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Enzo Biagi
L’ultima personalità di rilevanza nazionale a rievocare la figura di Alfredo Panzini è stata Enzo Biagi (1920 - 2007), che lo ha inserito nel suo Dizionario del Novecento, un repertorio che raccoglie “gli uomini, le donne, i fatti, le parole che hanno segnato la nostra vita e quella del mondo”.
Per scrivere questo suo personalissimo “Novecento”, il grande cronista-scrittore attinge dallo sterminato archivio dei suoi ricordi e delle sue esperienze. Di Panzini traccia, con l’aiuto delle confessioni della moglie Clelia, un simpatico quadro domestico.
Panzini si guadagna pure una citazione alla voce “sesso”, che così comincia: “Diceva Alfredo Panzini che il pudore delle donne lo hanno inventato gli uomini”.
“Panzini, Alfredo - «Alfredo – mi raccontò sua moglie – era un tipo un po’ strano, ma qui in Romagna lo sono tutti. Per decorare il soffitto della camera da pranzo impose ai pittori, al posto dei consueti pavoncelli e delle solite roselline, una parola: stracci.
«Che cosa vuol dire? gli domandai meravigliata. Vuol dire che queste stanze sono state costruite con tanta fatica e con pochi soldi, a forza di lezioni di grammatica ai ragazzini e di elzeviri pagati male»
Mi accompagnò nello studio del «professore», come lo chiamavano i mezzadri. C’erano sulla scrivania i registri dei conti colonici, con le nascite e il peso dei vitelli, la resa del grano e delle verdure, le ricevute delle tasse pagate e qualche edizione dei classici latini.
C’era anche la «napoletana», la macchinetta con la quale, ogni mattina, alle 5, si faceva il caffè prima di mettersi a lavorare. Spalancava le imposte e sentiva il respiro del mare e il profumo della terra ancora umida di rugiada.
Gli piaceva vivere da questi parti: c’erano i suoi pochi amici, sensali, pescatori, ortolani, andava volentieri in piazza a trattare la compera di un paio di buoi o a vendere una nidiata di maiali. Veniva a trovarlo in bicicletta Marino Moretti, il solo letterato con il quale aveva confidenza.
A Milano e a Roma si sentiva in esilio, fuori dal suo mondo.
Indossò, forse con un certo orgoglio, la divisa di accademico d’Italia, con le frange d’argento e la feluca, perché stava a indicare una delle poche vittorie della sua vita: lo avevano umiliato come insegnante, bocciandolo ai concorsi, e qualche volta stroncato come scrittore.
Ha detto: «Ho mutato il dolore in quello che, qualcuno, benevolo, chiama umorismo»
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