Giuseppe Giulio Borgese

Constatando la quantità e l’importanza degli interventi riguardo Le fiabe delle virtù, si deve osservare, cosa sbalorditiva per il lettore, anche se colto, moderno, che l’opera costituì non soltanto lo spartiacque della fortuna critica panziniana, ma rappresentò un vero e proprio “caso letterario”. Per convincere gli scettici di questa, apparentemente, ardita affermazione basterebbe far loro leggere la lunga digressione sull’ultimo secolo di letteratura italiana che Giuseppe Giulio Borgese (1892-1952) ritiene necessario far precedere alla sua recensione delle Fiabe, al termine della quale a Panzini viene affidato il compito, in parte già svolto, di ricongiungere l’arte narrativa a quella drammatica, irrimediabilmente scisse, almeno in Italia, dalla morte di Alessandro Manzoni! Quando si legge che la prosa di Panzini ricorda quella del Trecento non si creda che Borgese intenda disegnare Panzini come un archeologo della letteratura, perché il passato è solo l’abito prezioso con cui riveste una sensibilità tutta moderna.
 
“L’arte narrativa e la drammatica italiane crebbero dopo Alessandro Manzoni, fuori della tradizione letteraria, che con Leopardi era già ridivenuta esclusivamente lirica e tale si mantenne col Carducci. Un intimo ardore meditativo, una dolorosa aspirazione verso la libertà della natura e del mito, un rimpianto della favoleggiata grandezza e libertà degli avi: tali furono per un cinquantennio i motivi ispiratori della nostra letteratura. Le passioni traversavano con strazianti gridi fugaci l’austerità di quei cieli poetici; i personaggi viventi apparivano e sparivano, entro quei candidi paesaggi sepolcrali, in un breve attimo statuario. Era un’arte di sintesi intransigente, remota, dagli abbandoni narrativi, dalla curiosa lentezza delle analisi, della gradualità degli svolgimenti. E i poeti italiani, cupamente concentrati nella loro individualità lirica, erravano solitari lungo le rive dei fiumi patrii (dove Arno è più deserto) e pellegrinavano ai cimiteri della storia, lasciando agli homines novi, ai Verga e ai Giocosa, le donne i cavalier l’armi e gli amori.
I Tristi amori in un senso, i Malavoglia in ogni senso sono opere di prim’ordine. Tuttavia si sentiva e sente lo stacco: si sente, paragonandoli ai Promessi sposi e all’Adelchi, che i drammi e i romanzi della nuova epoca hanno origini letterarie problematiche e sono pervase da un lirismo un po’ torbido. Abbiamo come due letterature: una dei morti, della mitologia, della storia; un’altra dei vivi, della società, della realtà immediata. E fra l’una e l’altra di queste due letterature non v’è scambio, e ciascheduna è chiusa in se stessa e ignara dell’altra. Pensate con quale lontananza Carducci parlasse del romanzo realista; e come romanzo e dramma moderni rimanessero sordi alla voce della grande lirica. Questa isteriliva nella sua purità; quelli fronteggiavano in un rigoglio indisciplinato. Ciò che in Manzoni fu uno si scisse; e parve che, per essere poeti, occorresse ignorare gli uomini; per conoscere e condurli sulla scena o nel racconto, occorresse chiudere i libri e rinunziare ai suggerimenti della tradizione. Tra un poeta di Bologna e un commediografo di Milano erano diversità di cultura e d’animo che raramente si notano in scrittori d’una nazione e di un’epoca: parlavano anche lingue, per struttura e per spirito, diverse.
Ma a Leopardi aveva pensato a un romanzo “psicologico”, e Carducci che già nella Faida di Comune e in qualche altra poesia cedeva a geniali capricci narrativi fu vicino alla tentazione novellistica.
Chi scioglierà nelle ampie forme del racconto e del dramma quel duro e abbagliante cristallo della lirica nostra? Chi da quella chiusa volontà trarrà un largo e vivo mondo di uomini e di cose? Domande che non attendono una risposta; poiché la risposta potrebbe solo darla il realismo lirico di un nuovo e diverso Manzoni. Domande che, malgrado la grandezza dell’arte di D’Annunzio, non trovano certo risposta nella sua prosa poetica, nel suo racconto utopistico, nella sua drammaturgia larvale.
Frattanto bisogna tener conto di Alfredo Panzini, che è sulla via: sulla via che da Leopardi e Carducci conduce a un’arte narrativa nostra innestata sul tronco della lirica italiana. Egli fu scolaro, prediletto, del Carducci, e, invece di svolgersi nel senso della dottrina o della pura lirica, ne intese un suggerimento più difficile e segreto. Quello che veniva dalle Risorse di San Miniato al Tedesco. Di lui erano note fino a ieri (non al gran pubblico) le Piccole storie del mondo grande e la Lanterna di Diogene; oggi ecco le Fiabe della virtù. Dicevano, dicono taluni ancora, che la Lanterna di Diogene è il meglio. A me non pare. Quel libro ha bellezze squisite; ma rivela ancora troppo chiaramente i vincoli che legano l’ispirazione del Panzini ai modi della prosa carducciana. Il racconto è appena accennato, il personaggio non si libera ancora dall’involucro della meditazione, dell’ironia letteraria, della divagazione polemica, del paesaggio risentito con l’aiuto della citazione classica. Nella Lanterna di Diogene il Panzini cerca ancora; nelle Fiabe della virtù ha trovato. Ha trovato quel suo modo di sentire la realtà circostante, la passione degli uomini vivi intorno a lui, perfin la cura economica della società moderna e dir queste cose con un amaro rimpianto della vita e ideale e naturale, come Leopardi e Carducci la cantarono. Questo rimpianto era detto nella Lanterna di Diogene; era un proposito, un argomento. Ma nelle Fiabe della virtù non è più detto, è presupposto; non è argomento, è sentimento; non proposito ma stile, musica intima, che da un divino pallore elegiaco al realismo del racconto, una sfumatura di sublime all’ironia del moralismo. Sono gli apologhi dell’inutile e vinta virtù, il “Bruto minore”, indebolito e analizzato, l’aspro scontento carducciano ammollito da un’accidiosa rassegnazione. Non v’è più la possibilità di crearsi una vita ideale fra le pagine dei libri, i ricordi dei miti, le iscrizioni dei cimiteri. La vita è troppo forte o Panzini è troppo debole per rifiutarla. L’accetta, ma non l’ama; la conosce, la studia, la narra; ma con diffidenza. Tale è la sua posizione verso la vita, quale già altri critici, il Cecchi ed il Serra, la determinarono per la Lanterna di Diogene e le prime novelle: curiosità attenta ed ostile di uno che preferirebbe, se potesse, vivere ancora tra gli eroici fantasmi di Leopardi e di Carducci.
Perciò non arte senza imbarazzo e senza timidità. Manca di decisione e di audacia; non ha lena per l’opera vasta, nella quale il creatore dovrebbe vivere fra le sue creature senza rimpianti e senza sospetto. Ma in questa posizione ambigua e transitoria è la singolarità del Panzini; da questa derivano le particolari bellezze della sua arte.
E questa è la prima di tutte le bellezze: che il Panzini è già riuscito a dare esempi di quel che la critica vorrebbe dalla letteratura italiana: un’arte di sentimento moderno e di forma schiettamente classica e nostra. Il senso della prosa italiana gli è venuto per il tramite carducciano; ma come rinnovato e alleggerito di ogni gravame accademico! È il nostro classicismo; ma dopo un tuffo in una fontana di gioventù. E non è classicismo ciceroniano o cinquecentesco o boccacevole; ma ha la magrezza e il candore del primo trecento. E la sua bellezza non è di parole rare e di frasi squisite e di cocci eruditi; non è di ricami e di grovigli; ma è bellezza di tessuto. A divenir pedanti si direbbe che la forza stilistica del Panzini non è nel vocabolario ma nella sintassi. Vi meraviglia per quella comodità e agevolezza con cui le parole s’adagiano l’una accanto all’altra nel periodo; ciascheduna con una sua sinuosità fragile e casta, con una sua lucentezza mattiniera senza riverberi insolenti. Non vi si trova la muscolatura eloquente e irta di Carducci, né la monotona rotondità dio D’Annunzio, né lo sfavillio accecante di Pascoli. Non v’è oricalco né paludamento. E le parole sono quelle del parlar comune, e talvolta v’è anche un idiotismo o un termine francese, e le frasi sono talora frasi fatte. Ma quando avrete fatto l’analisi di ogni parola, resta pur qualche cosa che vi sfugge: ed è quel lene snodarsi dei periodi l’uno dall’altro, or brevi, or lunghi, ma sempre diritti e correnti, e mai distorti dal loro significato per conseguire un’armonia prestabilita con la zeppa di un aggettivo superfluo o di un sinonimo ozioso. Voi mi chiederete perché la chiami trecentesca questa prosa. Basterebbe chiamarla bella prosa. Ma Panzini non l’ha certo imparata dai moderni italiani, e nemmeno dai moderni francesi, che son meno tronfii e goffi dei nostri, ma sono meccanici, come Panzini non è, e scrivono a scatti esattamente ritmati, come gli scatti di un congegno d’orologeria. Con questa misteriosa libertà di mosse, con questo confluire e refluire di lievi inversioni e di vaghe parentesi, con questo insinuarsi di particelle che danno inafferrabili sfumature al senso scrivevano i grandi francesi del seicento e, prima, i nostri umili trecentisti, e prima ancora i greci. Panzini appartiene alla bella razza.
E perciò i lettori non s’accorgeranno delle cose che io vo dicendo. Sentiranno solo, nelle pagine del Panzini, di respirare con petto sgombro, e forse non sentiranno nemmeno di aver dinanzi agli occhi una prosa come non si sente l’aria quando è pura e leggera. E non loderanno in lui un trecentista redivivo, ma un italiano moderno. Poiché tale è il miracolo dell’arte di Panzini: con quel gusto letterario vedere la vita così com’è intorno a noi. Non una sola volta egli è preso dalla smania rifare la corpulenta novella cinquecentesca, tutta fatta d’intrigo, né di parodiare, con non voluta canzonatura, l’ingenuità del trecento. La modernità del suo sentire è tale che anche i più moderni dei novellieri russi non han nulla da insegnarli; la sensualità – quell’unica volta che in tutto il libro appare – ben lungi dall’apparire ridanciana e sporcacciona è sottile e febbrile come quella di Maupassant. E, se il Panzini ha esagerato intitolando queste sue prose fiabe, non avrebbe nemmeno avuto ragione a intitolarle racconti. La narrazione è minima, e l’argomento si riduce a uno stato d’animo, a una situazione presentata in tutti i suoi spigoli e in tutte le sue luci. Quasi non v’è progresso, altro che di commozione, dalla prima all’ultima pagina. Chi dirà con parole che non siano quelle del Panzini ciò che si espone nelle chicche di Noretta? Una fanciulla orfana di buona famiglia si fidanza con un rustico di buon cuore: ciò avviene nella villa di un lontano parente nevrastenico e pessimista, burbero benefico. Quale miseria è il riassunto di questo squisito vagabondaggio sentimentale! È che la prosa di Panzini non ha né polpa né scheletro: è tutta quanta fluidità in concentrabile e inafferrabile. Passiamo alla seconda: Il padre e il figlio. Un padre laborioso e rozzo, un figlio idealista e sognatore, che scrive libri inutili e muore di fatica; e, solo quando muore, il padre s’accorge di amarlo. Ma quell’agonia è stupenda. Poi ecco L’ultima avventura di Sancio Panza: non vi resta nella mente che l’immagine abbagliante di una piccola città provinciale, solitaria nella canicola, ove giunge il protagonista commissario regio – quel protagonista che è sempre il medesimo brav’uomo di buona volontà, ma lievemente nauseato dell’inutile fatica e della virtù che pur pratica, sebben muti di nome e di mestiere. Poi Il regno tuo venga. Anche di questa non resta che un’immagine: il buon fanciullo studioso che torna solo di collegio nella casa paterna contaminata dal vizio e dall’onta. E dopo di questa I diritti dei vecchi e dei giovani; la famiglia giovane che vive al piano di sopra aspettando la morte delle due vecchie parenti che si trascinano, l’una cieca, l’altra cadaverica, nel piano inferiore. E Le avventure di un paterfamilias: Oronzo E. Marginati, perseguitato dal fisco e dalla decente penuria, ma divenuto quasi sublime. E finalmente la Repubblica delle lettere, che chiude con uno scherzo malinconico e leggero il libro, rievocando un’altra immagine provinciale: la città solitaria ove il dotto bibliotecario – fratello spirituale del Panzini – legge i classici antichi e impara a scrivere classiche novelle moderne.
Ora io non posso che indicare: indicare, per esempio, la morte di Marco nella novella che s’intitola Il padre e il figlio e la rappresentazione dell’ava cieca ne I diritti dei vecchi e dei giovani e le tre stupefacenti pagine dedicate alla bambina ultimogenita nelle Avventure di un paterfamilias, e, anche in questa prosa, la visita all’appartamento da affittare con quella figura di mondana e quell’impeto di vizio e di ribellione che, inatteso, gonfia il petto del galantuomo martoriato. Altro che indicare non posso: poiché per rendere ragione della mia ammirazione, dovrei trascrivere molte pagine, illustrando, insieme alla virginea purità della forma, l’accorata amarezza del sentimento: quella sfiducia umile, quasi ironica, non ragionata in questo libro, ma immediata come un gesto di umoristico sgomento, dell’uomo virtuoso e sensibile verso la crudele e grossolana società nella quale oggi vive. Echi del Bruto Minore e dell’Elegia maremmana si propagano in questa prosa fredda e dolente; ma il Panzini non catechizza il lettore e non esibisce una mentalità ragionatrice e dottrinale. E il suo animo si svela tutto uno e compatto, in un’unica emozione contenuta e tenace, senza quelle sottigliezze e quei doppi fondi, che turbavano talora il nostro godimento nella lettura della Lanterna di Diogene.
La bellezza di questo libro è già salda e sicura; ma il Panzini ha forza per procedere oltre. Ha già assolto un compito estremamente difficile: estrarre un organismo narrativo della nostra lirica classica. Oramai, padrone dei suoi modi stilistici e sentimentali, ha un largo e diritto cammino innanzi a se; e potrà osare costruzioni anche più coraggiose e più libere.”