Renato Serra

Nonostante la brevità della sua vita, il cesenate Renato Serra (1884-1915) è un gigante della critica italiana, lo studioso che meglio ha testimoniato, e vissuto, la crisi del letterato e dell’ideale umanistico nell’epoca della modernità trionfante.
Curiosamente, considerata la vicinanza tra Bellaria e Cesena, trascorrono ben tre anni di contatti epistolari prima che Panzini e Serra finalmente si incontrino nel 1912.
Panzini descrive con toni commossi la prima visita di Serra nella prefazione a “La Madonna di mamà”, dedicata appunto all’amico da poco scomparso sul fronte. Ne nascerà un'amicizia, anche se tragicamente breve, profonda e intensissima.
Da questi dati si nota che il saggio di Serra su Panzini, apparso sulla rivista “La Romagna” nel 1910, è composto precedentemente alla loro frequentazione.
Lo studio di Serra sancisce lo spartiacque della fortuna critica di Panzini. Il critico delinea un ritratto a tutto tondo, comprendente, oltre all’esame stilistico e formale, un gustoso ritratto umano. In questo testo, per la prima volta, è studiata l’influenza di Carducci, che Serra ritiene più morale che artistica. Serra nota che la scrittura di Panzini nasce da una serie di penosi ed irrisolvibili conflitti interiori che incidono a tal punto il tessuto narrativo delle sue opere da ridurre spesso i personaggi a personificazione di idee.
Per Serra, Panzini rappresenta, seppur in tono minore, la continuità della tradizione, tanto da conquistarsi l’appellativo di “scudiero dei classici”.
 
“La scuola non ha saputo cambiarlo e neanche la gran città; è rimasto semplice, bonario, con la sua natura schietta e coi suoi gusti casalinghi. È uno dei nostri; un po’ goffo, se volete; ma col cuore sano e l’anima generosa. Tutta quella così detta scienza, di cui la sua mente si è adornata, non lo fa né superbo né contento; ; egli in mezzo allo strepito di Milano sospira il suo paese e la sua lontana. […] Questi sono proprio i gusti di un romagnolo: egli li conserva schietti e li esprime semplicemente. Vi sa parlare del pane fresco e del buono vino sano del suo paese, della frutta saporita e delle lenzuola di bucato, che rinfrescano così bene il viaggiatore stanco nel letto di casa o anche in un letto di locanda, all’ora della siesta, alla quale il ciclista leva il suo inno: «O frescura delle lenzuola di bucato, o voluttà del buio nella stanza, con la coscienza che lentamente si spegne (vedendo però attraverso un tenue spiraglio della finestra l’immagine del gran sole!), o sonno senza sogni, senza visioni, senza sussulti! Quante poche parole mi accade di dormire così!»
Perfino nella letteratura egli porta questa sua semplicità; e « Io voglio molto bene », dice, «all'Ariosto; ma oltre che pe' suoi sogni sereni, molto io l'amo per le sue verità buone; fra cui questa:
 
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch'io cuoca, e cotta su 'n stecco m'inforco».
 
Le sue pagine sono piene di questa sensualità sana e lieta. Essa vi tocca il cuore di profumo paesano, così come quelle prime violette che la mamma ha colto per lui sulla ripa del viottolo che porta a marina, e gli ha inviato dentro una lettera.
Del resto, Milano e tutta quella civiltà e modernità lo seccano alquanto; l’abito nero delle cerimonie ufficiali gli stringe, i quartieri d’affitto son troppo piccoli e cari e senza scoperto; c’è troppo fumo, polvere, fracasso. O scapparsene in riva al mare, in campagna, a respirare l’aria pura e a godere un poco di pace! […] Egli desidera infinitamente il mare e la campagna; gli alberi e l’erba fresca, le casine pulite col pergolato intorno e il frutteto, e il gridio delle galline sull’aia nei chiari mattini. Ma il suo amore è sano e umano, non è idillio, non è ebbrezza dell’anima delle cose. Egli ama nei campi non meno la bellezza, la fragranza che la bontà e l’utilità; col sentimento di un antico egli trova che la vita ivi è compiuta della naturale operazione di ogni sua facoltà.
Quanto dolce sarebbe lavorare la terra e godersene i frutti per l’uomo condannato alla oscura noia dei libri e della città!
L’ideale suo è più di vita che di poesia. Egli guarda nei campi non solo il verde ma anche il contadino; lo guarda con occhio umanamente sereno, al quale i calli delle mani e l’indurimento delle giunture affaticate non sono meno visibili che il viso fosco e la cravatta rossa, e le bocche inasprite dall’urlo dell’inno.
Questo professore dalla cera bonaria è rimasto sempre, e sopra ogni cosa, un uomo, in mezzo agli uomini; i loro disordini e le lotte, i contrasti e le iniquità della loro condizione, non sono per lui uno spettacolo vano.
Se alcuna volta vi parrà che la sua intelligenza lo disponga allo scetticismo, sotto l’apparenza ironica voi troverete sempre la natura pratica e generosa del romagnolo; per il quale problema massimo dell’universo è l’assetto delle cose umane. Col cuore colmo di ansia egli interroga il destino e spia da che parte debba discendere fra gli uomini la giustizia e la felicità.
Vi par egli che questa natura sia un po’ troppo terra , rustica, provinciale?
Ma tale è il Panzini; e a pensarci un poco, è poi molto facile conchiudere che in tanta cosiddetta complicazione e artificialità della nostra letteratura, la semplicità di quest’uomo, dall’animo onesto e dal sentire limpido e schietto, deve pur avere il suo pregio e il suo profumo. Esso resta fra le pagine dei suoi libri come lo spigonardo fra le tele bianche: hominem pagina sapit.
[…] Ricordiamoci la sua condizione; di professore. In questa parola sola è racchiusa per molta parte il dramma della sua esistenza. E di quante altre!
Chi non lo conosce questo tipo così malinconicamente comune del buono allievo delle Muse, costretto a tirar la carriola e a girare la macina dell’insegnamento?
È il tipo mezzano fra i due estremi; del professore dagli occhiali e dalla fronte lucente, destinato a volare com’aquila nei cieli della scienza accademica e ufficiale; e del pover’uomo raggrinzito, accartocciato e rincretinito fra i registri, i colleghi, i compiti, i figlioli, la moglie, la serva, e i genitori degli alunni e i pettegolezzi della cittaducola di provincia.
Ma costui, come dicevo, sta in mezzo, con la sua figura un poco smorzata e sfumata e quasi stinta; con quella schiena un po’ gobba e quel soprabito forse un po’ frusto, intorno a cui aleggiando le ricordanze di Virgilio e di Dante suscitano un’impressione vaga, dove il sorriso si confonde con la tristezza.
Come si può essere stati giovini, generosi e audaci, avere goduto per lunghi anni la conversazione dei magni spiriti, avere amato la poesia o sognato forse la gloria, per ritrovarsi poi infine maestri di grammatica e di ortografia a una turba di fanciulli petulanti?
Questo è il destino di molti.
Ai quali la scienza e i titoli per i concorsi non valgono a riempire il cuore; né la lotta con gli scolari e con lo stipendio basta a disseccare al mente. Noi sentiamo a guardarli, per quanto ispidi e curvi nell’ingrato ufficio, che essi non erano nati a ciò; erano nati, come ogni altro uomo fra noi, a vivere e a amare e a guardare queste belle cose del mondo.
Si sono rassegnati, ma non sanno adattarsi; non sanno dimenticare la giovinezza e la poesia. Un’ombra ne corre ad ora ad ora sulle fronti, un rimpianto ne trema nella voce.
Tutto questo può essere qualche cosa di muto quasi e non avvertito; un’ombra appunto o una sfumatura, fra comica e malinconica. Ma può anche essere un senso più sottile e più ricco, un tormento segreto e molteplice; se non la ribellione superba del poeta, che distrugge nel suo spirito le coniugazioni e i registri e affonda in quel cielo che solum è suo, almeno il sospiro melodioso e arguto di Severino (“mentre con gobbe spalle va sfregiando/ nella scuola gli errori d’ortografia”) … e può essere anche la voce del Panzini.
Nel quale la contraddizione è inconciliabile fra la natura e il destino; ed è dissidio dell’umanista col pedagogo; della natività e sensualità del carattere con la servitù quotidiana; del poeta con la vita.
Il dissidio si sfoga nell’opera. Aggiungiamo che non vi si discioglie così come il dolore nel pianto o nel canto; ma dentro vi resta, e freme, e mormora, come acqua rotta da remolo in consumabile.
[…] Nella persona del Carducci il Panzini si trova di fronte a tutte le angosce e a tutti i desideri che seguitarono ad agitare la sua arte, e anche la vita. Egli era scolaro del Carducci. Questo è stato per lui suggello quasi di una seconda natura.
Egli poi è molto vicino a quella generazione, poca e scelta, dei veri scolari del maestro, pieni della sua voce e del suo nume, che in lui conobbero e conchiusero tutto l’ideale del loro spirito; candidissimo esemplare ne restava il buon Severino.
Dico il Panzini tiene molto di costoro; se non quanto il suo temperamento nativo e gagliardo ha consentito solo agli influssi più geniali. Né intera ha ricevuta la impronta carducciana nello stile; e né meno, lasciando stare i versi, che pare non abbia scritti mai, ha accettato l’abito, dominante nel maestro, dell’erudizione e della ricerca storica.
Ma l’ideale della vita e dell’arte e della generosa umanità da cui l’ha ricevuto; e brilla ancora fermo nel cielo della sua mente. Con tutte le sue contraddizioni e i mancamenti e i partiti presi.
Per il Carducci, lasciatemi accennar come posso, l’ideale veramente vivo è la poesia; sentita e amata non soltanto come pienezza lirica del cuore, ma come abito e gentilezza della mente, conversazione e comunione con i grandi, opera di civiltà e di nobiltà umana. La sua poesia è anche pratica, è storia, è patria, è aristocrazia; è sopra tutto umanità. Se non che i concetti che dal grossolano positivismo del suo tempo egli ha troppo spesso raccattato sull’indirizzo pratico della civiltà moderna, sull’utilitarismo e la democrazia, fanno nella sua mente grido e contrasto; gli rappresentano l’ideale suo per falso, retorico, scolastico; né egli riesce a sciogliersi nettamente dall’intrico, se non in apparenza, come quando riporta la poesia al passato, accettando che sia morta nel presente e nell’avvenire; oppure il suo temperamento poetico si rivolta, e sopra le incertezze del pensiero si afferma la prepotenza eterna e libera delle canzoni.
Ma il Panzini non mai uscito intellettualmente dalla forma del maestro. Egli era ed è rimasto innamorato della poesia, della cultura, della civiltà secondo i nomi e i sentimenti antichi; e pur convinto insieme che tutto questo sia falso e nomi vani: che il tempo speso sulle pagine dei gloriosi volumi sia perduto, e scemo il loro insegnamento; che il fine dell’uomo oggi sia affatto utilitaristico e democratico, e che il suo valore sincero debba avere una misura solamente materiale. Questo il suo istinto rifiuta, ma la ragione riconosce per vero, con alcuna amara voluttà: e lo spirito si dibatte fra i due contrari poli, senza mai trovare pace.
Nella “evoluzione politica” egli affrontava per la prima questo problema morale della sua generazione, combattuta fra la insufficienza dei vecchi ideali, e il vuoto il disgusto dei nuovi; e tentava di superarlo fingendo, nel nome del Carducci, un tipo dell’eroe, che mantenesse le ragioni della storia civile e della persona umana sopra la eguaglianza moderna delle masse.
La risoluzione era affatto superficiale; l’eroe mancava di ogni consistenza intellettuale e fantastica.
Ma se in questo si dimostravano i limiti dell’intelligenza del Panzini, che è più savia e chiara che non vasta o speculativa.
[…] In quanto ai tormenti del suo spirito, egli non si provò a risolverli col pensiero; ma, avendoli accettati con rassegnazione, si volse piuttosto a svilupparli e assaporarli con una sincerità fra dolorosa e curiosa.
Le novelle sono, con le loro qualità preziose di narrazione e di rappresentazione, talora un divertimento, talora uno sfogo dell’autore. Sovente si tratta di saggi, vibrazioni, divagazioni un po’ fantastiche e un po’ sentimentali; ma anche quando della novella c’è la favola e la forma esteriore, non c’è quasi mai lo spirito vero. L’interesse dell’autore non è nei personaggi, di cui gli accade di raccontarci la storia; è nel suo proprio cuore. La voce di lui parla su bocche diverse; la sua narrazione è sopra tutto un lungo e meditativo soliloquio, variato a tratti di immagini e di figure leggere.
[…] Quel che più spesso l’assale è il dubbio (ricordatevi del professore e della figura che gli conosciamo) intorno al valore e alla utilità della cultura, dei sogni e delle illusioni poetiche.
[…] Non v’inganni la piacevolezza del narratore a rilevare gli aspetti comici e anche un po’ ridicoli di queste avventure; in quei personaggi e in quei casi egli ritrova se stesso; e tuttavia la noia e la pietà, e il desiderio vano di giovinezza e di gioia che parla in quelle anime, è la voce dell’anima sua.
O giovinezza che passi e non torni, o amore che sorridesti e non sorridi, come quest’uomo, che sembra al viso così tranquillo, ti cerca dentro il suo cuore e ti piange!
[…] Il vero è che naturale argomento del Panzini è la sua propria vita, naturale espressione del suo spirito, è il soliloquio e la meditazione.
La novella sua par che non trovi in sé sola consistenza; i suoi personaggi sono figure e profili segnati con rapida bravura più assai che creature parlanti. Curioso per un momento della loro forma, egli le abbandona presto per ritornare sopra se stesso; e se pare che più a lungo le accompagni nei loro movimenti, si trova poi che è un’illusione. Non a caso i suoi dialoghi sono così stilizzati e generici; quasi tutti trascritti in forma impersonale, con le parole e le cadenze dell’autore. Egli non è mai osservatore schietto del vero; ne conosce soltanto quella parte che ha potuto appropriarsi e ricavare dall’interno suo.
[…] L’episodio notato dal novellatore diventa problema e meditazione per il moralista. Il suo pensiero balza per raffronti subitanei e inaspettati alle cime donde la vita appare come piccolo gioco di ombre nere sullo scenario vano; una vasta e solenne tristezza alita intorno. E se bene alcuna vilta la solennità è solo nella voce, intonata a una semplicità di sapiente, un poco posticcia, come la barba e il mantello di certi filosofi d’occasione, molto più spesso la efficacia di quel parlare è profonda, ricca di malinconica umanità. Tutti gli episodi della commedia scoloriscono a un tratto e perdono forma; resta innanzi a noi il teatro nudo e nudi e soli i grandi argomenti dell’eterno dramma; l’umano travaglio, con sue vanità e con la speranza inestinguibile, e la morte e l’amore …
Aggiungete che tutto questo è sentito non la mente pacata e curiosa del moralista, ma col cuore del poeta, che tutte le cose umane riconosce per proprie; e avrete intesa l’ultima nobiltà del Panzini. Poeta egli è per essa, e il suo luogo è naturalmente fermato, non importa se in alto o un poco più in basso, nella buona e antica e umana famiglia dei poeti e della nostra razza, creatori di bellezza e consolatori di uomini. Non ci inganni la eguaglianza del viso e la remissione del tono; la poesia è dentro, è la qualità intima e la segreta felicità di quest’uomo, di cui ci riesce così caro il semplice ritratto.
[…] Dice la gente alla lesta che Panzini scrive bene; e qualcuno lo pone già nel numero di quegli scrittori onesti e culti, la cui frequentazione si può consigliare agli scolari, per castigo della forma del dire. Non hanno torto; poiché la cultura si sente bene in lui, e l’abito della scrivere derivato dalla buona tradizione italiana, e un odore di classicità. Prendo un periodetto a caso. «Io sentivo in quel principio del viaggio il caro del fiore della giovinezza olezzare ancora sul mio dispregio del mondo, come un cespo di viole a ciocche sparge la sua chioma odorosa sopra un cumulo di miserande ruine». Dovrò io sottolineare quel caro fiore, quella chioma, quelle ruine consolate d’un buon aggettivo? Chi ha scritto queste parole, chi ha tradotto così agevolmente il suo pensiero in immagini non meno accademiche che decenti, è, come dicono, uno scudiero dei classici.
[…] Si sente troppo bene la intenzione studiosa e ritirata dall’uso volgare, non meno nella scelta dei vocaboli che nella forma del discorso; e poi quella pulizia fra il classico e il toscano, quella cotal gravità degli aggettivi premessi al nome e collocati in simmetria, quella veste solenne di cose semplici, rendono assai di lontano l’odore delle letture e dei buoni studi. Il quale è diffuso in tutte le pagine, e lo esprimono i latinismi della elocuzione, più o meno schietti, e tutte quelle inversioni e artifici e figure classiche della frase, che sarebbe ozioso illustrare. Classica è la consuetudine di sciogliere quasi le cose comuni nei loro elementi generici, sì da rappresentarne la forma con una certa solennità; come per il mangiar le anguille, e berci su: «i comacchiesi serbano alle loro amatissime anguille una tombali questo forte e sapido vino nei loro stomachi».
Classico infine è il costume di fiorire i discorsi anche umili di motti e allusioni letterarie; costume discreto del resto e parco, che non disconviene alla usata modesta dello scrittore.
[…] Amore religioso dei classici e studio assoluto di sincerità; questa lezioni egli, e i compagni suoi avevano appreso dal Carducci; e non già in frasi ambiziose l’avevano mandata a memoria, ma se n’erano resi ragione punto per punto nella conversazione degli scrittori e nella pratica e negli effetti dello stile.
[…] Dico che a rendersi conto della virtù di questo scrittore bisogna considerarlo nella sua qualità di poeta; non così grande forse, ma sincero. Io non guarderò ora molto a quelle abitudini così dette poetiche, che pur si potrebbero assai facilmente notare nella prosa di lui. Poetico secondo il sentimento comune è tutto ciò che si esalta un poco, al di sopra della quotidiana conversazione, non per un motivo praticamente apprezzabile, ma così per passione e per sfogo del cuore, e per bellezza, come dicono, per ornamento: e il Panzini cade spesso sotto questo giudizio, con tutte quelle sue esclamazioni e contemplazioni, sopra tutto con quella sua forma di parlare immaginosa, con quei tocchi di colore naturale e fantastico gettati con semplicità quasi epica in mezzo al racconto.
[…] Egli ha dalla natura, per quanto non sempre e con uguale felicità, il dono della espressione classica: voglio dire di quella espressione piena e definitiva che par che renda a tutto quello che tocca la tempra dell’oro. Sono salde come l’oro certe sue parole, limpide e pure e sonanti.
[...] La virtù non è nelle parole prese a una a una; è nella loro disposizione, che pare tanto lungamente pensata, e maturata alla fine nel punto più felice, è in quel non so che di puro e definitivo, onde restano quasi scolpiti i contorni e aperti e grandi gli spazi, e poca musica basta a colmarli d’incanto. Questa è quella qualità che siamo soliti a chiamar classica; quella qualità di bellezza durabile che appartiene alle parole tempestive e collocate nel luogo opportuno, alle cose ridotte da lunga contemplazione alla purezza delle loro linee essenziali; che nasce dalla modestia degli animi ben nati, quando aggiungono il più felice effetto col moto più lieve. E così ragionando in grosso par che si possa distinguere questa pienezza delle parole semplici, dette nel momento essenziale e con l’accento definitivo, da quell’altra sorta di effetti, realizzati non così di primo colpo e signorilmente, ma per ritocchi e approssimazioni successive, consapevoli e studiosamente acute; come si vede, in qualche modo, paragonando un verso di Lucrezio o di Virgilio (“pascentem niveos herboso flumine cycnos”) a qualche moderno, al sonetto di Heredia o a una pagina fluviatile di D’Annunzio. Allora si sente nella distanza fra la ricchezza scoperta numerata minuta dell’uno e la bontà quasi celata dell’altro, differenza d’animo e di qualità.
[…] Così nascono nelle sue pagine forme e figure umane; non crudelmente penetrate e incise, ma segnate appena con mano leggera; una sola pennellata di trasparente acquarello basta a rendere l’impressione del vivo, quando cada bene sul disegno magro.”
 
Le lettere di Panzini a Serra sono state raccolte e pubblicate da Alfredo Grilli: Panzini a Serra, Bologna, Aldina editore, 1940.
 
Oltre allo scritto citato, Panzini dedica a Serra alcune delle sue pagine più ispirate del Diario sentimentale. Inoltre su Il Cittadino di Cesena del 24 luglio 1921, Panzini traccia un ritratto dell’amico in occasione dell’arrivo della salma nel suo paese natale dopo sei lunghi anni.
 
Questo saggio, insieme ai principali testi di Serra, è contenuto in Scritti letterari, morali, politici: saggi ed articoli dal 1900 al 1915, Torino, Einaudi, 1974
 
 
Panzini è quasi il solo, oggi, artista moderno
L'interesse di Serra per Panzini prosegue, in un contesto più generale e perciò maggiormente
significativo, ne Le lettere.
In questo studio Serra si propone di redigere la “cronaca” della stagione letteraria italiana del primo Novecento. In questa occasione Serra lima il suo giudizio, eliminando le piccole ombre presenti nel primo saggio. Già dal folgorante incipit si comprende il ruolo di primissimo piano assegnato da Serra al nostro scrittore: «Panzini è quasi il solo, oggi, artista moderno». A conferma della natura un po’ atipica dell’ispirazione panziniana, che sembra tendere per naturale disposizione alla poesia per poi ripiegare quasi timorosamente sulla prosa, Serra menziona Panzini pure nel capitolo dedicato ai “versi”, laureandolo come il vero poeta della sua generazione, a dispetto dei Bertacchi, dei Collutti, dei Cesareo e della forma letteraria prescelta.
 
“Il Panzini è quasi il solo, oggi, artista schietto: non si dice che sia grandissimo, ma è della famiglia dei grandi.
Lavora anche lui per il nostro mercato letterario, pressappoco come gli altri, in apparenza; è uscito a mano a mano da quella ombra mezzana in cui era rimasto con le prime cose, e si trova oramai in prima luce, pur senza rumore e senza spicco soverchio, che non è da lui; ma i giornali e le riviste lo cercano, il pubblico lo legge, e la critica la ha esaminato con serietà. Si direbbe anzi che si sia piegato un po’ verso il suo pubblico; la sciando quella parte quella forma di libro personale, che ci ha dato fin qui il suo capolavoro, la Lanterna, e limitandosi alle novelle di tipo più correnti, come sono nelle ultime due raccolte. Ma non è vero affatto. Insieme con le cose comuni altre son venute fuori, personalissime anche nella forma, come quel curioso bozzetto di Santippe, che sembra un piccolo viaggio fra di fantasia e di ozio letterario per l’antichità, e ha invece momenti di lirismo fiorito e di attualità così inquieta; e qualche pagina di novella, o piuttosto ricordanza, in cui par di vedere il segno di una maniera nuova. Panzini non è mai stato così vivo come in questi anni; con quelle disuguaglianze che son proprie dei poeti. Perché la sua natura è di poeta, pur senza il dono del verso; è il poeta della generazione che ha seguito il Carducci; parla per Severino, per il Signorini, e per tanti altri – lasciamo andare il Pascoli, che non appartiene a nessuna generazione. Scolari del Carducci, che lo seguivano nella modestia e nella semplicità del vivere e nell’amore grande e pudore della poesia; ma non avevano di lui la pazienza e la potenza letteraria, il gusto dell’erudizione e della storia, i pregiudizi; e neanche la selvatica felicità del temperamento.
Il Panzini scrive alcune delle novelle che si scordò di scrivere il Carducci; le scrive semplicemente, senza cura di modelli francesi, che non ha mai guardato, né, forse, conosciuto; con un sentimento della vita e dello stile, che è carducciano nel suo principio, ciò è nella schiettezza di un classicismo che non è solo decenza della lingua e insaporimento letterario della fantasia, ma sopra tutto consolazione di umanità, commozione non retorica delle grandi cose belle e del contrasto senza rimedio con la realtà misera e cieca.
È lieve questo classicismo, come in genere l’apparato letterario del Panzini; che si direbbe scarso, povero in confronto della minuzia retorica dei vecchi o della cultura dei nuovi; non molto di greco e di latino, poco moderno; letteratura d’Italia, senza squisitezze, e non con curiosità uguale, ma a tratti di simpatia e antipatia robusta: e tutto questo poi è scrollato e turbato dagli scatti di un carattere insofferente, che arriva nella sua sincerità a un odio non meno illusorio che naturale per ogni letteratura.
Il vero è che Panzini ha un temperamento nativo d’artista, ricco di movimento bruschi e di voci fantastiche, non sempre felici e limpide, ma sempre schiette. La educazione letteraria da prima si è imposta a questa natura, semplificandola, riducendola a essere quasi solo una intensità e una risonanza pura del linguaggio volontariamente mediocre e tenuto all’esempio dei grandi: ma poi a poco a poco ha subito di più la forza della persona, che contrastava coi suoi crucci e con le sue nostalgie, con le illusioni e con le riflessioni, alla forma quieta dello scrivere e dell’osservare; e ne è venuta, anche nei bozzetti alquanto superficiali e nella dilettazioni leggere, quella nervosa e interrotta armonia, quella luce a sprazzi liquidi e ombre spezzate, quel non so che di lirico e pieno, che è la qualità vera della bella prosa di Panzini; prosa viva, d’impressioni e di ritmo, di difetti e di grazia.
Oggi il progresso dell’analisi e della purificazione interiore pare in qualche momento più profondo. Le sue cose hanno perduto un poco di sapore e di fiore. Son più nude; esprimono meglio l’uomo che è debole, senza forza di giocare con le anime e di creare degli effetti secondo la sua volontà: sensitivo e ombroso; tormentato da un bisogno di affrontare e agitare dei problemi, in cui si rivelano certi limiti della sua cultura e della sua intelligenza; ma che sono terribilmente seri, per lui solo.
In quella solitudine la parola è diventata ancora più intensa e semplice; crea delle sensazioni definitive, e dice delle cose di una umanità commovente, così vera che ci fa scordare qualche volta di essere lettori sopra una pagina, ci fa corrugar la fronte con una ansia di uomini davanti alla pietà e alla oscurità sorda della vita. Pochi hanno mai parlato come lui delle madri e dei figli; dei vecchi e dei giovani.
 
Panzini e Serra
di Cino Pedrelli *
 
Siamo soliti dire che Serra ebbe due interlocutori privilegiati: prima Luigi Ambrosiani, poi Giuseppe De Robertis. Dimentichiamo il terzo: Alfredo Panzini, la cui presenza (anche nei silenzi) diventa anzi dominante nel sentimento e nel pensiero di Serra dal luglio del ’14 al luglio del ’15, l’ultimo anno di vita di Serra.
Accade anche l’inverso, e per un lungo periodo: la presenza dominante, polarizzante, di Serra nel sentimento, nel pensiero, nell’opera di Panzini dal luglio del ’14 alla data della morte di Panzini, il 10 aprile 1939.
Da questa congiunzione (un poco anomala, dato il divario delle età, 21 anni, una generazione), nasce una delle più belle pagine di Serra; nascono alcune delle più belle pagine di Panzini.
Varie componenti contribuiranno alla nascita di queste pagine dolorose e felici: l’affetto umanissimo che lega i due personaggi; l’eccezionale momento storico che sono chiamati a vivere nell’ultimo anno di vita di Serra, e per il quale Serra sarà chiamato a morire; e – accidentale ma essenziale – l’ambiente marino nel quale hanno luogo i loro ultimi incontri, che entrerà nel giuoco non soltanto come paesaggio, bensì anche come elemento catalizzatore sul piano dei processi spirituali ed artistici, portando nel proprio grembo il potenziale di una simbologia tanto inconsapevole quanto illimitata.
La pagina di Serra è quella che si rivolge a Panzini nell’Esame di coscienza. Se mai c’è stato un Serra esistenziale, un Serra che si muove amleticamente tra l’essere e il non essere, dopo il Ringraziamento a una ballata di Paul Fort, è il Serra di quella Pagina. Leggiamola una volta di più:
 
“(…) Era una delle ragioni per cui io rimanevo più tranquillo accanto a lei che balzava e fremeva: mi guardava con gli occhi fissi, vedeva forse di me solo un’ombra, piccola fra grandi ombre nere calanti sopra la terra. Anch’io cercavo altre cose, fuggite e desiderate, perdute e presenti, laggiù sulla riva del mare; sull’orlo, dove l’onda fugge e ritira con sé l’ultimo velo dell’acqua, mentre i fiocchi di spuma si spengono con un sibilo lieve; resta scoperta una riga di sabbia bruna, umida e intatta, come un sentiero nuovo per venirci incontro a piedi scalzi… nessuno. Nessuno deve venire.” (Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, in: R. S., Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, vol. I, Firenze, Le Monnier, 1938)
 
Non è la prima volta che Serra rappresenta sé, od altri, mentre cammina lungo la riva del mare. Ci sono, nelle pagine che ci ha lasciato, in prosa o in versi, almeno altri tre luoghi in cui questo accade.
Il luogo più recente è di due anni prima, quando Serra scrive. Era di un anno prima, quando Serra percorreva, a fianco di Panzini, questo tratto della spiaggia di Bellaria, da casa Panzini verso nord-ovest, verso Cesenatico, fino alla foce del Rubicone; o piuttosto viceversa. C’è una lettera inedita di Serra a una sua donna (certamente una delle tre donne di cui si parla nel Ringraziamento a una ballata di Paul Fort) in data 31 agosto 1913. Una sua donna che, in quel periodo, trascorreva i mesi dell’esatte in una sua casa di campagna, alla periferia nord di Bellaria: quella che guarda appunto verso la foce del Rubicone e Cesenatico. La lettera ha questo inizio:
 
“Buon giorno bella! / Buon giorno t’hanno detto le onde, le piccole onde fredde del mare mattutino (…) / Mi verrai incontro sulla striscia di sabbia bruna umida del mare che s’è ritirato allora allora, e liscia e pulita, non pestata ancora da nessuno; come un sentiero nuovo fatto per l’amore.” (Renato Serra, Lettera inedita a *, 31 agosto 1913)
 
Il ricalco, nelle immagini e nelle parole, con la pagina dell’Esame, è di tutta evidenza e non ha bisogno di commento.
Andando ancora a ritroso nel tempo, troviamo una terza testimonianza, ed è una lirica, inserita in una lettera a Plinio Carli in data 15 agosto 1908:
 
“Ma tu quando vai scalzo per la duna
un’onda dopo l’altra ti saluta
e la schiuma dell’ultima venuta
fiorisce innanzi a te la sabbia bruna”.
(Renato Serra, Epistolario, a cura di Ambrosini, De Robertis, Grilli. Firenze, Le Monnier, 1934)
 
Non guardiamo se i versi di questo Serra ventiquattrenne siano belli o meno belli o meno belli. Altra cosa è quella che ci interessa, in questo momento.
Ancora un passo indietro nel tempo, e arriviamo ad un Serra ventenne. In data 30 ottobre 1904, Serra manda ad Ambrosini un suo sonetto, intitolato ad Achille “figlio d’Omero”. Il sonetto si chiude con queste terzine:
 
“Ma il cor mi tocchi più, s’io vegga andare
stretto alla madre dalle bianche braccia
te su la riva del canuto mare;
e rigarvi un comun pianto la faccia
il fior pensando della tua bellezza
fanciulla, e il fato che già già la spezza.”
 
Anche qui eviteremo di chiederci se i versi siano più o meno belli, e andremo in cerca di altri valori. Fra questi, abbiamo creduto di indicare, in altra occasione, una specie di inconscio presentimento, una inconscia prefigurazione: al di qua di Achille e Tetide, ci sono Serra e sua madre, alla vigilia della morte di Serra.
Quattro luoghi serriani. Quattro solitudini marine. Quattro battigie, lungo le quali si muovono figure umane.
Variano, di queste figure, i sentimenti: che passano dal più lieto e lieve (dell’ode a Plinio Carli) al più drammatico (del sonetto ad Achille).
Non varia un motivo di fondo. Questo Serra (o chi per lui) che mette un piede dopo l’altro lungo una ristretta striscia, un ristretto sentiero, che non è terra e non è mare, ma è l’uno e l’altro insieme, è terra che sconfina nel mare; è in realtà un Serra che cammina, che ha sempre camminato, in una simbologia istintiva, sul confine sottile che divide il finito dall’infinito, il conoscibile dall’inconoscibile, il materiale dall’immateriale, il transuente dall’eterno, l’essere dal non essere. Un non essere che forse è un essere più alto e diffuso.
Veniamo ora a Panzini. Altri fondali marini, altri temi, diversi, tratti dalla stessa inesauribile matrice.
E’ di Panzini la pagina più bella e commossa che sia stata scritta per la morte di Serra:
 
“(…) All’annunzio della sua morte, io sono fuggito lungo la riva del mare. (…) / L’agosto dello scorso anno, noi andavamo come fraticelli lungo la riva di questo mare, e recitammo insieme, quasi con devozione, il sonetto del Tetrarca:
Sennuccio mio, benché doglioso e solo
M’abbi lasciato, io pur mi riconforto,
Perché del corpo ove eri preso o morto
Alteramente sei levato a volo.
Ora le onde del mare buttano davanti a me, su la spiaggia, il tuo corpo bianco, naufrago di un immenso naufragio.
Or vedi insieme l’uno e l’altro polo,
Le stelle vaghe e lor viaggio torto.
E vedi il veder nostro quanto è corto.”
(Alfredo Panzini, Diario sentimentale della Guerra dal maggio 1915 al novembre 1918, Roma-Milano, Mondadori, 1924.
 
Anche in Panzini, dunque, l’immagine del mare, della sponda del mare: confine fra il finito e l’infinito. Confine sul quale i due amici, il naufrago e il superstite, s’incontrano ancora una volta, in un ultimo, indecifrabile incontro.
Le reminescenze culturali, che ad ogni passo riaffiorano in Panzini, qualche volta in luce un po’ sospetta (di surrogato, in luogo di sentimento vero e profondo; di meccanismo un poco artificioso, in luogo di genuina ispirazione), qui sono tutt’uno con l’uomo Panzini.
Altra volta, la fissità dolcemente ed autenticamente ossessiva di un volto e di un sorriso, il volto e il sorriso del giovane amico che non tornerà più (ed è di quel giorno la notizia), viene accostata a uno scenario marino che non è nuovo a Panzini, e che viene richiamato a svolgere un suo ruolo simbolico, di infinito spazio e di infinito tempo, con una operazione di tecnica letteraria che sa un poco di artificio:
 
“(…) Io ho avuto tutta la notte l’imagine di lui accanto, con l’enigmatico sorriso quasi infantile, all’angolo delle labbra sbarbate, mentre le stelle dell’orsa nella notte precipitano sul mare.”
(Alfredo Panzini, Diario sentimentale della Guerra dal maggio 1915 al novembre 1918, Roma-Milano, Mondadori, 1924.
 
Il precedente è nel Diario Sentimentale, I, pp. 51-52: “Che strana sensazione vedere quelle mirabili stelle in altra zona del cielo da quella dove le lasciammo la sera, e tutte precipiti giù, col timone fino a toccare il mare!”
Una felice, nuova immagine ispirata al mare, ed applicata a Serra, compare in un articolo che Panzini scrive per “Il Secolo” di Milano del 28 novembre 1915, dal titolo “In morte di un eroe”. Panzini sta segnalando il numero de “La Voce” che De Robertis e gli amici fiorentini hanno dedicato a Renato Serra nell’ottobre di quell’anno. E annota:
 
“(…) Qua e là, qualche apparizione o spunto polemico che non vanno sul conto di Renato Serra, il quale aveva già nella sua giovinezza oltrepassato questa zona un po’ spumosa e procellosa presso le rive, per tendere verso più profondo mare, dove l’onda non rompe.”
Alfredo Panzini, In morte di un eroe, in “Il Secolo”, 28.11.1915
 
Ancora il mare/simbolo, fra Panzini e Serra, in altra pagina di Panzini: la prefazione a La Madonna di Mamà, Romanzo del tempo della guerra, apparso nel 1916: prefazione dedicata a Renato Serra:
 
“(…) Ora, quest’agosto, a Belluria, aprivo la finestra prima che si levasse il sole. / La finestra dà sul mare verso l’oriente: tutto il ricamo delle stelle ardeva ancora; poi quella luce azzurra schiariva; poi la palpebra del sole si apriva. Un’ebbrezza sino alle lacrime: e su le acque, senza più vele, mi pareva di vedere la nave dei liberati dalla schiavitù d’Egitto. Un mio piccolo fanciullo, che già tempo sollazzava su questa spiaggia, era con te, o Renato; la cara madre mia era con te in quella nave. E non sentivo tristezza per i morti, né inerzia. Avevo l’impressione di essere come il fringuello cieco, che pur disperatamente canta.
Alfredo Panzini, La Madonna di Mamà. Romanzo del tempo della guerra, Milano, Treves, 1916.
 
(…)
Nella novella L’orologio di San Pasquale, a Panzini che ripercorre, al chiaro di luna, il sentiero “che corre diritto e lungo fra le due siepi di biancospino”, dalla casa rossa alla via Romea, lo stesso sentiero, cioè, lungo il quale Panzini aveva accompagnato Serra per l’ultima volta, in una sera del settembre del 1914, così appare, o sembra apparire, l’ombra di Serra:
 
“(…) Bianco, grande davanti a me mi pareva di vedere Renato Serra. E la sua faccia era bianca, e le sue mani erano bianche, e le sue parole spiravano bianchezza di purità, e quasi bagliore di profezia.”
Alfredo Panzini, L’orologio di San Pasquale (novella), in “La Lettura”, Milano, a. XXI, n.7 (1 luglio 1921).
(…)
 
* Estratto dalla rivista d’illustrazione romagnola “La Piè”, n.2 1982