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Giovanni Papini
Giovanni Papini (1881-1956) dedica ad Alfredo Panzini uno dei suoi Ritratti italiani. Nel leggere la dichiarazione d’intenti del Papini si comprende che, nel 1915, Panzini, “ornamento di casa Treves”, lo ha superato per fama e prestigio! Importante segnalare in questa sede la polemica antidannunziana di Papini, che lamenta l’abissale differenza di pubblico tra i due scrittori, quando la ”miglior parte”, a suo avviso, sarebbe proprio Panzini.
Questa contrapposizione con D’Annunzio cinquant’anni dopo sarà il perno della riflessione su Panzini di Carlo Bo (alla cui sezione rimandiamo), che con il recul di tempo necessario per un indagine serena e obiettiva, dirà che la differenza nello stile di vita, speculare a quella artistica, tra i due personaggi aveva segnato il costume dell’Italia del primo Novecento.
Papini, che scrive nella fase iniziale del primo conflitto mondiale, giudica il Romanzo sentimentale la migliore opera italiana sulla guerra, in virtù dell’imparzialità con cui Panzini riporta le opinioni e le sensazioni dei suoi connazionali, ancora non toccati in prima persona dall’immane tragedia, senza fare distinzioni d’importanza e di cultura. Il risultato è un caleidoscopio di voci dissonanti dove “la tragedia e la commedia dell’Italia neutrale è sceneggiata su piccolo sipario da un gran talento”.
“Non ho mai visto la faccia di Alfredo Panzini né ho sentito il caldo della sua mano, ma non posso fare a meno di volergli bene. A lui, professore di lettere, autore di vocabolari e ornamento di Casa Treves, importerà poco dell'affetto di uno sbandato guerrigliero qual io mi sono. Critici specialisti di stile e di bello stile, preparatori anatomici di tutte le nervature letterarie e di tutti i pigmenti, che corrono per le carte dei libri hanno spiegato agli italiani perché si deve leggere, ammirare e gustare Panzini. Ma nessuno, ch’io sappia, ha detto perchè gli dobbiamo voler bene. Proprio bene, dico, bene come a un uomo che si conosce -anche se non fosse manifattore di libri.
Perchè Panzini non è soltanto un grande prosatore e un artista che sa ritrovare, senza mostrar di cercarle, tutte le finezze che un' ironica grazia può mettere a guarnizione di una pagina o di un capitolo ma specialmente un brav’uomo che si manifesta e fa nascer simpatia con le parole stampate come tanti altri simili a lui si esprimono e si fanno amare con le semplici discorserie a tavola o per la strada. Se Panzini fosse solamente scrittore ammirabile, ma è soprattutto uomo attraverso la scrittura e per questo è anche amabile.
Senza aver mai parlato con lui conosco suppergiù le intimità della sua vita. Mi sembra di veder la sua faccia sorridente di serio signore che parla volentieri coi ragazzi lo vedo girellar lungo il mare più curvo pensieri che d'anni. So che il matrimonio non è stato precisamente per lui quel domestico elisio ch’è in generale per tutti; indovino i capricci e i sopraccapi dei figliuoli. Mi raccontano che ha una casa sua a Bellaria e che spesso ha dovuto stridere sotto il frantoio del fisco. Lo immagino mentre chiacchiera col fattorino del tram e col pescatore di triglie e quando gli arriva in casa un amico per il quale mettere a tutti i costi il bel viso nuovo delle feste.
Perché io, e Panzini non lo sa, lo pratico da parecchio tempo: da una ventina d’anni. I critici di giovane autorità che ora lo vanno sballottando sugli scudi della celebrità lo leggono da qualche tempo appena. Io, invece, ho letto, ai tempi della guerra d’Africa, nel ’95 o ’96, un suo libretto sull’evoluzione politica di Giosuè Carducci.
[…] E’ impossibile non vedere Panzini. Non s’apre giornale o rivista o illustrazione che non si ritrovi il suo nome. E tutto quel che si legge di lui porta scritto qualche familiare connotato dell’anima sua malcontenta. La vecchia Nuova Antologia che da tanto tempo non leggo l’ho dovuta riprendere in mano per leggere il suo Viaggio circolare d’un letterato ch’è uscito nei fascicoli di gennaio e febbraio del 1915. nessuno ha parlato di quel libro e parrebbe gran degnazione far la recensione delle puntate d’una rivista. Eppure quelle settanta pagine dell’Antologia son fra le più belle che Panzini abbia scritto e scriverà. Continuazione ideale della Lanterna di Diogene questo Viaggio è ancora più fine e più felice –e pensate che la Lanterna è forse il volume più caro, più panziniana. Ma qui l’arrivo a Vicenza, l’incontro con le donne a Bologna, l’apparizione della nera vecchia presso il Duomo di Pisa, il sogno della mamma, l’apostrofe alla casa di Bellaria, son di quelle pagine che i conoscitori si leggono e rileggono con tanta beatitudine di gusto che la stessa gelosia si vela e si scorda. Quando si pensa che mezzo milione di compatrioti di Panzini legge e ammira le Preghiere dell’Avvento dell’inesorabile D’Annunzio e appena tre o quattrocento avranno letto –e come?- il Viaggio circolare vien fatto di rallegrarsi e inorgoglirsi d’esse tra i pochi, che hanno la miglior parte.
In Panzini c’è stato un momento grave. Nella Lanterna c’era ancora l’uomo che s’affida a qualcosa, che aveva sotto i piedi e gli occhi qualcosa di certo, una soddisfazione, una speranza. Qui è finito ogni cosa. Quello scetticismo savio savio ha lavorato sotto sotto e s’è mangiato quelle po’ di radici rimaste nella terra di tutti. Qui non c’è più fede e neppur la possibilità d’una contentezza passeggera. La donna ha perso l’ultimo sorriso, il migliore dei trucchi; anche la casa fedele, vicino al mare, non ha più fondamento né incanto. È cascato ogni cosa, senza fragore di crisi ma con la naturalezza del pensiero che si rilavora se stesso ogni giorno. Si sente quest’uomo solo in mezzo alla gente che dura fatica a divertirlo senza volere; amaro senza neppure la consolazione d’un desiderio e che pure conserva quella decenza, quella nobiltà, quell’apparente dolcezza briosa dell’artista esperto che non vuol dare agli estranei il diritto di compiangerlo.
Panzini sembra uno spirito semplice: può parer monotono, perfino. Ma leggetelo bene, e con l’attenzione che merita la sciolta eleganza dell’arte sua delicata, e sentirete che ariate di freddo e che infilate di pensieri difficili! È uno spirito di contrappunto che vive sulle variazioni e con pochi temi riesce a lavorare la realtà fino al punto di soffrire e di far soffrire. Paragonatelo al suo maestro, al Carducci delle lavandaie di Desenzano, e sentirete la differenza incredibile tra gli artisti del 1880 e quelli del 1915.
Come tutti gli uomini d’ingegno Panzini scrive quasi sempre delle confessioni per intermezza persona. La Lanterna di Diogene, che resta forse l’opera più compiuta e profonda di tutta la sua bibliografia, è un diario di passeggiate fatte in pochi giorni. Nelle novelle c’è sempre un uomo d’età, somigliante al novellatore, che ha sempre in bocca la dolce saggezza dei disillusi e nel petto ingiacchettato un amore imparziale, che a volte rischia di cascare nella sensiblerie.
Anche di Santippe si potrebbe dire ch’è un’autobiografia se fosse permesso lavorar di fantasia attorno ai segreti del focolare. Ma è certo che il professor romagnolo sente la sua lontana parentela col figliuolo della levatrice ateniese: stesso vizio della sottigliezza, della conversazione, stesso amore dei giovani e di quella ideal soddisfazione che si può chiamar virtù –o altrimenti.
Ma questo libro ultimo di Panzini, questo Romanzo della guerra che non è un romanzo e non ha nulla di guerriero, è ancora più familiarmente panziniana degli altri. È semplicemente il diario di un padre di famiglia che legge i giornali e ama l’Italia e qualche amico –un diario che va dai primi di agosto ai primi di novembre. Niente intreccio, niente letteratura, niente teoria militare o morale. Tutto quanto è sullo stesso piano: la filosofia politica di Missiroli e il discorso della sua bambina; il Corriere della sera e Lacerba; le riflessioni del vetturino e i manifesti dei socialisti; la bicicletta di Serra e la stella bianca sul nero notturno dell’Adriatico. C'è un momento che il Panzini si arrovella per capire quel che succede o per rendersi ragione delle sue antipatie ma di lì a poco torna l’uomo 'che vede, il poeta, ed eccoti il capannello dei signori sulla cantonata di Cova o il pezzo di pane scuro sulla tovaglia di bucato o la marruca impietrata dall’afa e i concetti, le diplomazie e le razze si nascondono fino a quell’altra pagina. C’è il dolore del buon uom che, pur non avendo mai creduto sul serio alla pace, non vuol credere neppure alla guerra ma c’è posto, nel suo mondo, anche per l'amore, per l'amore più concreto e animale. Un casellante legge le atrocità tedesche a una contadina e a due lattaie delle quali una è rossa e gravida e l'altra ancor giovinetta. « Non capite - spiega il cantoniere alle donne - che i soldati tedeschi hanno mano regia dai loro superiori?» Un piccolo sorriso succede al piccolo terrore. Dice la donna titanica e incinta: « Se fossero trenta o quaranta soltanto, i tedeschi, io me li sbatto. Basterebbe che dopo non mi ammazzassero ». Anche l'altra donna si dichiara capace di tanto. Ma almeno, doPo, dessero un bacio. « Ora, ridono - spiega poi a me la donna - quelle signorine civiline …. ma noi siamo più burrascose. Mi capisce nevvero? La giovinetta nulla dice. Sorride»
Panzini non è soltanto istruito ma colto e come tale sa stare anche col popolo, e lo capisce. C’è in lui quell’umanità che non richiama soltanto il nome d’una certa classe dei collegi antichi. È semplice senza essere sciocco. Può affacciare il capo nelle bolge delle ideologie ma i piedi li tien fermi e piantati nella salda terra d’Italia, la terra nostra che siamo in pochi a sentirla, Panzini mio.
Per questa fortuna d’avere un uomo attento così e tanto leggero anche nelle sue lamentazioni ci tocca oggi il piacere di leggere questo libro che meglio ci fa capire il nostro paese delle tanto prosaiche prose che abbiamo dovuto ingozzare in questi mesi. Panzini non si presenta né come storico, né come filosofo, né come stratega, né come apostolo di guerra o di pace, di germanismo o di latinismo. È una persona perbene, nata in Italia, che ha vissuto nell’ansie di tutti noi e sente nell’anima dubbi che premono, speranze che felicitano, ricordi che ringiovaniscono - e tutte le pietà e le rabbie di quei momenti. Spirito fine e bennato non può mare i tedeschi ma gli dispiace di non poterli amare; si sente ripreso dall’amor per la Francia, ma quasi con un rammarico moralistico, ripensando alla Parigi dei sudiciumi e delle strampalerie; è inquieto per l’Italia ma vede bene qual razza di gente, imbecille o ignorante, siano gli italiani presi ad uno ad uno nei loro spontanei discorsi.
Questi benedetti italiani! Ci vuol tutto il nostro coraggio e la nostra ingenuità, caro Panzini, per amarli come li amiamo. Per sperare in loro, per lavorare per loro. Ci vuole tutta la fede ch’è in fondo alla nostra ironia per sognare ancora la grandezza di questo popolo che non è abbastanza superbo per fare né abbastanza superbo per fare né abbastanza umile per tacere. Di questo popolo che permette tutte le bassezze purché sian pronunziate di tanto in tanto, con accompagnamento di banda, parole vuote e dorate come palle di cupole.
In questo non c’è il Romanzo della Guerra. C’è la tragedia e la commedia dell’Italia neutrale sceneggiata su piccolo palco da un gran talento. Ci sono tutti i problemi che un italiano innamorato dell’Italia e un uomo amante dell’umanità posson proporsi in mezzo a tanto disordine e fracasso; ci sono le parole dei giovani calmi come vecchi che n’abbian viste ben altre; la parole dei giovani che ascendono sulle punte dei rasoi sotto il lume della luce elettrica; c’è l’indifferenza bestiale del popolo rosso che ha imparato a mente i nuovi comandamenti né vuole uscirne perché li trova comodi e facili; e c’è persino il lamento ignobile del fornitore di letteratura ai giornali che si lamenta perché non c’è più posto per le sue novelle nelle terze pagine. C’è poi, presentatore di tutta questa umanità italiana in confortabile, il poeta che alza gli occhi al cielo o li ficca negli occhi dei ragazzi e sa ascoltare con la stessa compunzione la cannonata che vien da Pola e la foglia che sbatte sull’altra foglia alla brezza della prima sera.
Con questo poeta possiamo e vogliamo rivivere anche questi mesi di arida vigilia e amara incertezza. Quel disordine è il nostro disordine. Non facciamo sistemi, noi. Non ci mettiamo in regola con la metafisica e con la storia. Siamo ingenui, Panzini ed io e tutti quelli che possono amar questo libro.
Ch’è un piccolo volume, stampato male, soave d’abbandoni e di semplici immagini, e più doloroso di quelli che raccontano terribili casi.”- Log in to post comments