Luigi Russo

Luigi Russo (1892-1961), in occasione del decennale della morte di Panzini, tiene al teatro comunale di Rimini un discorso che rappresenta l’ultima solenne celebrazione di Panzini, e, forse, il definitivo tramonto di un modo di intendere la letteratura.
Nell’apologia panziniana del Russo, è evidente l’amarezza del critico per la prepotente affermazione della figura del letterato politico e militante, che mette l’arte a disposizione della sua “fede rivoluzionaria”.
L’esperienza artistica panziniana, al contrario, costituisce l’estremo lascito dell’“umanesimo puro” e degli “ultimi petrarchisti”, che “dalla celluzza del proprio Io solitario hanno trascritto la loro vicenda interiore”, dialogando con i grandi della tradizione, e riprendendone, con modi e forme personali, il discorso e la missione.
Purtroppo, osserva con rimpianto il Russo, questi scrittori sono guardati, e accantonati, dalla società moderna come degli antiquati e obsoleti “arcadi”.
Per Russo, invece, Panzini è, tra gli ultimi grandi della letteratura italiana (Carducci, Pascoli, Verga, Pirandello), colui che meglio ha saputo rappresentare nella sua opera la fine dell’umanesimo.
 
“[…] Ma pur così com’era il Panzini, tutti lo abbiamo amato, tutti lo abbiamo prediletto, anche rispetto a quel suo fratello, non so se maggiore o minore, Luigi Pirandello, che procedendo da una tradizione diversissima da quella del nostro scrittore, ha interessato per il problematismo nuovo della sua arte anche le folle dei teatri e ha interessato il mondo dei due continenti. Ancora oggi, che il Panzini non è più con noi, critici e scrittori, e per citarne due dei migliori, Manara Valgimigli e Pietro Pancrazi, continuano a stampare e a commentare i suoi scritti più rari e più curiosi. Del resto quell’impertinente morditore (lo stesso Russo), parlò con polemico rispetto e scontrosa tenerezza di questo vostro Panzini, riconosciuto ed amato come l’ultimo umanista della nostra letteratura novecentesca; poiché in un altro scritto, attorno al ’20, così tentava di individuarne la posizione storica: «Il Panizini è l’uomo di due età; preso nell’anima da un ideale letterario, egli tradisce la sua commozione per questo ideale non più molto onorato dal mondo storico contemporaneo, e mal cela il suo fastidio per il nuovo ciclo di vita che si è aperto, e che non egli non riesce a penetrare nei suoi remoti e profondi valori. Espressione di questa sua commozione e fastidio, è il suo umorismo … in fondo egli è una vittima della letteratura, e la più sincera vittima dell’età nostra, e noi l’amiamo appunto per questa sua sincerità di sacrificio: egli vuole trattenere nella sua arte un mondo letterario che se ne è andato, e a cui i più smaliziati non credono più. […] Oggi il mondo letterario italiano è in dissoluzione e l’ultimo scrittore che tenta d’imporlo a se stesso con ingenua e tenera semplicità è Alfredo Panzini. E come al Boiardo la nuova storia turbò la libertà dell’illusione e la liquida gioia del canto, e una vicenda guerresca, quell’avventura di Carlo VIII, gli gelò la parola sulle labbra, così la realtà spirituale maturatasi prima della guerra europea e che nella guerra ebbe il suo impetuoso sviluppo, oggi è la terribile nemica del nostro scrittore… E’ questo il dramma del povero letterato» dell’umanista ultimo, oggi possiamo aggiungere, in una società che esige da te, se non vuoi finire arcade e cattivo soggetto, una fede sociale e politica di carattere rivoluzionario. Uno degli ultimi petrarchisti, si direbbe, che hanno sognato nella celluzza del proprio io solitario trascritto la loro vicenda interiore nelle dolci parole dei poeti consacrati dalla tradizione. Oggi l’umanesimo puro, da trent’anni o quarant’anni a questa parte, non ha più possibilità di sussistere , apolide come torre d’avorio nel mondo fatto tutto universalmente sociale e politico, donde la tragedia di tutti gli umanisti, di volere preservare la poesia del vecchio Elicona pur nella intransigente società contemporanea. Il Panzini è uno di quelli che ha sentito teneramente questa tragedia, l’ha sentita, vorrei dire con una avidezza di uomo umbratile, pur nella grandezza rubesta del suo corpo; da ciò questa sua ossessiva adesione alla realtà del mondo contemporaneo e al tempo stesso questo suo ritrarsi una commossa e patetica solitudine. Così si spiega quel suo scrivere che pare infido e guardingo, come ha detto recentemente e incisivamente Manara Valgimigli; ma, continua lo stesso critico, basta ascoltarlo ben dentro, la vibrazione della parola, perché subito si trovi confidente, abbandonato; quel suo scrivere «che pare malizioso e complicato e ravvolto, ed è aperto e cordiale e semplice; che pare scettico e amaro, ed è pronto a rompere in pianto; che pare anche stridulo talvolta di toni diversi e discordi, di parole alte e basse, ed è proprio in quel nobile variare e lussureggiare di aspetti e di modi la sua più personale e mirabile consonanza e coerenza».
[…] Con uno scrittore come Panzini non si finirebbe mai di citare tutte le sue più belle pagine e anche certi rapidi svoli di periodi, ed è strano: egli è uno scrittore di cui non abbiamo bisogno di seguire le vicende nel suo racconto, a qualsiasi punto, noi possiamo cogliere quella battuta, quella immagine, quel periodo che ci ricorda e ci riporta fantasie e commozioni della nostra giovinezza. Forse il Panzini non si legge più tutto di seguito, ma si legge sempre ad apertura di libro, come si fa coi classici, e perché Panzini non è vero narratore, ma soltanto un rapsodico confessore lirico.
Un altro più solenne e altisonante scrittore, il D’Annunzio, ci ha parlato delle città del silenzio, ma quando vogliamo sentire il fascinosi codeste città del silenzio, allora sfogliamo le pagine dei vari viaggi di un povero letterato, dalla Lanterna alla Madonna di mamà, da Il mondo è rotondo a Il padrone sono me. S’io ne avessi l’autorità, a tutti i viaggiatori che vengono a visitare l’Italia, consiglierei la lettura dei vari libri del Panzini; da Vicenza a Pisa, dalle terre di Comacchio a Ravenna, da Venezia a Napoli, tutto questo nostro caro paesaggio italiano è stato ritrascritto, ricreato, commentato, con tanto gusto dalla tenerezza dello scrittore, con l’appoggio delle reminiscenze dei suoi poeti.
Se ora noi volessimo definire quale il posto storico del Panzini nella letteratura del Novecento, dovremmo riprendere una affermazione che abbiamo lasciato cadere in principio, di Panzini come l’ultimo umanista-poeta del nostro secolo. Si vorrebbe far discendere il Panzini dal Carducci, dal Pascoli, da Severino, e indubbiamente questi scrittori sono presenti continuamente nella sua fantasia; umanista fu il Carducci, ma umanista che aveva ancora la fede compatta nel vecchio mondo inaugurato dal Tetrarca e il cui umanesimo aveva la virtù di arricchirsi di tutta quella linfa delle esperienze storiche dell’Ottocento, per cui egli riuscì poeta pieno di pathos, proprio di quel Medio Evo romantico contro il quale pareva fosse partito a oste, nella sua prima giovinezza. Umanista fu anche il Pascoli, ma egli acuì fino allo spasimo l’udito verso quel mondo pieno di mistero, pieno di grandi stelle, e in cui la terra era sognata e sentita anch’essa una stella fra le stelle e l’uomo piccolo e sperduto in lei; umanista fu Severino, ma circoscritto in una rievocazione letteraria di Biancofiore, un fantasma femminile perseguito tra i codici antichi e i rispetti popolari; umanista fu anche Renato Serra, ma già preso da un senso doloroso della solitudine e dell’inutilità della letteratura nel mondo contemporaneo. La storia sanguinosa, secondo il Serra, lascia immutata la coscienza degli uomini, lascia immutata la letteratura, le guerre travolgono le vite e il mestiere del letterato resta sempre il medesimo. Ma il Panzini si distingue da tutti questi suoi maestri e compagni per la sua maggiore e sofferta irrequietezza, per la coscienza che egli ebbe che veramente qualche cose finiva nella storia d’Italia, e, attraverso l’Italia, del mondo. Quel suo filosofeggiare sui movimenti sociali, quel suo mordere timidamente, approvare e disapprovare la nascente fede in un mondo nuovo, quel suo tremare nascosto per tutte le novità politiche e quel suo piegarsi doloroso e pavido alle nuove tirannie dei regimi moderni, sono tutte prove che il nostro scrittore sentiva di chiudere forse definitivamente un periodo storico: l’ultimo umanista della letteratura del Novecento, pieno del tremore che poteva avere quel fraticello medioevale di cui favoleggiava il Carducci, che per un momento apriva la finestretta della sua cella a guardare nel mondo, e se ne ritirava subito atterrito, abbassando il cappuccio sul viso per non vedere il bulicame della nuova civiltà in formazione. L’altro suo compagno di viaggio, Luigi Pirandello, non è più già un umanista: egli si riattacca a quella nuova poetica inauguratasi sotto il segno di Giovanni Verga, travalicata poi rapidamente nel gusto e nella sofferenza di un uomo che non appartiene più a nessuna regione, a nessuna città, e che riconosce per patria soltanto il chiuso del proprio cranio, vaneggiante in una solitudine in cui l’io appare sempre diverso a se medesimo, uno, nessuno e centomila e di conseguenza piega a una assoluta accettazione dell’irrazionale, come l’irrazionale fosse l’argonauta sano e legittimo delle menti e degli animi nella civiltà contemporanea. Il Pirandello si fa vittima persuasa di questa pazzia germinale che è nel cantuccio del cervello di ogni vivente, ma tra l’arte di un Pirandello così complessa e piena di sofferenza e l’arte di un Panzini, più esterna e più lineare, ma anche più ricca di stile e di gusto, le preferenze dei sopravvissuti umanisti sono sempre state per quest’ultimo.
Non si tratta di un giudizio rigorosamente critico, perché i due scrittori sono assolutamente incomparabili; ma è vero che quando noi vogliamo soffrire meno e riposare nella visione patetica della letteratura e dell’umanesimo tradizionale e di alcune fedi dei nostri nonni, le nostre preferenze vanno all’opera e ad alcune singolari pagine di Alfredo Panzini. Ci ricordiamo del suo commento, sulla via che percorre in gita, al cippo che copre le ossa di Anita Garibaldi:
«Per la via che tu, o uomo, percorri, se incontri segno di pietà o di dolore, sia immagine, sia lampada, sia croce, sia tomba, scopriti e prega.
Freme dalla storia e dalla memoria delle gloriose opere uh brivido come di vento che passa continuo, e i vivi ne sentono il gelo, e la fiamma dentro al cuore.
Oh, guai se i morti non dessero forza ai vivi.»
Orbene Alfredo Panzini con la sua arte inquieta, sorridente e dolorosa, smarrita, come dell’uomo trattenuto dai fantasmi del passato, e pur minacciato in avanti dai nuovi miti motorizzati della vita sociale e politica del secolo, è ancora uno scrittore-poeta, che può dare una qualche forza, un qualche viatico, a noi sopravvissuti.”