Emilio Cecchi

Emilio Cecchi (1884-1966), uno dei critici più raffinati del secolo scorso, è il più assiduo recensore di Panzini. Con i suoi quattordici interventi, Cecchi, in un arco di tempo di quasi quarant’anni, accompagna Panzini dall’anonimato alla fama fino alla morte.
Come sottolinea Adele Dei, nel corso del convegno bellariese del 1983, “la linea interpretativa di Cecchi rimane in sostanza immutata, seguendo e registrando l’attività di Panzini con una partecipazione e una simpatia che suggeriscono quasi un rapporto di connivenza, un sospetto di consanguineità” .
Noi qui presentiamo il primo contributo, quello pubblicato nel 1910 su “La Voce” di Prezzolini. Questo scritto è basilare per l’aspetto critico-militante, ma pure estremamente prezioso per quello squisitamente artistico e letterario.
Innanzitutto bisogna interpretare la scelta di dedicare a Panzini, un autore pressoché sconosciuto pure alla cerchia intellettuale, un ampio intervento all’interno di una rivista prestigiosa come una dichiarata battaglia antiretorica e antidannunziana.
Panzini è considerato da Cecchi, e dal circolo “vociano”, la risposta, seppur rassegnata e disincantata, dell’antico ideale umanistico, ormai preso d’assalto dalla prepotenza e dalla volgarità della corrente dannunziana.
Notevolissimo è il tentativo di condurci, attraverso sublimi metafore e allegorie, all’interno dell’officina panziniana, mettendo in scena la genesi morale delle sue opere, mai scritte per compiacere soltanto il pubblico, ma nate sempre da un sincero turbamento interiore.
 
“Senza essere una forte tempra di artista, o compensare con una facile dovizia la mancanza di profondità fantastica, Alfredo Panzini attira l’attenzione di quanti, non lasciandosi troppo illudere dall’aggressiva rinomanza dei pochi scrittori in gran voga, aman chiedersi se nell’opaca zona retrostante allo sfacciato brillantìo della ribalta, non vivan per avventura ingegni sinceri, forze dirette a qualche scopo non ignobile, spiriti assorti in ricerche non volgari.
L’esclusivismo luminoso e l’audacia affermativa caratteristici dei temperamenti destinati a primeggiare gli son negati. Ed egli compensa queste doti carnivore con altre, certamente più lige ad equità, ma anche certamente meno fortunate.
Si respira nella sua opera quell’odore di decorosa miseria che è proprio delle famiglie della bassa borghesia, nelle l’insistere delle sciagure non ha potuto contro la durezza della virtù. Nella luce colata per le mura giallastre e filtrante fra in convolvoli che fanno rete alle povere finestre si mescola un odore ch’è insieme odor di cibo e di sudicio, rialzato dall’acuta nauseabonda fragranza dei farmaci dell’ultima malattia. Da un andito umido e ottuso si vedon le camere spoglie e melanconiche, e il lumino che vacilla in fondo a una di esse sembra vegliar perpetuamente un defunto. In un angolo di cortile, dove un raggio di sole batte sui vasi dei gracili fiori, giuocan due o tre bambini, senza alzar la voce, con una serietà che rattrista. Diffuso in quelle penombre e in quelle luci smorte è il sentore perenne della sciagura che incombe; e, se è possibile, a far più cupa e micidiale l’inedia, il visitatore, fatuo e avventatamente sentenziatore, mesce il suo consiglio ironico e il giudizio quasi insultante.
In un momento di profonda tristezza nacque l’arte di Alfredo Panzini, il cui ingegno, per parte sua, era di qualità di assorbir questa tristezza e quasi compiacersi di scavarla e approfondirla, piuttosto che fatto per averne ragione. Il che poteva darsi in più modi. Per virtù di compatto impeto lirico; per acutezza critica che sapesse risolver quella lassitudine nelle sue cause, rischiararla nelle sue tendenze, giustificarla nel significato; che sapesse, in una parola, dominarla; infine, per dono di pura e semplice fatuità. Vi son mali fra mezzo ai quali si passa incolumi, unicamente per il fatto di ignorarli. Ma Alfredo Panzini non era un’aquila lirica, non aveva l’occhio necessario a sviscerare a fondo i problemi dell’arte e della coltura, e non sapeva esser fatuo.
Posto sul confluente di due epoche molto diverse, rappresentate rispettivamente da Giosuè Carducci e da Gabriele D’Annunzio, nei suoi romanzi, nei suoi racconti, nella critica, egli è venuto esprimendo, con una velata accoratezza da reazionario, il rammarico di non aver potuto far ingenuamente squillar la sua poesia nei modi rudi e sereni del maremmano, e, insieme, di non aver potuto superare in un audace e sicuro umorismo gli atteggiamenti odiernissimi, che non lo soddisfano; mentre pur quell’umorismo approssimativo che gli è venuto fatto, sembra, ad ora ad ora, oscurarglisi d’intima sfiducia, quasi a dare inconfessatamente ragione alle cose ed agli ordinamenti cui sembrava volersi opporre:
«Son venuto sempre a questa conclusione: due e due fanno quattro, uno meno forma zero; gli uni hanno ragione ma anche gli altri non hanno torto. Ha ragione lo spiritualismo, come ha ragione il positivismo materialista; non hanno torto le masse socialiste e non hanno torto gli aristocratici del blasone e del denaro: ottima la pace, ma necessaria la guerra. Meravigliosa l’idea di un’unica umana famiglia, e pure santa l’idea della patria. Si progredisce con una gamba e si va indietro con l’altra».
S’intende come questo grazioso e inconsistente luccicar di problemi filosofici, morali e letterari, posti e sovrapposti e sempre scancellati a mezza dimostrazione, non possa non dare all’opera di questo scrittore un carattere d’imprendibilità, di irrequieta mutevolezza, che non è fatto per conciliarle la franca adesione che non discute.
Come nel suo spirito un’idea non può vivere della sua pura realtà logica e si cerchia sempre d’un sottil pulviscolo fantastico e sentimentale, gli intrecci dei suoi racconti, la scelta dei suoi personaggi risentono di questo ibridismo, e le sue figure hanno il sangue gelido dell’anfibio. Il suo romanzo è incamminato verso la critica, come la sua critica, anche quando più deliberatamente vuol essere critica, non sa rinunciare alle forme della narrazione. Ma se vi son narrazioni sostenute da un astratto mannequin, assai più grossolanamente di quelle di Alfredo Panzini, l’idea che ne costituisce l’anima, nel suo isolamento e nel suo dominio, può arrivarvi ad esser sentita liricamente, a riscaldarsi, di vivo pathos e a lasciare scaturire movimenti di arte vera. A cagione della sua stessa meticolosità d’analisi, della sua sospettosa scaltrezza, Alfredo Panzini non giunge a questo, che è condizione prima d’una poesia di più vasto respiro. I suoi libri son come una combattuta partita di scacchi, che ricomincia perpetuamente e perpetuamente rimane in asso. E la sua prosa cachettica traduce meravigliosamente questo lucido orgasmo, nel quale la curiosa di una sorta di fatalità storica per cui, oggidì, dopo Leopardi e Carducci, sarebbe impossibile una grande arte, contrastata col desiderio e lo sforzo inconsapevole appunto di scoprire le forme di quest’arte nuova.
Quell’abilità nel dedurre forme, frasi, epiteti, movimenti dagli scrittori aurei per accrescer dignità alla prosa moderna, che il Carducci nella sua opera di rinsanguamento della letteratura italiana seppe comunicare ai suoi migliori scolari, e così ad Alfredo Panzini, ci procura ad ora ad ora lo spettacolo bizzarro di parole che respirano la loro fresca e placida derivazione trecentesca, di modi dottamente latini, fermati in periodi che col loro asintattismo e le loro spezzature si chiariscono di così nervosa ed inquieta modernità come forse neppure il Panzini sospetta. Egli mesce nella coppa della sua poesia, mesce con mano generosa il luminoso nepente che le anime moderne sanno attingere dalla consuetudine con le divine opere dei padri. Ma poiché una tradizione letteraria, per quanto ricca, non può servir di moneta con cui si possan fare spese di qualunque sorta, e i cuori fertili e vigili hanno in fondo sempre un po’ di debito che li tormenta, spiccia sempre nelle pagine del Panzini, di sotto la rassegnazione storica, qualcosa da far vedere o intravedere, da confessare o da far sospettare.
Il passato, robusto ed arcigno, simile ad un vecchio assolutista, ultima colonna di una di quelle famiglie ruinate, sembra nella sua opera comprimere atrocemente, se pure involontariamente, gli sforzi del nipote troppo onesto per mandarlo al diavolo con allegria, e troppo debole per dimostrargli di fatto la sua indipendenza, col saper provvedere a se stesso e vivere a modo suo. «Abbi forza d’esser qualcosa di grande e degno» gli dice il vecchio, schiacciandolo con la sua severità, e pur incitandolo con la parola maestosa. E il rampollo sembra confessargli: «Volentieri! Ma, in fondo in fondo, non veggo di grande e di degno che te. Tu hai fatto tutto quello che io avrei voluto fare …».
La qual situazione non saprebbe certamente apparir molto feconda, se non si pensasse che questo stesso rammarico, poiché è sentito acutamente e da un’anima pura, è anche da solo motivo d’arte vero e legittimo, che, nella sua dimessiti e nella sua scialba tristezza, merita assai di più tanta impetuosa e applaudita retorica, molto più facilmente, e anche molto più vuotamente affermativa.
Sullo spirito del Panzini, nell’età della formazione, passò lo splendore e la rapina di una magnifica visione di arte e di vita. Nel suo libro sulla “Evoluzione di Giosuè Carducci” che, nonostante la scarsezza della documentazione, è certamente fra le poche cose serie scritte intorno a questo poeta, egli narra con parole commosse i giorni della sua gioventù che furon riempiti da quell’aura purissima e gloriosa. Ma esperienze siffatte possono esser tali da imporre definitivamente ad uno spirito minore che ne resti assorbito limiti ch’esso non potrà mai più superare. Ed, invero, in Alfredo Panzini è rimasta incancellabile la coscienza di questi limiti, benché la volontà di varcarli non per questo abbia del tutto potuto tacere. Giosuè Carducci, si sa, non capiva il romanzo. E il Panzini prova il romanzo, ma lo prova come intimamente persuaso delle ragioni di quella non comprensione, che era in fondo tacita negazione. Sicché, sviluppata una situazione la quale dai dati della piccola vita ch’egli predilige, riesce in vista ad una grande significazione, sa cogliere un soffio d’eternità, ecco che, subito, gli vien fatto di ritrarsi, in luogo di buttarsi a capofitto nel gorgo ch’egli ha scatenato, onde trovarne l’intima legge e domarlo. Piglia le sue precauzioni e mette il cuore in pace con una qualsiasi ipotesi, che potrebbe, d’altronde, senza nessun inconveniente, esser sostituita dalla sua opposta, davanti ai problemi filosofici o di grande poesia, quando gli si ignudano di sotto il viluppo dei fatti. Non sa che fiutare un po’ e tornar confessatamene un borghese. E lo fa con una tal grazia meneghina, la quale, nei suoi migliori momenti, può anche arieggiare un che di manzoniano. Sembra considerar tutto il moto della vita come serie di combinazioni destinate a muover la più o meno ben congegnata e più o meno acuta serie delle nostre osservazioni di sapienza spicciola. Ad ogni avvenimento, un pensiero isolato e ben schedato. E a sfogar questa smania di definizioni – non fossero che definizioni puramente ipotetiche – agli alberi lungo i fiumi e sui colli, ai mobili delle case povere e ricche, agli arnesi delle fattorie e degli opifici, ai libri solenni e puerili, a tutte le cose brute e mute, in una parola, concede libertà di parola, con una compiacenza che non ci urterebbe, se non vi sentissimo sotto un metodo ed un abuso. Il suo romanzo tende in ogni fibra a disfarsi in speciosi ragionamenti. E fuor che per questa difettosa caratteristica si riassorbe e si identifica coi tipi comuni sui quali si modellò il romanzo borghese nello scorcio dell’ultimo secolo.
In realtà, non nel romanzo lo preferisco. Troppo l’umorista che è in fondo a lui soffre di comprimervisi e camuffarvisi perché la sua irriverenza non abbia a recidere ogni tanto quella continuata e razionale illusione realistica della quale il romanzo non può troppo farne a meno. Dove il Panzini si concede maggior libertà, egli raggiunge anche maggior determinatezza. Perché allora ha a disposizione tutti i ferri dei suoi mestieri, e il professore vocabolarista e latinista, con scaltrezza di schiette etimologie, con le quali sa raggiungere una pungente succosa profondità, aiuta l’artista, mentre questi raggentilisce la polverosa dottrina e la pedanteria che quegli da solo non saprebbe completamente rispogliare. Ed anch’io credo che il suo capolavoro debba appunto cercarsi in quella Lanterna di Diogene, dove una specie di italianizzata forma-viaggio dell’Heine , non contraddice i più volubili volteggiamenti della fantasia che, gracile e inquieta, non può aver la forza di quelle laboriose concezioni che sostengono il pondo omogeneo e costante di tutto un libro. Allora si le ipotesi e le ironie, accarezzate, limate, sbalzate, niellate, come un argentiere squisito tratta una statuetta civettuola, e poi spezzate di colpo e rifuse d’un tratto in atteggiamenti analoghi ma differenti, fatte risaltare da grazie malinconiche e da asprezze sane ed acerbe, le quali ci rammentano che qualche stilla di liquido sole epico cola nelle vene di questo scrittore, si fanno amare, ci ridono in aspetti indimenticabili (per es. l’attrice), son qualcosa di schietto e di vivo. Poiché gli è impossibile scordarsi della letteratura, non domandiamo ad Alfredo Panzini quel vano sforzo che egli tenta nei suoi romanzi per darci una realtà ingenua, non vista attraverso le pagine dei libri e le lenti professorali dell’analisi e i veli delle reminiscenze.
Ingenuo egli riesce, come tutti, quando ci dà immediatamente la sua realtà interiore che pur è fatta, irrimediabilmente, anche di nostalgie libresche, di curiosità intellettualistiche le quali non possono esserne astratte ed isolate senza disfarne tutto l’equilibrio. Il suo mondo è un impasto originale di grettezza vissuta e di grandezza sognata, di ironia espressa e di lirismo represso. In visita al palazzo Leopardi a Recanati, dopo averci fatto sentire come egli sa partecipar nella colossale tragedia del poeta, egli si prepara giocondamente a discender pedalando la collina, e corteggia, frattanto, un’ostessa, che può rammentar quelle non meno simpatiche e paffute dei Reisebilder pur restando perfettamente latina. Il ricordo commosso mormora una preghiera alla divinità dipartita. Ma con quella disinvoltura un po’ ostentata delle persone che hanno un dispiacere in corpo, il professore Panzini debacca, mentre gli ridono i belli occhi promettitori.
Davanti ad un cialtrone affamato si domanda, con l’oscura inquietudine del borghese che si sa compromesso in una crisi la quale non gli è comprensibile appieno ma teme lo travolga, se veramente l’avvenire non andrà secondo l’inno di Turati, mentre studiando l’evoluzione carducciana, aristocrate come il maestro, si era sentito turbato dal «fango che sale» e vedeva nei suoi nuovi orientamenti della democrazia la causa prima della povertà dell’arte odierna.
Il presente lo commuove ma il passato l’ammonisce, e l’ammonimento talvolta può in lui più della vergine ma rischiosa emozione. Tanto più che la scuola alla quale egli si formò, lo dispose a interpretare il passato e la storia in guisa da credere che la loro sostanza fosse diversa, migliore e più possente, di quella che costituisce la nostra vita quotidiana e sopporta gli avvenimenti che vediamo svolgersi intorno a noi. Per una curiosa ironia quella scuola si battezzò appunto critica storica, e non dette né un corpus di grandi idee storiche, né un metodo veramente degno di questo nome. Era un poeta che principalmente la rappresentava, un grande poeta, e nella storia mescè troppo della sua poesia. Le epoche gli si risolvettero nelle grandi e fulgenti figure degli eroi, e l’oggi dei tersiti. Si cercò la poesia per dire che la poesia era defunta e l’età era frolla. Superba poesia come fece il Carducci; arte di schietta tradizione e d’imitazione come fece, per esempio, il Chiarini; arte assai più originale, rinnovata anche da uno spirito di cultura meno esclusivamente pedantesca, da un sentore più largo dei problemi e delle tendenze, dalla forza degli atteggiamenti nuovi che cercavano pur conculcati di trovarsi, come è stato nel Panzini. Una maggior severità interiore, o forse semplicemente una maggior maturazione dei tempi, avrebbe portato questi magari addirittura a disfarsi della sua arte e svolgere, amo immaginare nella storia, facoltà che nell’opera ch’egli ha dato si sono invece accavallate all’arte, fiancheggiandola, mischiandovisi, lasciandosi sedurre dalle sue grazie incerte e volubili, all’amplesso dell’ironia?
C’era nel Panzini il senso religioso del fatto storico. Ma il professore dalla umile vita, difesa dal misurato stipendio, inebriata di smisurata grandezza, non resisteva, davanti a taluna delle solari ridenti incarnazioni del latin sangue gentile, al gusto di tastarsi i guidaleschi, di straziare ostentandole le piccole miserie, e vendicarsene, in certo qual modo, facendo vedere di non vergognarsi a protestarle dinanzi a quella maestà. E la pagina solenne e severa gli finiva spontaneamente in un pupazzo e in una burletta, e questa si ritorceva in una considerazione malinconica, finché la considerazione malinconica si stemperava tendenziosamente in una dissertazione, poiché diverse personalità si agitavano in lui, né mi pare che mai egli riuscisse almeno a stabilir fra esse una ferma gerarchia. Così la usa opera resta a mezz’aria, senza prendere un aspetto ben definito; determinata, scolpita, bulinata con l’insistenza di uno scrittore lessicografo, rigo per rigo, parola per parola, nel suo aspetto generale è dubbia e ondeggiante, e meglio accetta riesce dove si è proposta questa inquietudine, questo ondeggiamento. Vale la pena d’aver perso uno storici per avere un ironista, giacché, in fondo, anche se il Panzini è restato inferiore alla propria ironia, e non ha saputo sfogarla e orientarla, non si può dargli che questo appellativo? Giro la questione alla buona volontà di qualche filisteo.
A garantire a quest’opera, qualunque sia il nome sotto il quale vorremo raccoglierla, la simpatia che non può mancare a gli sforzi dignitosi, basta la sua schiettezza, la sua asciuttezza, la rapida nudità che concreta le sue sobrie intenzioni”.
 
Due anni dopo, Cecchi, in occasione dell’uscita della raccolta di saggi Studi critici , completa l’articolo su Panzini de “La Voce” con una recensione a Le fiabe della virtù; testo che rappresenta la più alta celebrazione della poetica panziniana. La lettura di quest’opera provoca a Cecchi una tale folgorazione da spingerlo a rappresentare Panzini quasi nelle vesti del messia della classicità, atteso da tempo dalle “anime italiane più attente”. L’investitura di Panzini come erede di Leopardi e Manzoni nonché maestro per le giovani generazioni, non può non stupire profondamente il lettore contemporaneo che dello scrittore conosce a mala pena il nome. Proprio per queste ragioni, riteniamo opportuno riportare integralmente l’articolo.
 
“La solita voce, bassa, pacata, che si fa udire quasi con timore, di tra la baraonda contemporanea, a intrattenerci di cose obliate, a ridestare in noi la nostra anima lontana di bimbi pensosi, a risuscitar nelle memorie i sogni sognati negli angoli bigi delle case malinconiche, nei vesperi troppo lunghi delle solitudini prime ….. Ecco come Alfredo Panzini si accosta a noi, anche nel suo ultimo libro: Le fiabe della virtù.
Qualche cosa di estremamente umile e accorato ci dice: di tanto umile e accorato che, quasi, a momenti, per troppa dolcezza ci fa male. Ma sa anche disfare senza residuo, in fondo alla nostra anima, quei sedimenti opachi che la consuetudine con la retorica e la magniloquenza attuali, che l’abitudine alla disillusione davanti ad ogni nuova opera di lingua italiana, vi avevano lasciato. Chiudendo l’ultimo libro del Panzini ci sentiamo diventati umili, nudi, e, in quella improvvisa purezza, quasi ingraciliti. Ci pare che la cupa malattia verbosa contemporanea sia cosa di un ieri febbrile, per effetto di un incanto piccolo e potente, diventato già estremamente remoto; a quel modo che i pensieri funesti e i propositi insani, nell’anima di un uomo trafitto di inquietudini, si addolciscono di un tratto e vaniscono se, nella mano madida di quest’uomo, si insinua fresca la mano di un bimbo o di una creatura veneranda.
Non che l’arte del Panzini abbia la ingenuità delle cose puerili. Ha ormai la freschezza e la semplicità divina della classicità rinnovata.
Ma a dire dell’arte di questo scrittore, quale ci si presenta in questo ultimo libro, vorremmo uno stile che fosse lo stile stesso del Panzini o qualche cose di molto somigliante; giacché una modernità cristallina come la sua, non può rispecchiarsi senza distorcersi, che in una perfezione compagna. E in Italia, invece, quella lucidezza e levigatezza di lingua, oggi, forse, non le possiede che lui.
Nemmeno nei momenti di commozione più intensa, questo stile suo consente a inturgidirsi di enfasi lirica, a infittire le sue pause. Ma striscia terra terra, rotto, da periodo a periodo, pare insino disarmonico, mentre l’insieme dei periodi nella pagina, e l’insieme delle pagine nella novella, risulta di armonia stupenda. Magro, secco di suono, quasi zoppicante, la forza non gli è data dalla preziosità delle parole, né dal loro colore; né proviene dal fatto che il conio delle parole è stato placcato con smalti di epiteti eletti.
Ma le parole vanno nude e solette, e trovano il loro vigore, alla latina, per la loro posizione reciproca nella frase, nelle loro funzioni sintattiche, per via di inversioni di cui spesso, a prima vista, non percepite la ragione armonica; la quale vi si palesa, poi, quando di queste inversioni percorrete, con gusto grande di scoperte poetiche, tutte le pieghe, svolgete tutti gli ondeggiamenti.
Il Panzini non piglia le sue frasi e non le squadra, prima, con il martello e la cazzuola, come fanno i più grandi scrittori e, ce le danno tutte per un verso, come mattoni per piatto, con il rigo bianco della calcina frammezzo. Mura a secco, alla maniera degli antichi, senza più riempire i vani delle sue fantasie areate, con il calcinaccio trito e il fiacco cemento delle divagazioni, delle descrizioni, delle decorazioni. Forse nessuno scrittore italiano vivente può offrirci esempio, meglio di lui, di come lavorando d’arte si abbia a tener discosto ciò che il De Sanctis chiamava “fantasia”: attività poetica, veramente creatrice e inventrice, da ciò che chiamava “immaginazione”: attività combinatrice di svolgimenti e di adattamenti. Paragonate, a meglio intendere, Le chicche di Noretta, che contiene un po’ di questo riempitivo, alla novella, Il regno tuo venga, dove tutto vive e si muove per semplice virtù di affermazione, non spalleggiato di armature dimostrative, non bilanciato da contrappesi descrittivi, non impennacchiato di saggi di bravura paesistica, di svolazzi psicologici, quali son tanti cari ai nostri novellieri italo-francesi. In questa novella, e non solo in questa, il Panzini si imposta come un classico poteva impostarsi in una lirica. A voi lettori di oggi la parola “classico” può far l’effetto di azzardata. Siate certi che se ne scandalizzeranno meno i lettori di domani.
Va avanti, per via di successioni di copule non dissimulate. Una considerazione morale, ma semplice, men che modesta, di quelle che paiono raccattate sulla bocca del volgo, annoda, da ultimo, il ritmo dei periodi sparsi, raccoglie il brivido della commozione, che affiorava per mille vene, conchiude. Ecco una di queste proposizioni di sbocco, spoglia di immagini, senza scaltrezze di numeri, senza costruzione brillante, un po’ professorale, anzi, nella scelta di certi epiteti e di certe movenze. «Spesso la dispietata morte la incontriamo per le vie del mondo, dove i funerali arrestano i commerci della vita, e v’è chi si impazienta e la maledice solo perché ella, la pallida, ritarda la vita, e non pensa che ella è in viaggio anche per noi.» Che cosa vi dice? La frase, l’idea del Panzini, fuori del contesto, diventano convenzionali, si scolorano. Nella sua pagina, hanno un valore di risonanza incalcolabile, come il tema sinfonico, che non vige se non fra gli echi della sinfonia.
Questa inalienabilità, questa serratezza, vi fa un po’ capire perché l’arte del Panzini, a malgrado della modestia del suo autore, ed anche in questo ultimo aspetto, spesso, perfetto, sia un’arte di aristocrazia, un’arte dura, schiva. E vi fa capire perché sia stato necessario che un fremito nostalgico della classicità vera, della classicità del Leopardi e del Manzoni, abbia le percorso le anime italiane più attente, prima che esse siano decise ad accorgersi di questo poeta, prima che sia stato lecito sperare che, finalmente il pubblico avrebbe accondisceso a compensare con un po’ di amore la solitudine vergognosa nella quale, per tanti anni, l’ha reietto.
Son sette novelle, raccolte sotto il titolo ironico al quale due almeno sfuggono.
“Fiabe delle virtù”, si son Le chicche di Noretta; la storia di un’orfana, impiegata postale in un ufficio di sesta classe. Noretta va a rimettersi di salute, in villeggiatura, presso una zia, e il figlio di questa zia, uno scettico malato di incontentabilità e un poco anche di neurastenia, finisce per innamorarsene, e soffre da cane quando la sa fidanzata a un ex sergente, e, anzi, in qualità di parente più prossimo, deve occuparsi di certe faccende che concernono quel matrimonio. E sono “fiabe della virtù”: L’ultima avventura di Sancio Panza, Le avventure di un paterfamilias, La repubblica delle lettere: narrazioni delle illusioni di un giovine commissario regio che si reca per la prima volta in missione in un paesello, coll’intenzione di far grandi cose, mentre presto capisce che la meglio è di non farne punte; malinconie intorno la ristrettezza decente della famiglia di un notaio carico di fligliuoli; cronistorie delle vicende di un vecchio bibliotecario che, dall’osservazione di certi tipi singolari, i quali frequentano la solitudine polverosa della sua biblioteca provinciale, ha saputo dedurre tanta poesia da comporre un grosso libro di novelle: Casi della vita, le quali piacciono assai poco, è detto, ai critici del tempo, ma sembran fatte, in tutto e per tutto, per piacere a noi.
Perché i Casi della vita son quasi un mito della genesi della poesia del Panzini: poesia si è detto, che risente tutta di un’origine umile, ed anzi se ne abbella come di una indicibile pallida aureola che le fa risalto, a quel modo che la trista atmosfera di un vicolo cittadino conferisce, non si sa in che modo, alla ciocca di rose che si reclina da un muro grommoso, una bellezza patetica mille volte più intensa dei roseti felici, nei giardini dalle conche di marmo eletto. Ma se, in queste fiabe, nelle quali il racconto e l’immagine, lasciati in asso, sembran talvolta infilare nella discussione e nel teorema, si trovano mosse e pagine, animate di spunti comici, rigate di razzi critici, nelle quali, come spesso nei libri precedenti, il Panzini, più che di novelliere ci fa l’effetto di un essayist fantastico, o di un lirico alla Heine tradotto in prosa di odore trecentesco da un bello scrittore italiano, la quinta novella: I diritti dei vecchi e dei giovani, rompe già la linea, e tende tutta intorno a un tipo meraviglioso di vecchia cieca e demente, con un procedimento di scorcio, che ricorda le pagine dell’”Attrice”, nella Lanterna di Diogene. Il motivo lirico è ancora sfiorato con mano vuol parere sbandata. Ma vibra con impeto stupendo nelle novelle restanti, dove non vi capita più d’esser disturbati, nella vostra emozione, dal tintinnare gracile del sistro dell’ironia.
Ivi, sentite semplicemente d’essere nell’atmosfera di due capolavori, e due capolavori così saldi e così sconvolgenti, che se, in presenza di essi, il critico può ancora un momento pensare a se medesimo, è per sentirsi felice di aver tempestato e vituperato, per quanto era nelle sue forze, tanta produzione contemporanea, sicchè ora, almeno, può portar loro come offerta di gratitudine, quel po’ di amore consentito alla sua pedante e velenosa, e che egli non hai imprestato per balocco a nessuno.
Che sono questi due capolavori? Uno è la storia di Pierino che, dal collegio, dove a furia di sgobbo riesce a mantenersi a retta gratuita per non sforzare il bilancio familiare, a luglio si mette in viaggio per tornarsene a casa sua, dapprima non ci trova nessuno, ma, dopo una lunga attesa crepuscolare, passata sfogliando un vecchio libro: una Bibbia, donde la voce dell’infinito per la prima volta gli parla, sente nelle stanze lontane tornare, litigandosi con insulti atroci, il padre giocatore e la mamma baldracca. E questa è la novella: Il regno venga. L’altra: Il padre e il figlio, narra di un facoltoso bovaro romagnolo, vedovo, con un figliolo solo, tutto dato agli studi e a scriver libri che nessuno compera né legge. Il bovaro non capisce il figlio, e, nonostante l’ami, lo martirizza rinfacciandogli continuamente la sua nullità davanti alla vita. Ma quando il figlio gli muore, ne sente a un tratto la grandezza, gli fa costruire un mausoleo, e passa gli anni che gli restano in una superstiziosa adorazione della sua memoria, nel culto delle sue cose, finché, morto anche lui, non vegliano sull’eroe, nella solitudine di Romagna, che le pietre del monumento e un vecchio cipresso ….
Storie di “umiliati e offesi” anche queste, insomma, ma meravigliose nella loro squallente semplicità, e delle quali il resoconto poco o nulla può dirvi. Capolavori così rapidi che non potete nemmeno tentar di fissarne l’impressione di grandezza con l’evocazione di immagini solenni. Vi sfuggono come una rivelazione stessa della vita, che alza il velo sul proprio volto, un istante, davanti a voi e quando vi riavete dallo stupore, e già lontana. Tutto vi è povero, desolato. Ma corso da un brivido di quella commozione che vibra più poderosa negli attriti della vita più conculcata.
Gli spiriti che sognano e preparano l’arte di domani possono salutare ormai Alfredo Panzini come un maestro; come forse il nostro scrittore più moderno. Debbon certamente guardare a lui, onde imparare, almeno, con quanto ardore contenuto, con quanto silenzio, con quante paziente eroica ferocia, occorra prepararsi.
Abbiamo voluto rammentare, poc’anzi, davanti a questi suoi due capolavori, i poli fra i quali si è aggirata la sua opera precedente. Ed è stato per far meglio capire che come egli, ormai, sia uscito dalla incertezza, dalla intima sfiducia che quasi tutta questa opera testimonia. Ha trovato, finalmente, una poesia schietta. Ha aperto una vena sorgiva, che si è versata con impeto esatto nei canali da lungo preparati.
È quella poesia che aspettava l’anima nostra reclinata e assetata, dopo tanta enfasi, dopo tanto stridore di colori veementi. È la poesia delle penombre austere, dove essa potrà ridiventar pienamente classica e vera. A voler intendere tutto il valore di questa poesia bisogna rammentare che i padri non hanno sdegnato concedere a questo umile loro purissimo figlio, affinché egli potesse cantarla, la loro eterna voce d’oro.”
 
Nella decina circa di contribuiti successivi, i toni non si avvicineranno sempre all’apologia come in questa circostanza, perché Cecchi non mancherà di far notare la deriva manieristica dell’ultimo Panzini. Comunque l’ammirazione rimarrà sempre, e, in occasione del decimo anniversario della morte, ricordando Il bacio di Lesbia, scriverà:
 
“Fu questo forse il più bel dono che alla fedeltà di Panzini fecero i classici: Catullo, appunto; Lucrezio nel libro delle ossessioni amorose, e Virgilio nella morte di Dido; a parte quello che contava di più, e che, non occorre dirlo, era quello ch’egli ci metteva di suo. Il sussurro ironico percorre il racconto, sottilmente lo interpunge, sordamente lo tormenta, con un sinistro frusciare come di elitre, che accompagni un formicolio di presenze larvali. E di tanto in tanto scoppiano quegli altissimi, vertiginosi gridi della passione, che ci lasciano senza fiato, come al barbaglio improvviso d’una viva polla di sangue. Alla fine del Bacio, l’apparizione di Lesbia in casa di Catullo sul lago (quello scricchiolio lieve del sandalo) è fra le pagine più misteriose e folgoranti della nostra moderna letteratura. Onore, grandissimo onore alla memoria del poeta che creò pagine come codesta.”