna che tocca al D’Annunzio adolescente: da allora non c’è stata più possibilità d’accordo o soltanto d’incontro. A loro modo D’Annunzio e Panzini hanno rappresentato per le prime generazioni del ‘900 due modi, due concezioni di vita. A D’Annunzio era legato il mito della vita eroica, della vita predestinata, al Panzini era legato il gioco dell’ombra, del piccolo segreto, della vita minima. Involontariamente chiunque era portato a scegliere fra questi due modelli e forse un po’ meno involontariamente i due scrittori erano costretti ad assumere il peso delle rispettive rappresentazioni. Meno evidente la posizione del D’Annunzio verso Panzini, assai più chiara e diretta quella del romagnolo verso l’idolo della gioventù italiana e il profeta della gloria, del piacere e della libertà. Non si potrebbe dire con sicurezza quanto l’immagine del Panzini abbia fosse voluta rispetto a quella del D’Annunzio ma quello che è certo è che non è possibile fare a meno del confronto e non per nulla il periodo del successo pieno del Panzini coincide con quello del silenzio e della stanchezza intorno a D’Annunzio. Nonostante che l’Italia ufficiale tenesse a mettere l’accento sulle code dei poveri miti dannunziani e si guardasse al Vittoriale come al tempio delle aspirazioni più alte. Il confronto è inevitabile, direi che per molti anni è stato alla base d’ogni approssimazione critica sul Panzini, il quale finiva per apparire come un dio più umile ma anche più adatto alla nostra misura. Così tutte le volte che si pensava alla figura dello scrittore romagnolo che appariva nelle giornate di fiera sulla piazza di Sant’Arcangelo o di altri luoghi di Romagna, tutte le volte che la cronaca e la critica letteraria mettevano l’accento sulla bonarietà e sull’amore semplice dello scrittore di Bellaria, si finiva per pensare a un altro modo di fare della letteratura. Panzini, senza volerlo, aveva riportato il mestiere delle lettere nell’ambito della famiglia, della piccola comunità, della borghesia e per onestà bisogna dire che questo fatto ha avuto la sua importanza: a suo modo, l’esempio di Panzini è stato salutare; se pure involontaria, la sua medicina ha aiutato molti giovani a non perdere il senso delle proporzioni e soprattutto a non disprezzare il metro della realtà e delle cose. Badate che quest’atteggiamento, che lo stesso Panzini non ha mai sottolineato, un po’ per paura, un po’ per delicatezza, ha avuto sulla storia del costume italiano un peso superiore all’altro strettamente letterario.
[…] Panzini si era foggiato un “positivismo a suo modo” e aveva ristretto in modo energico i confini della felicità. Una felicità alla Don Abbondio, che povero ideale nell’Italia dannunziana! Ma insomma per Panzini “la felicità stava nel vivere in pace” e l’unico modo di essere uomo era quello di non fare”né l’esploratore, né il navigatore, né il conoscitore di eroi”, ma l’uomo disposto alla forma meno vergognosa di compromesso.
La vita viene ristretta all’obbedienza animale, tutto il resto è sogno, o illusione, o gioco. Il limite del commento, quello che generalmente viene definito ironia, è stabilito inequivocabilmente e per sempre.
La parte migliore resta pertanto legata alla memoria. Scrittore d’antologia, scrittore di belle pagine, Panzini non si è mai curato di studiare sul serio l’impianto del romanzo o di determinare un “tempo” delle sue storie. Se il limite restava quello della bella pagina, è facile capire come il campo di osservazione tendesse a bloccarsi su due o tre motivi.
[…] Quando si parla dell’umanesimo di Panzini si dice forse un’altra cosa: Panzini aveva rinunciato a trovare una spiegazione alla vita, e allora gli bastava avere delle conferme: conferme che scopriva nei libri, nella memoria e nella falsa trasformazione della realtà. L’umanista dava la mano al commentatore dell’attualità ma raramente la rampogna andava al di là dell’allusione, del sospetto a mezza voce: lo scrittore non aveva più fede, e al momento decisivo, quando sarebbe stato opportuno trarre la morale delle cento favole raccontate sempre con maggior abilità, con una ricchezza di mezzi che stupisce dopo tanti anni, Panzini preferiva fare uno scarto: gli bastava aver messo in luce tutte le occasioni di ridicolo o, peggio, di colpa e di errore, ma era passata da troppo tempo l’ora dell’altra morale, della morale che non ripete e che non consente alla rinuncia.
Non lasciamoci fermare dai, dall’inevitabile meccanicità che a un certo punto fissa uno scrittore che ha conosciuto la gloria e il successo costante quotidiano –qualcosa come vent’anni di trionfi, di applausi, di riconoscimenti della critica e dei lettori comuni-: il Panzini che a un certo punto accetta di fare il commentatore, di restringere la parte del coro alla voce dell’ironia leggera non deve farci dimenticare non solo il poeta che è vissuto con lui fino agli ultimi giorni ma neppure l’uomo della coscienza, l’uomo che non è mai riuscito a nascondere bene la propria ragione, ciò che aveva imparato dalla madre e ciò che dopo gli ha insegnato la terra.
È sempre difficile morire con dignità, ma nell’anno in cui è morto Panzini lo era in modo del tutto particolare: in un tempo che non aveva riguardi e sacrificava alle mascherate, Panzini ha voluto essere portato semplicemente, senza onori, nel cimitero di Bellaria perché fosse soddisfatto il suo voto: poca terra, una tomba al sole. Un desiderio, un esempio di modestia: non dimentichiamolo, ci aiuterà a capire che anche nei momenti di distrazione, quando gli veniva naturale cedere all’altalena dell’ironia, il vero Panzini non staccava gli occhi dalla sua terra di Romagna, dal sole e dal mare di Bellaria: quello è il suo metro, anzi quello è stato il Dio, l’oggetto della sua fede. Dimenticarlo significa escludere Panzini dalla vita stessa e farne un semplice strumento di letteratura. A vent’anni dalla morte in fondo non sembra che la sua parola non esalti questa costante nostalgia dell’uomo onesto, dell’uomo cosciente e convinto dei propri limiti.”- Log in to post comments