Trionfi di donna

TRIONFI DI DONNA

NB.Il primo titolo di questo libro era Trionfi di Eva, null’altro intendendo l’Autore per questo nome
se non indicare con voce generica la Donna: ma considerando che talora il nome di Eva, e
specialmente in certa letteratura da trivio, suole usarsi con senso disonesto — la qual cosa non era
nell’intenzione dell’Autore — così per evitare ad ingenui e malevoli erronee interpretazioni, è stato
modificato il titolo: e se ciò non fu possibile fare nel titolo ricorrente, se ne chiede venia al lettore.

IL TRIONFO DEL MARITO DI CLODIO

Tutte le notti, finché le stelle dell’Orsa non piegavano sul mare, il giovane dottor Bonòra, assistente
alla cattedra di fisiologia nell’Università di X***, mi intratteneva con ricca e geniale eloquenza
intorno ai più curiosi e riposti fenomeni dell’anima, ricavandone le ragioni dai segni e dalle
corrispondenze che sono nella materia: e la sua dottrina era così fresca di giovanezza e tanto
persuasiva che io in quei tempi — in cui godevo di eccellente salute e bevevo copiosamente al
fresco — mi sentivo convertire, mal mio grado, al più deplorevole materialismo.
Eppure — oh, contraddizione! — non mai come in quei giorni azzurri che trascorsi vivendo in ozio e
secondo natura sulla spiaggia di S***, al mio spirito triste avvenne di pregare Iddio così
sinceramente perché l’oggi non trapassasse tanto veloce. Questa la ragione: poche volte mi era
accaduto di vivere così bene nello spazio di ventiquattro ore da dolermi che il giorno fosse finito.
Il sole, poco dopo che le stelle dell’Orsa erano cadute, radiava sul campo del mare con tanta
solenne magnificenza che l’anima mia triste diceva: «O Signore, che non ti sveli, o solo ti sveli a chi
ti comprende e ti sente dalle tue meravigliose opere, grazie del giorno azzurro e dell’aere pura che
tu mi dai: fa che esso volga tardi e senza dolore al tramonto!» Giacché sono secoli che il buon Dio
ci offre gratis questi spettacoli meravigliosi del sole, del mare, della luce ed è molto se qualche
poeta ogni tanto ringrazia in nome della rimanente umanità il Donatore di tanta gioia.
Il mio amico dottore non ringraziava nessun Iddio, ma anche lui sentiva il bisogno di ringraziare
alcun che, alcuna cosa.
Bisogna vivere secondo natura, in libertà completa, in ozio completo per sentire tutta la felicità di
esistere, tutta la riconoscenza al Donatore della vita, tutto lo sprezzo per le infinite, faticose,
tormentose opere umane.
— Dottore, considerate se non fosse meglio per l’umanità virar di bordo: abolire tutto, codici, leggi,
convenienze, colletti, scarpe, orari, libri e tornare allo stato naturale!

— E i figli dei vostri figli tornerebbero ancora a coprirsi di un tout-même di pelame come i
progenitori di Eva, e a divorarsi letteralmente a vicenda. Studiate le leggi dell’evoluzione!
Ma queste caotiche e inconcludenti questioni non si ponevano se non alla sera, bevendo al fresco,
con la luna che al confine del mare stava preparando la sua toilette di perle e di brillanti per uscire
vaga ed errante pel cielo.
Al giorno si trattavano argomenti più ovvii e della circostanza.
Perché la spiaggia era popolata da molte femine, alcune vaghissime e giovani: esse ambulavano
per la spiaggia d’oro, coi capelli sciolti, stillanti ancora dal bagno dell’onda marina: strane monache,
coperte solo del bianco sajo dell’accappatoio.
In mezzo a quelle donne trascinanti dietro a sè, e lor malgrado, immagini impure, folleggiano
schiere di bimbi che al respiro del mare e al bagno del sole — purità meravigliose — domandavano
la conferma della salute per il domani della loro vita.
Uno spirito arcadico avrebbe trovato modo di paragonarli a numerosi Cupidi fra molte Veneri.
Alcuni uomini, giunti al tempo quando cadono le foglie dall’albero della vita, bevevano il Nirvana
dell’azzurro senza confine e si affissavano nel lento andar delle navi e delle vele bianche. Torsi
ignudi di giovani spingono lance e battelletti in mare o si rincorrono lunghesso il lido. Ricordavano
spesso negli atti il Discobulo ellenico di Mirone.
Tale la vita della spiaggia.
***
Ma la sera le signore dell’aristocrazia si coprivano di brillanti e gareggiavano nella varietà delle
vestimenta superbe.
Fra queste dame la più splendida era quella che tutti chiamavano il marito di Clodio, il taciturno.
Taciturno il marito per quanto la moglie era loquacissima; taciturno per effetto della più inguaribile
imbecillità. Le donne, pur aborrendola, non potevano staccar gli occhi da lei: e quando ella
appariva, erano condannate a ragionare di lei. Gli uomini, anche quelli che, o l’amore della virtù o il
consumo della vita o lo spreco fatto del vizio aveva resi indifferenti o aspri verso il fascino della
bellezza, al passaggio di lei s’accorgevano che i loro ragionamenti erano sospesi da un misterioso
comando, i loro occhi distratti e, quello che era cosa più strana, non potevano dirne male: era un
potente e infiammato alito che passava con lei, e costringeva a piegarsi. Il Dottore mi chiosava per
fisiologia, anzi per la più cruda fisiologia, le ragioni di questo fascino: ragioni che io una ad una
ammiravo e approvavo. «Ma insomma e con tutto ciò, caro dottore, la vostra scienza non possiede
la forza sintetica della nostra ignoranza. Per noi, gente volgare, cotesto fascino proviene da un
“nescio quid” mirabile e divino che gli antichi resero superbamente nelle loro iperboli quando
immaginarono le Ninfe, le Diane, le Elene fatali e per cui Enea all’apparire di Venere esclama:
E di che nome
chiamar ti deggio? che terreno aspetto
non è già il tuo nè di mortale il suono.
Dea sei tu veramente.»

E poichè la sua scienza e la mia poesia non volevano venire ad accordi, così scherzavamo cercando
per quella dama un paragone mitologico. Diana, Venere, Ebe, beltà snelle e febee, erano state
escluse di comune accordo «Minerva?» «Ma Minerva, per quello che mi ricordo, suppone un’idea
di intelligenza che qui dobbiamo assolutamente escludere» «Allora Giunone!» «Meno ancora; a
Giunone, non so perché, si associa prima l’idea di pinguedine che qui non è il caso, e poi l’idea di
una volontà, maligna fin che si vuole, ma prepotente: ora costei non solo è abùlica, cioè priva di
forza di volontà, ma vi dirò di più: è un’ingenua!» «Con quegli occhi, con quelle mosse,
un’ingenua? Ditelo a tutti e nessuno vi crederà! La vostra psicologia si beffa della mia ignoranza.
Ma sia come volete, ecco: Elena» «Ma Elena era un’adultera, e costei invece è una moglie
probabilmente fedele.»
— Ma voi, mio caro, vi compiacete a giuocare ad assurdi.
— Come vi pare. Non mi credete? Liberissimo. Io vi assicuro che noi ci troviamo di fronte ad un
temperamento sessualmente frigido. Non vi ho detto che si tratti di coscienza, di fedeltà morale, di
dovere o di altro sentimento che passi sotto il nome commerciale di virtù. E per questo ho
affermato: probabilmente fedele. Quanto anzi a coscienza noi siamo anzi nel caso opposto: la
dama in questione non ha altra coscienza che quella che riguarda la propria bellezza, in che
consiste una tipica forma dell’intelligenza muliebre, che meriterebbe di essere studiata di più dalle
pedagogiste e dai maestri. Ora, quando la consapevolezza di tale fascino si congiunge ad un
temperamento ardente, connaturato in un organismo così fatto, allora abbiamo le Elene, le
Messaline, ecc., ecc.: ma qui manca uno degli elementi per costituire tale composizione chimica
anzi psichica, e perciò vi dico: Il giudizio del publico è erroneo su questa dama, come è erroneo il
vostro.
— Sia come più vi pare. Escludiamo Elena; voi per le ragioni testè addotte, io perché non posso
pensare ad Elena, figlia di Leda e di Giove, senza associarvi l’idea di una perfezione di linee
insuperabile.
Ora la dama in discorso è classicamente imperfetta: uno statuario la rifiuterebbe per modello.
— Quand’è così abbandoniamo la mitologia — disse il Dottore.
— No! perché il tipo c’è — dissi io.
— Quale?
— Ippolita, regina delle Amazzoni.
— Egregiamente! voi mi ricordate memorie obliate della scuola. Ippolita cavalcatrice di bianche
pulledre indomite, coi crini che spazzano il suolo, succinta ed arciera: senonchè i tempi non
permettendo più alle donne di questo raro tipo, tali esercizi, ella, il marito di Clodio, si accontenta
di fumare un numero incredibile di sigarette, di spingere l’automobile a novanta chilometri all’ora,
di far delle volate in bicicletta, di avventurarsi al largo nuotando per più d’un chilometro, di
montare in barca quando il mare fa paura e le altre dame si ricorderebbero del segno della croce
se vi si dovessero arrischiare. Del resto, osservate: il popolo ha avuto intuito esatto di questi istinti
virili così anormali quando ha creato il nome assurdo di marito di Clodio.

Ed è appunto in questa maschilità rinchiusa in forme muliebri di rara avvenenza, maestose e snelle
nel tempo stesso, che sta il segreto del fascino terribile che esercita sugli uomini e prima di tutti sul
marito. Per non so quale malignità nostra noi la vorremmo bacchica e scomposta, e invece ogni sua
movenza, ogni suo gesto rasenta sempre l’audacia, ma non mai vi cade dentro.

***

Prima di tutto sul marito — giacché questa dama aveva un marito; non solo vivo, ma anche
presente: anzi sempre pronto al suo ufficio quando le convenienze della vita mondana esigevano la
presenza del responsabile titolare. Io lo conoscevo essendo noi dello stesso paese e coetanei: ma
la disparità dei natali, delle relazioni, del genere di vita, impedivano ogni rapporto più intimo che
non fosse il saluto e il complimento cortese. Il marchese Clodio — tale era il nome — portava un
casato storico ed illustre. Dopo avere speso il decennio che va dai diciotto ai vent’otto anni nel
solito sport del macao e dei cavalli corridori, si era messo serio; era diventato un uomo posato. Di
fatto stava posatissimo. Magrolino, tristanzuolo, nel circolo dove la sua signora parlava, rideva,
squillava, egli sedeva posatissimo e correttissimo. Quando non era chiamato direttamente in causa
nel discorso, taceva, lisciandosi e facendo scorrere le dita perlacee della mano inanellata sulla
barba: una barba nera appena segnata di qualche filo bianco, aristocraticissima, che sarebbe
riuscita assai dignitosa se il suo proprietario avesse avuto un decimetro di più di statura. Quando
lei si decideva a dire: Allons, mon chéri? egli allora si alzava e si muoveva.
Ma che vale aver detto addio al baccarat, al chemin de fer, al turf, a Monte-Carlo, avere smesso la
scuderia dei cavalli da corsa, avere rinnegato l’orgia notturna, lo sport navale, equestre, quando si
coltiva il più pericoloso degli sport? quando ci si fa devoti alla più legittima ma alla più perniciosa
delle orgie? cioè quando l’uomo si fa devoto delle follie di una moglie?
Ma ciò che era più faceto si era il giudizio della platea, a cui questo circolo aristocratico di forastieri
e di bagnanti, porgea quotidiano spettacolo e alimento di voci maligne.
Queste arrendevolezze del marito e alcune dicerie sui dissesti finanziari nel patrimonio del
marchese, davano credito alla voce che egli vivesse sulle grazie della moglie: un americano che
aveva preso in affitto la più sontuosa delle ville sul mare, che aveva fatto venire dall’estero un
automobile mastodontico, più esotico del carro di Buddha, che aveva impiantato nel suo giardino il
tennis ed il croket, che lasciava il resto del franco per mancia al caffè, che aveva al suo servizio un
cuoco che nessuno capiva ma che sfiorava tutto il mercato pagando a marenghi senza tirare un
centesimo, passava per l’amante di lei, il marito di Clodio.
Questo jankee, massiccio, rossiccio, brutale nella sua parvente compitezza di gentiluomo, non
parlava che il francese. Di italiano sapeva solo queste parole: io so, io capisco! Quando qualcosa lo
contrariava, quando i regolamenti, le leggi, il costume, ecc., sembravano opporsi alla sua
sconfinata libertà di far tutto il suo comodo, soleva dire: io so, io capisco: apriva il portafogli e tutti
lo capivano.
Proposizione elittica che voleva dire: «Io so, io capisco che voi siete un popolo di straccioni: io
appartengo ad un popolo di miliardari: troppo giusto: io so, io capisco che bisogna pagare.»
La malignità e la maldicenza erano giunti a tal punto che correva la voce avere ella detto che
saltato che fosse l’ultimo biglietto da mille, andrà a Parigi a cominciare una vita nuova di
avventuriera. Lui andrà come agente dell’americano a Nuova York.

I figli — giacché hanno due piccini — li ritirerà la madre di lui fino all’età di entrare in collegio.
Come siano sorte tali voci nessuno lo sa. Certo è che tutti compiangono i due piccoli, futuri derelitti
di questa famiglia in prossima liquidazione. Se la governante che li accompagna conoscesse
l’italiano, la interrogherebbero per sapere se ciò è vero, o fino a qual punto, se riceve la paga alla
fine del mese: non potendo sapere ciò, si accontentano di compassionare i piccini come fossero
figli propri accarezzandoli quando li vedono.
Per mio conto sapevo che il patrimonio del marchese, vistosissimo un tempo, era oberato da
ipoteche, pessimamente amministrato, tutto quel che si vuole, ma non giunto allo stato di
liquidazione come quivi correva voce. La sola galleria conteneva dei valori inestimabili; due arazzi
fiamminghi del cinquecento nel palazzo marchionale potevano sempre esser venduti per cento e
più mila lire. C’era da sorridere a coteste dicerie. Confesso inoltre che l’animo mio repugnava di
supporre in tanta abbiezione caduto l’ultimo discendente di una famiglia virtuosa ed illustre, e
questa abbiezione ai piedi di quel paltoniere rosso di jankee milionario. Me ne sentivo pure offeso
in non so quale sopravvivenza di dignità nazionale, e volevo non credervi. «Imbecille fin che si
vuole, ma non colpevole!» E godevo che il dottore in cotesto convenisse con me. Egli ammetteva
che il marito si trovasse in uno stato patologico di perfetto dominio della moglie. «Egli è un asceta,
un martire che gode del suo martirio pur di essere il possessore di quella donna. E come un artista
tutto sacrifica per la sua opera d’arte, come uno scienziato muore per la sua scoperta così questo
imbecille corre lietamente alla sua ruina pur di adornare e rendere felice il suo idolo, il suo
meraviglioso feticcio che ride. Tutto il suo mondo è lì!»
— Soltanto — aggiungeva il dottore — una cotale specie di passione potrebbe portare ad una
specie di pervertimento: il desiderio di far gustare al publico la propria opera d’arte. Accenno al
caso in genere e come supposizione, non ad un fatto specifico. La cosa vi può sembrare mostruosa
e in contraddizione con la gelosia: eppure avviene più di sovente di quello che non si pensi, specie
in cotesto ceto di gente a cui il lusso, la ricchezza e l’ozio, l’eccesso del cibo e della bevanda vanno
lentamente formando un ambiente o mezzo morale incredibilmente immorale in cui non è più
possibile distinguere ciò che distinguiamo io e voi e che in fondo distingue il popolo che lavora e
che soffre. Il giudizio del popolo non è altro che un’espressione falsa di una condanna giusta ad
una società e ad un genere di vita viziosa ed oziosa che deve scomparire.
Qui cominciava il diverbio etico-sociale fra me ed il dottore: diverbio che si protraeva finché le
stelle dell’Orsa non cadevano in mare.
Quello però che stupiva era l’osservare come nè l’uno nè l’altra pareva che si avvedessero di questa
atmosfera di obbrobrio e di ridicolo che li ravvolgea.
Ella sa dell’ingiurioso nomignolo di marito di Clodio? ne soffre? ne gode?
Le sue labbra ridono continuamente, le sue carni esultano in un’esuberanza di salute magnifica. La
sua epidermide ha dei bagliori metallici di bronzo e d’oro: la sua chioma leonina si sparge come
manto oltre le reni dietro all’accappatoio. L’anca coperta ma nettamente adombrata dal saio bianco
dell’accappatoio, spiega movenze statuarie che arrestano la gente: e con tutto questo quel
granatiere-femina ha delle estremità squisitamente modellate ed esposte al giudizio di chi le vuol
vedere, giacché, dalle undici alle dodici, il famigerato marito di Clodio passeggia fra elegante coorte
lungo i rompenti del mare.
Che dice? che parla? di che ragiona?

Meravigliose sciocchezze, che le fanno risplendere i carbonchi degli occhi iridati e pazzi, più
splendenti dei due gran diamanti che le adornano il piccolo lobo. Grandi risa urlanti come il mare,
che le fanno scintillare le gengive di corallo e le perle dei denti serrati, aguzzi, ràbidi: giacchè ella
ride sempre l’incosciente femina: ride sino a scoprire tutta la gola.
Solo quando la governante viene alla spiaggia coi piccini — esangui, delicati e belli come figli di re
— ha degli scoppi orgiastici di gioia lagrimosa, chè veramente ella piange. Allora li solleva, li bacia,
li soffoca, poi li cede alla governante per non ricordarsene che il giorno seguente.
***
Singolar cosa! Le discussioni fra me ed il dottore, pur raggiungendo le più eccelse e babeliche cime
della fisica e della metafisica, partivano sempre dallo studio di lei, la incosciente, il marito di Clodio.
— Il suo cervello — diceva egli una sera — se fosse possibile metterlo a nudo, risulterebbe bianco e
liscio come quello di un pulcino, di un idiota. Finora si sono fatte e si fanno delle questioni astratte
di morale; quasi che la morale fosse un secondo infuso misterioso come l’anima. Noi invece
facciamo delle questioni semplicemente fisiologiche; e quando lo studio del cervello sarà più
avanzato, risulteranno manifesti molti fatti che oggi a pena si intendono. Certo, anche il profano,
oggi, osservando due cervelli, quello poniamo di un semplice lavoratore del muscolo e quello di un
uomo geniale, vi scorgerebbe differenze che non sospetta nè pur da lontano. Vi sono cervelli di
pensatori che stupiscono per il lavoro meraviglioso ed immane che devono avere compiuto:
macchine occulte e veramente divine che non conobbero il riposo se non il dì della morte: rispetto
alle quali la fatica degli schiavi che elevarono le piramidi è un niente….
— Benissimo — ribattei io — vi ho colto in fallo, vi siete scoperto! ex ore tuo te judico e voi allora
che in nome della fisiologia volete abolito persino il vocabolo «Dio», come irrazionale ed assurdo,
nel nome della scienza non avete poi il coraggio di combattere apertamente l’assurdo mostruoso
della uguaglianza che è il terreno su cui il socialismo viene edificando il monumento della nuova
barbarie. Anzi fate gli occhi di triglia, gli occhi languidi a questi tetri iconoclasti: farisei, voi
scienziati! preti senza tricorno!
Così dissi io.
Ma il dottore non era uomo da cader di sella anche ad un colpo violento.
La discussione si accalorò, conoscenti ed amici fecero, come di solito, circolo attorno a noi,
assistendo al duello oratorio: alcuni bicchierini di cognac attizzavano ogni tanto le fiamme della
questione: ma la luna già alta, con la sua gran faccia tonda e il suo viso beffardo che teneva
abbonito il mare, pareva dire: «Sciocchezze antiche come il prezzemolo, ma di questo assai meno
utili!»
Era già trascorsa la mezzanotte quando io ed il dottore ci avviammo lungo il viale dei villini: il
dottore stava a dozzina in una casa in fondo al detto viale ed io solevo ogni sera accompagnarvelo:
salvo caso di accompagnare, dopo, lui me, e quindi io lui; e molte volte l’alba ci sorprese in queste
scambievoli cortesie.
Le ville in quella notte soave dormivano bianche al lume lunare dietro le pareti delle betulle e le
siepi dei tamarischi; quando ne attrasse un vivo bagliore che proiettava fin sulla strada. Tutte le

finestre a pian terreno della magnifica villa affittata dall’americano, erano illuminate
sfarzosamente.
— Solita baldoria! — dicemmo all’unisono, quando d’improvviso la gran vetrata di mezzo si
spalancò con violenza e un uomo ne uscì: dietro, il cameriere in marsina.
— Si metta il cappello almeno, signor marchese — disse la voce del cameriere che giunse distinta
sino a noi.
Era lui, il marchese Clodio.
Nel fascio della luce la sua figura in sparato bianco e giacchetto nero, apparve distinta: rotolò gli
scalini della villa; scomparve nella macchia di alcuni alti arbusti. Poi più nulla! Il cameriere
richiudeva le vetrate tranquillamente.
Noi ci arrestammo.
Dopo qualche minuto lo vedemmo riapparire: attraversò, barcollando, il giardino, varcò il cancello,
uscì sulla strada dove eravamo noi, barcollando pur tuttavia come persona ferita, che cerca ove
posare. Ad un certo punto, mentre noi meravigliati osservavamo la nuova scena, non resse più e
cadde di botto. Allora accorremmo.
Rantolava pietosamente.
Al tatto, sentimmo dal suo viso grondare un sudore gelato.
— Marchese — dissi io — che ha? sta male? è ferito?
Aperse gli occhi al richiamo, mi ravvisò, sorrise bonariamente:
— Oh, lei, caro? no ferito, ma mi sento male, molto male. Come? Non lo so. Questo è il bello.
Lo sollevammo da terra reggendolo per le ascelle, il che ci riuscì assai facile essendo noi due di
aitante statura ed egli assai piccino ed esile.
In questa grottesca posizione io presentai al marchese il dottore.
— Onoratissimo, caro signore, e…. e…. molto a proposito, molto a proposito — fece il marchese
piegandosi, per fare un inchino, sullo sparato bianco; ma in quel punto gli spasimi cominciarono
atroci.
— Caro amico — fece il dottore a me con quella nobile e pietosa calma che distingue i seguaci di
Esculapio quando v’è urgenza del loro soccorso — favorite in cerca di una vettura, qualcuna ve ne
deve ancor essere di stazione nello spiazzale dello Stabilimento.
Partii di corsa.
Dieci minuti dopo li raggiunsi con una vettura da piazza.

— Come va?
— Meglio — rispose per lui il dottore; — ora si è un po’ liberato e ne scorgete le tracce anche sulla
mia persona.
Il povero marchese, allibito, livido, gli occhi sbarrati, gli abiti sordidi, stupefatto a quell’uragano che
gli era scoppiato nel ventre, avrebbe eccitato le più allegre risate se la pietà lo avesse permesso.
Nei momenti di tregua, fra uno spasimo e l’altro, ripeteva comicamente, interrompendosi ad ogni
nuovo dolore:
— Io sono mortificatissimo: eravamo tutti a cena allegramente dal nostro buon amico, mister
Douglas, l’americano: si era mangiata la zuppa, un’eccellente zuppa di gamberetti alla
nuovajorkese, specialità del suo cuoco, quando…. tutto ad un tratto…. Allora, per non disturbare gli
amici, mi sono assentato…. con un pretesto…. Chi non avrebbe fatto così? Grazie a Dio, nessuno se
n’è accorto. Ma chi poteva supporre un disastro, una cosa simile? Un ciclone ha preso dimora nel
mio ventre.
E a me poi diceva:
— Come esprimervi, caro amico, tutta intera la mia gratitudine? e a questo degno gentiluomo di
medico? Se la provvidenza non vi avesse messi sui miei passi, io sarei rimasto in mezzo alla strada.
In piedi non mi ci reggo più! È deplorevole!
Evidentemente faceva sforzi erculei per sembrare superiore al male: ma questo, come onda forte,
lo spingeva, quasi fuori di sè, verso la scogliera del dolore.
— Se ci fosse il colera, si direbbe un caso fulmineo di cholera morbus — suggerii io piano al
dottore.
Egli alzò impercettibilmente le spalle:
— Certo i sintomi sono questi — rispose.
— E allora che cosa può essere?
Allungò le labbra, come persona che non sa, e si accontentò di rispondermi:
— Staremo a vedere.
Disse poi:
— Una colica di questa improvvisa violenza potrebbe essere indizio di qualche grave sconcerto
viscerale, cosa che non credo: ad ogni modo prima di qualche ora ogni giudizio sarebbe prematuro;
piuttosto aiutatemi a tenerlo sollevato.
— Perché ridete, dottore? — domandai poco dopo.
— Io rido? Mai più.

E pur un sorriso caustico errava sulle sue labbra. L’infermo giaceva insensibile fra noi due, mentre
la vettura correva lungo il viale. Eravamo giunti in città: quivi il dottore diede il recapito di una
farmacia: come fummo giunti, balzò giù, premette il bottone di guardia e mentre di dentro si
apriva, facemmo scendere il marchese.
— Questo è per voi — disse il dottore al fiaccheraio allungando una moneta da cinque lire — ma
sarà molto bene che non fiatate nemmeno sulla corsa di questa notte. Potreste avere delle noie
anche voi.
— Perché? — chiesi con cenno al dottore.
Il sorriso ironico gli riapparve ancora sulle labbra.
— Perché è prudente. Ve lo spiegherò forse fra poco — rispose.
Il giovane di farmacia conosceva bene il dottore e si mostrò servizievolissimo; accese il gaz e
preparò quanto il dottore ordinava.
In breve tempo fu praticata la lavatura dello stomaco, gli fu somministrata una forte dose di
bismuto, e liberatolo delle vesti e steso su di un divano, gli furono applicate delle compresse calde.
Gli accessi dopo alcun poco si susseguirono con minore violenza.
— Molto meglio, oh, molto meglio — mormorava l’infermo sorridendo lievemente al piacere di
sentirsi liberare dai tentacoli del dolore — però è inconcepibile, sempre più inconcepibile! Eravamo
fra buoni amici! Una zuppa eccellente! Se avessi ecceduto nel mangiare, capirei….
— Ora riposi un poco, signor marchese — disse il dottore —, si metta in calma e vedrà che fra un
paio d’ore tutto è passato. Anzi, per far meglio, chiudiamo la porta e lasciamolo al bujo.
Del resto la raccomandazione era vana. Adagiato in un divano del retrobottega, i gemiti andavan
cessando: l’infermo si assopiva lentamente.
— Adesso pensiamo un poco a noi, caro amico, — mi disse il dottore — giacché anche voi
sembrate uscito da una fogna.
Mi guardai le vesti inorridito.
— Eh, mio caro — diss’egli filosoficamente — la carità messa in pratica sul serio non è tra le virtù
più profumate!
Il farmacista, ridendo, lasciò scorrere molta acqua in alcune bacinelle; ci fornì alcuni suoi abiti per
ricambio e intanto noi, con gran spreco di sapone e di spazzola, ci venivamo rimettendo all’onore
della luce e dell’olfatto.
— Bisognerà fare un bucato a posta — diceva il farmacista, un allegro e gagliardo ragazzone,
mentre raccattava, toccandoli a pena, gli abiti del marchese e li buttava in un canto.
— Per me — diceva il dottore — sono incerti del mestiere, ma per l’amico mio è un’avventura del
tutto inaspettata; almeno dal suo bell’abito di panama candido. Del resto, siccome lui fa

professione di essere buon cattolico, e c’è un articolo nel codice dei dieci comandamenti che
prescrive di aiutare gli infermi, così può mettere la sua fatica nella partita di credito verso il buon
Dio. Accumulate, amico, e fate fruttare il capitale al banco di S. Pietro.
— To’, ma questo cos’è? — fece all’improvviso il farmacista.
Teneva sciorinato davanti a sè il farsetto nero co’ risvolti di raso del marchese torcendo naso e
bocca comicamente.
— Ma questo è odor….
— Vedete? se ne è accorto anche lui — esclamò il dottore sorridendo — non lo volevo dire, ma
vedo che ha capito da sè.
— E che je venuto in mente a sto fesso de becco fotuto de’ pijà la gialappa? — scoppiò a dire nel
natio dialetto il degno farmacopòla.
— La gialappa? — feci io con gran stupore — e sarebbe a dire?
— Sarebbe a dire — spiegò il dottore — che il vostro marchese ha preso uno dei drastici o purganti,
che dir vogliate, dei più formidabili.
— Inverosimile — dissi io —: se avesse preso un simile purgante, non starebbe a domandare come
è stato.
— E chi vi dice che abbia preso la gialappa, sapendolo?
— Allora come?
— Come? — spiegò il dottore — A sua insaputa. Supponete per un momento che a mister Douglas
e a’ suoi degni compagni la presenza dell’inseparabile marito non riuscisse gradita questa notte e
riuscisse gradita invece quella della sola moglie, come fare? Dirgli: «Marchese, vada a letto che per
lei è tardi» non si poteva. E allora hanno escogitato questo mezzo di guerra, questa astuzia degna
di un paio d’anni di galera, della loro malvagità e della dabbenaggine di questo infelice. Fatta
questa ipotesi, caro amico, ritenetela come cosa certa e avrete la spiegazione di questa avventura
notturna.
Il farmacista che stava tutto orecchi ad udire, poiché ebbe compreso, scoppiò in una risata
infrenabile.
Il dottore teneva fissi gli occhi verso di me come per avere la conferma della sua induzione.
— Se così fosse — risposi io — questo non è uno scherzo, questo è un delitto.
— Precisamente.
— E allora noi lo denuncieremo!

— Pensandoci prima un poco su — disse il dottore — giacché il ridicolo che deriverebbe da un
processo di simile genere, sarebbe tale da uccidere un elefante.
La parola calma del dottore gelò ogni mia risposta.
Il farmacista nella beata spensieratezza dei vent’anni si era scostato da noi tenendosi il ventre per
frenare le risa.
— Ma chi prende un purgante — volli obbiettare ancora — se ne avvede dal sapore.
— Niente affatto — interloquì il farmacista che aveva sentito la mia obbiezione e non voleva
perdere la stupenda occasione di ridere — la gialappa ha questo di speciale che è dolce e si
maschera benissimo con qualunque sapore. Se vuole provare, signore, ai suoi ordini.
— E dato pure che ciò sia come voi dite — chiesi al dottore non tenendo conto della facezia del
farmacista — voi credete connivente la marchesa? Ciò sarebbe mostruoso.
— La connivenza della marchesa non è necessaria. Capirete bene che ella, se vuole, non ha
bisogno di ricorrere a simili espedienti. Aggiungete che in questo caso la incoscienza o la
spensieratezza non bastano per commettere una simile azione. Ci vuole la brutalità fredda di un
mister Douglas, il quale per la sola ragione che può comperare a peso d’oro i prodotti più costosi e
raffinati della civiltà, appare uomo civile: nella sostanza un barbaro corrotto dalla stessa civiltà:
caso più che frequente.
— Ah, dunque — dissi io trionfante — lo ammettete senza volerlo che il progresso o è una
conquista morale eroica o non è? La verità è una bolla d’acqua che appare da sè alla superficie se
l’anima non è ottenebrata dalla passione.
— Siamo alle solite? — fece il dottore di mal animo — Smettetela.
E benché per il dottore il bene ed il male avessero valore nuovo, questa volta pareva che egli
sentisse l’azione vile di mister Douglas nel modo medesimo che l’avrebbe potuta considerare uno
spiritualista, un credente nell’anima e nel libero arbitrio di scegliere il bene ed il male:
contraddizione comica in cui cadono sovente molti filosofi materialisti.
Ma sapendo che nulla offende gli uomini di ingegno come il porre in raffronto e il coglierli sul fatto
della loro contraddizione, così mi tacqui sul cominciato proposito e chiesi in quella vece:
— Lo scopo, amico, di un’azione simile.
— Lo scopo? Ma è semplicissimo — interloquì il farmacista —: un’orgia da disgradare le cene di
Nerone che ho lette nel Quo Vadis.
Noi due tacemmo: il medesimo pensiero si era già formato nella nostra mente.
— Lui — proseguiva trionfante il farmacista — si permette la libertà di stare sempre alle costole di
lei, sempre legato alle magnifiche colonne delle sue gambe. Credete che ciò faccia piacere a tutti?
No! e loro lo hanno mandato a letto col mal di pancia. Uno stratagemma permesso nel codice
d’amore.

La facezia del giovanotto rimase senza risposta.
— Comunque sia, ciò non ne riguarda che molto mediocremente — concluse il dottore —; fra poco
quando si sveglia gli darà del cognac. Noi bisognerà che andiamo a bussare a casa sua: il disgraziato
non può mica uscir di qui in camicia!
L’orologio segnava le tre del mattino.
— Fra mezz’ora saremo di ritorno.
Il farmacista, mentre noi ci muovevamo per uscire, ribatteva dolcemente gli sportelli, esclamando:
— Ah, bellissima! chi l’ha imaginata è un genio! la gialappa usata come artiglieria nelle guerre
d’amore! Sono invenzioni che non vengono che dall’America. Se non la mando ai giornali faccio una
malattia!

***

Caminammo silenziosamente. Essendo la luna piena, un guardiano del gaz correva di fanale in
fanale a spegnere. Nessun altro nella via.
Infine io non potei a meno di esporre questo pensiero che mi si veniva formando invincibilmente
nell’animo:
— Noi due, io benché credente o quasi, voi benché positivista, determinista o come più vi piace
chiamarvi, ci accordiamo però in una cosa suprema: combattere la violenza fra uomo ed uomo.
Ebbene, eccoci qui nel caso di invocare la riparazione di una violenza con un’altra violenza, e quel
che è peggio, noi dobbiamo convenire che se quell’infelice d’un uomo avesse avuto solo l’opinione
di prepotente e violento, quella gente là un tale scherno non lo avrebbero nemmeno imaginato,
non che fatto. Dunque? Dunque la villania e la violenza sono una virtù. Uno può coscientemente
affaticarsi a spegnere in sè gli istinti secolari della violenza per poi accorgersi un bel giorno che in
certi casi quel difetto sarebbe la più invocata delle virtù. Ora la mia ragione mi dice: prendi un’arma
e uccidi! ma sento che la mia mano, non abituata alla violenza, si rifiuterebbe a simile atto. Quale
confessione penosa e umiliante!
Il dottore mi lasciò parlare a mio agio finché giungemmo al palazzo dove abitava il marchese. Egli
era ospite di una casa patrizia della città, e abitava al piano terreno. Battendo col bastone sulle
persiane giungemmo dopo replicati tentativi a farci aprire una finestra.
Apparve un cameriere.
— La marchesa è tornata a casa? — domandò per prima cosa il dottore.
— Non ancora, non sono ancora tornati, nessuno dei due: ma già è il solito! Veramente questa
notte è più tardi del solito.
— Bene, fate il piacere di aprire: il marchese si è sentito poco bene questa notte; e abbiamo
bisogno di abiti e di biancheria per cambiarlo.

Nessuna meraviglia, nessuna domanda da parte del domestico.
Ci venne ad aprire, ci fece lume senza disturbarsi nè anche a fare una domanda: che male avesse il
padrone e chi fossimo noi.
Precedendoci con la candela, passammo per una stanza dove dormivano i due figli del marito di
Clodio. Per il caldo avevano respinto le coperte e i due corpicciuoli ignudi erano graziosamente
atteggiati nel sonno: le testoline d’oro sprofondavano nel guanciale. Un senso di pietà profonda
scese nell’animo nostro.
— Ma dormono soli questi poveri piccini? — non potei a meno di osservare sottovoce al
cameriere.
— La bonne si è allontanata un momento, oh, ma non si svegliano: fanno un sonno tutta la notte;
se si svegliano, vada pur là che si sentono.
Vidi il dottore che crollava il capo pietosamente.
Io non risposi nè quegli disse parola. Abbassò il lume che avea alzato sulle nostre teste affinché
contemplassimo i piccini. Sacra infanzia! di te prende forma il Redentore del mondo: e il germe del
male è sì piccolo o latente tuttora in te, sacra infanzia, che le pupille del bimbo si affissano attonite,
soavi, sublimi perchè prive ancora del male. Generata in un istante di oblio o di follia, tu grande
pura pupilla infantile riduci chi ti generò a meditare su le mirabili leggi che sostengono la vita:
dicono le pure pupille al padre, alla madre: «Purificatevi, siate buoni, siate concordi, operate il
bene secondo la buona legge!» Dicono i corpi gracili a chi li generò: «Difendeteci, alimentateci!
allontanate il dolore e il male da noi perchè voi ci generaste!» ed è questa la ragione perché il
pianto del bimbo penetra nell’animo più acuto di una spada, più severo delle leggi dei codici!
I due corpicciuoli dei figli del marito di Clodio, buttati là sul letto come se una mano brutale ve li
avesse scagliati, dicevano a noi questa querela mentre il padre e la madre correvano alla loro pazza
ruina.
Il cameriere non doveva avere questi pensieri pel capo: esso ci diede una muta di vestiario, la
biancherìa richiesta, ci avrebbe data la casa se la avessimo domandata. Che cosa importa ai
camerieri? Giacché il cameriere è l’uomo a cui nulla importa. Rinchiuse la porta senza nè anche
domandare a chi avesse consegnato quella roba.
Ritornammo verso la farmacia, ma avevamo a pena svoltato l’angolo che il giovanotto ci venne
incontro:
— Ah, sono loro — fece da lontano — lo hanno incontrato?
— Chi incontrato?
— Quello della gialappa, il marchese…. Oh, bella!
— Ma il marchese non è qui?

— Macché, è scappato via di corsa, io gli sono andato dietro per un poco, l’ho chiamato, gli ho
domandato se era diventato matto, eh sì! correva come una bicicletta: «Va un po’ a farti….» e sono
tornato in bottega.
Il dottore aggrottò le ciglia e domandò al giovanotto:
— Ma lei gli ha detto niente? Evidentemente lei deve aver commesso qualche imprudenza….
— Che imprudenza vuole che abbia commessa? Ecco come sono andate le cose: poco dopo che
sono partiti loro due, mi ha chiamato e mi ha detto che stava bene e che si voleva alzare. Allora io
gli ho dato il cognac secondo la sua prescrizione, e poi gli ho detto che lor signori erano andati a
prendere degli abiti….
— Ebbene?
— Bene, lui si è messo a sedere lì e beveva il cognac: «Gran gentiluomini…. veri gentiluomini!» e
poi dopo con quei suoi occhi stupidi, mi guardava lisciandosi la barba da becco e andava ripetendo
ogni tanto: «Pare inconcepibile, pare inconcepibile una malattia improvvisa così terribile! Perchè si
era lì fra amici, una zuppa eccellente di gamberetti alla nuovayorckese….» Allora mi scappò la
pazienza; a chi non sarebbe scappata? e ho detto: «Ma che zuppa eccellente! Macché gamberetti!
Di gamberi ce n’era uno solo, ma questo non era nella minestra: era fuori della minestra! Nella
minestra c’era soltanto la gialappa, di quella buona. Non ha capito ancora che lei ha preso la
gialappa?» Allora mi guarda con due occhi grandi così, e sarà rimasto con la bocca aperta per un
quarto d’ora. «Ma sì la gialappa, non ha sentito che la zuppa era dolce?» È rimasto lì: e poi dalla
bocca aperta è venuto fuori un urlo che lo devon aver inteso anche al terzo piano, e poi? poi chi lo
ha visto? Credo che abbia preso il suo smoking-coat ed è scappato via.
— Imprudente — fece il dottore.
— Perché imprudente? Sarà andato a casa.
— Se veniamo noi da casa e non l’abbiamo incontrato!
— Avrà preso un’altra strada, di notte non ci si vede.
— Che imprudenza — ripeté il dottore — Quel disgraziato ha capito tutto.
— Quel cretino? Ma che vuole che abbia capito mai? Anche se gliela fanno sotto gli occhi non
capisce.
Non c’era altro da dire nè da recriminare.
Uscimmo dalla farmacia, dolenti entrambi dell’accaduto e ci avviammo alle nostre case presso la
riva del mare.
E dopo che eravamo andati alquanto in silenzio, io chiesi:

— Quali induzioni voi ricavate, amico, da questa fuga repentina? un risveglio della sua dignità
d’uomo e di gentiluomo? o una fuga per isfuggire la presenza d’un testimonio della propria
vergogna?
— L’ora per le induzioni — rispose il dottore — non è la più adatta, amico; fra poco sarà giorno.
D’altronde accontentiamoci di soccorrere i mali degli altri, come abbiamo fatto questa notte, ma
non di più; non condividiamo la sventura altrui benché si dica ogni giorno questa trita frase: «io
partecipo alla vostra sventura.» Fra le altre cose non è pratico: trasmettiamo a noi l’infezione
terribile della sventura senza liberare l’infermo. Credete a me!
— Eppure — replicai io — Platone e Socrate prima di Cristo dissero e scrissero: «bisogna dare altrui
parte delle proprie gravezze.»
— Visionari, mio caro, non tanto Socrate e Platone e Cristo quanto voi. Essi avevano un gran tempo
da perdere e davanti una vita eterna, o almeno erano convinti di averne, il che fa lo stesso. Quindi
potevano sacrificare in oziose ricerche questa vita reale per l’acquisto dell’altra vita ideale. Noi no,
assolutamente. Noi abbiamo i nostri affari, limitati a breve scadenza di tempo. E poi a quest’ora in
cui le cellule del cervello dovrebbero riposare, è terribile cosa affaticarsi intorno a queste vane
questioni. Più tosto affrettate il passo giacchè il letto quando il sole si alza non è ospite così
benigno come quando il sole tramonta.
Il cielo infatti schiudeva la sua palpebra grande in oriente, sul mare, e una luce gialla era sospesa
nell’aria. Andavamo lunghesso il viale. In fondo il mare era d’una bianchezza lattiginosa. Le betulle
e i tamarischi erano ancora addormentati chè il fremito dell’alba non li aveva destati ancora.
Il nostro passo suonava chiaro in quel silenzio, lungo la minuta ghiaia del viale che conduce al
mare, quando un suono stridulo e pazzo ci percosse, e da presso: e quasi nel tempo medesimo
apparve un gruppo di gente, e avanti al gruppo, il rosso, il magnifico rosso dell’abito serico di lei, il
marito di Clodio: una gran macchia di porpora in quel giallo sbiadito dell’alba, un gran scroscio di
risa e canti impuri in quel silenzio, quasi raccolto e sacro dell’alba.
Il marito di Clodio avanzava su tutti per conto suo con le preziose penne del cappello a
sghimbescio, con le mani si teneva su le grevi trine delle gonne, e sollevandole a modo delle
cantatrici, avanzava cantando la sconcia canzone:
Ciribibì, che bel piedin!
Il gruppo che seguiva non pareva partecipare a quel canto orgiastico.
— A terra! — ebbe appena tempo di suggerire il dottore che egli già si era nascosto dietro la siepe
dei tamarischi — io lo imitai così che coloro non ci scorsero.
Procedevano lentamente, fermandosi ogni tanto, e perché erano soli parlavano forte e le loro
parole nell’aria immota giungevano ogni tanto al nostro orecchio. Non si comprendeva bene, ma
erano recriminazioni reciproche fra gli uomini: le donne tacevano. Perché c’era mister Douglas con
due suoi accoliti e due dame di gran vita mondana e di turpe reputazione. Quegli abiti da luce
elettrica stridevano nel chiaro giorno, nella purità dell’alba solenne, come una bestemmia nel
raccoglimento di una preghiera.

Quando furono presso di noi, udimmo uno degli accoliti dire a mister Douglas:
— Caro Douglas, le cose non sono andate, perfettamente, secondo i vostri programmi….
— Io, conte — disse freddamente una delle dame — ve lo avevo preavvisato ieri? Fate, ma
guardate che vien fuori uno scandalo. So come è fatta quella donna, credetelo a me! Pare, ma vi
sbagliate. E voi, no! Bisogna accenderla! dicevate. L’avete accesa e cosa avete guadagnato?
guardate lì….
Si erano fermati davanti a noi: guardammo lì dove indicava il dito della dama: esso segnava il volto
di mister Douglas che prima, non avevamo osservato.
L’uomo camminava cupo e preoccupato: teneva sul volto un fazzoletto, rosso di sangue. Il volto era
striato di lividure e di solchi sanguigni.
I due uomini scoppiarono in una risata, ma era un riso acido e forzato. Disse uno dei due:
— Una lotta indimenticabile, uno spettacolo unico: tutta la cristalleria per terra faceva l’effetto
d’una scarica di wetterli. Mister Douglas, se voi conservate ancora gli occhi porgete i dovuti
ringraziamenti ai due sottoscritti. La marchesa tirava alla faccia, disperatamente. Ma sapete che ce
n’è voluto per distaccarla?
— Fi des betises, fi des bêtises, mes amis — muggiva mister Douglas — plutôt tâchez d’apaiser ce
diable de femme.
— Io? — disse l’altra dama che non aveva parlato — io no! Già che dice che sono stata io…. mai
più…!
— Scusate — le disse in tuono insinuante e persuasivo il secondo accolito — l’idea dell’ètere è
balenata veramente a voi….
La dama scattò: — Ma l’etere volatilisé…. un petit peu — per dare de la spiritualité à l’ivresse. Ma
l’etere liquido nel cognac l’avete versato voi…. proprio voi!
— Caspita, voleva andar via per seguire il marito….
— Ebbene, e allora mister Douglas — replicò la dama — doveva capire che era inutile tentare più in
là. Siete stati grossiers, molto grossiers tutti e tre.
— Dovevate, dirlo allora.
La dama alzò le spalle.
— Andrò io — disse l’altra dama — qui bisogna finirla, bisogna calmarla. Oramai vien gente. È uno
scandalo e dei peggiori.
Si staccò dal gruppo e si accostò alla marchesa.
— Marchesa! — disse umilmente. — Marchesa! — e le toccò l’abito.

Allora ella si voltò: la vedemmo di fronte. Gli occhi erano pazzi e vitrei.
— Mister Douglas è pentito — insinuò la dama — è stato un equivoco, assolutamente un equivoco:
domanda perdono. Un momento di follìa provocato dalla passione! Mettetevi composta, viene
gente. Andiamo a far la pace. Suvvia!
Il marito di Clodio cessò di cantare ciribibì; fissò gli occhi in volto alla dama, poi, come un organetto
a cui è stato mutato il registro, riprese su altro tuono:
Pace non voglio fare
Sono ostinata…!
La dama ritornò con un gesto di rabbia ai suoi.
— È inutile! Ha cominciato con le canzonette e non la finisce più!
— Tout finit par des chansons! — filosofò l’uno degli accoliti.
Consultavano fermi davanti a noi sul modo come frenare quella pazza ubbriaca.
E consultando indugiavano ad avanzare come se quello star fermi avesse ritardato l’avanzar della
luce. Ma il sole oramai saettava strali vivi nel cielo; le piante si destavano, un fragor di ruote
annunciava la gente e il nuovo giorno.
Ventilavano il progetto di una carrozza, di un farmaco, di lasciarla sola e così discutendo si erano
mossi alquanto.
Un fremito di rabbia scuoteva i miei nervi e se il polso fermo del dottore non mi avesse trattenuto,
confesso che mi sarei lanciato fra quella gente.
— Caro mio — sussurrò il dottore quando ci potemmo levare in piedi — pensate: se dovessimo
reagire contro tutte le viltà che si commettono, bisognerebbe prima di tutto domandare al buon
Dio un sistema muscolare e un sistema nervoso fatto con cura privilegiata. Lasciate passare!
In piedi, io fremente, egli col polso fermo su me osservavamo il gruppo che si allontanava, quando
accadde un fatto inatteso, o almeno a cui più non pensavamo.
Un piccolo uomo sbucò dal viale di fianco e si lanciava contro mister Douglas con un grido di guerra
già preparato nel petto: «Vigliacco, vigliacco!»
Era il marchese Clodio.
Successe un parapiglia e una mischia oscena di tutte quelle figure: la voce vigliacco! che squillava
sempre, si spense ad un tratto. Il gruppo cadde a terra. Clodio giù: sopra, la mole feroce
dell’americano.
Di comune e tacito consenso accorremmo gridando noi pure forte: «Vigliacchi!»

Al rumore de’ nostri passi quella gente sostò, atterrita; si volsero, ci fissarono. Fu un attimo. Poi
scapparono di fuga: e noi ci trovammo sopra il gruppo di Clodio disteso a terra col sangue che gli
grondava dalla fronte e lei, disperata e lagrimante, che diceva ripetendo: — Oh, mio povero Clodio,
mio piccolo Clodio! I nostri poveri piccini dormono a quest’ora e non lo sanno!

***

La sera di quel giorno si sparse la notizia che il marchese Clodio e mister Douglas si sarebbero
battuti alla pistola: noi veramente lo sapemmo prima degli altri perchè due signori, rappresentanti
del marchese Clodio, vennero a richiedere l’amico dell’opera sua come medico: ma egli si rifiutò
decisamente, sdegnosamente dicendo: — Per un uomo in quelle condizioni fisiche e morali battersi
a duello vuol dire suicidarsi. No! Piuttosto una cosa: Date un mio consiglio al marchese: carichi la
rivoltella e quando incontra l’americano gliela scarichi contro. Il consiglio gliel’ho dato io.

***

Ma fu vano consiglio.
Il duello ebbe luogo la mattina seguente e il marchese Clodio ebbe la fortuna di cavarsela con una
spalla fracassata da un colpo di pistola.
Fu per espressa volontà del marchese che il dottore ed io venimmo chiamati al letto del ferito.
V’era la marchesa.
Trovandoci per la prima volta al cospetto di lei, io, ed il dottore pure, fummo presi da turbamento.
Arrossivamo per lei.
Ella era impassibile. Parlò della ferita, della cura dei bimbi, di tutto fuor che un accenno alla causa
di quella ferita. Pareva che si fosse trattato di un’altra persona.
A qualunque ora del giorno e della notte noi ci fossimo recati a visitare l’infermo, la marchesa era
immobile, calma, al capezzale.
Ora, la febbre altissima richiedendo una sorveglianza notturna, disse il dottore:
— Signora, sarà necessario provvedere una infermiera per la notte.
— La infermiera sono io.
Ogni obbiezione fu inutile. Infermiera volle essere il giorno e la notte.
Si trasmutava di giorno in giorno: pallida per le lunghe veglie, ma composta, ma non una traccia di
pianto: anzi una specie di ilarità interna che appariva in una dolcezza e in una signorilità
sorprendenti.
Quando la febbre decadde e cominciò la convalescenza di Clodio, ci intratteneva spesso ad un
tavolino da tè, presso il letto dell’infermo. Ragionava con molto buon senso dei bambini,
dell’educazione da dare, e ogni consiglio del dottore era accolto con vivi segni di riconoscenza.

Pareva che imparasse una lezione preziosa, che si addentrasse in un giardino meraviglioso di purità
dove ella, donna, metteva il piede per la prima volta. E ne era beata!
In verità noi assistemmo in quei giorni ad un fenomeno inesplicabile quanto meraviglioso anche
pel mio amico dottore: cioè allo sviluppo della cellula della coscienza nel cervello di colei che fu
chiamata il marito di Clodio.
Come siano fatte queste cellule e dove abbiano sede il dottore non sa ancora, ma egli assicura che
si tratta di uno speciale gruppo protoplasmatico che può essere eccitato da una speciale
commozione morale o anche da cause traumatiche.
Comunque si voglia credere su tale proposito, il fatto vero e provato è questo che la marchesa
divenne da allora in poi moglie e madre esemplare.
Questo lo imparai dalla conoscenza del marchese col quale divenni ottimo amico, non dalla
cronaca. Anzi la cronaca cessò di occuparsi di lei: il suo nome non suonò più sulle labbra del
publico, le sue toilettes non furono più argomento di descrizione nei rendiconti dei giornali,
giacché questa è la sorte che tocca alle donne virtuose: il più completo silenzio sul conto loro.

 

IL TRIONFO DELLA PENNA D’AIRONE

La gioventù di Leo era stata triste.
La rosa non era voluta fiorire sul margine della sua nova vita.
Ed è per questa ragione che egli, in sui vent’anni, cioè prima del tempo, era uno spirito meditante
ed austero, e altresì un refrattario all’amore.
Questo suo naturale, fra le molte centinaia di giovani dell’Università, rendeva Leo altrettanto noto
quanto lo rendevano i suoi calzoni, i quali non arrivavano mai a nascondere i legacci delle mutande
e i due tiranti delle scarpe.
E i suoi calzoni non arrivavano alla lunghezza normale della moda per la stessa iniqua ragione per
cui il suo pranzo si ostinava a non oltrepassare il limite di soldi venti, e la cena si manteneva alla
virtuosa sobrietà di un pezzetto di cacio salato o di salame.
Spirito meditante e refrattario, adunque, all’amore!
Ma anche in questo bisogna intenderci per non dir cose che siano troppo fuori dal vero: il vero
sacro ed occulto.
A vent’anni non c’è austerità che tenga e non c’è meditazione dolente che vi smorzi questa bella
convinzione della giovinezza: «cioè che il signor Iddio, quando creò tutto il vasto mondo, lo abbia
creato con uno speciale riguardo per voi, proprio per voi e per il vostro bellissimo volto.»
La luna, al tempo della giovinezza, vi manda un garbato sorriso: gli occhi dei fiori e dei passerotti
contemplano proprio voi, i vostri propri consimili vi sembrano animali graziosi e benigni. Per far
piacere a questi animali e far loro servizio, le stelle si rotolano lassù in cielo, il vapore sbuffa, il sole
compie il suo orario regolare, il mare — docile bestione — fa da facchino e porta i bastimenti gravi
sulla schiena: e, se hanno un torto i vostri simili, questo consiste solamente nel non riconoscere
compiutamente i vostri meriti e i vostri diritti.
Oh, più tardi, molto più tardi la luna non avrà più complimenti per voi; e allora, quando la luna non
vi fa più complimenti, quando vi avvedete che il sole compie i suoi giri con una rapidità spaventosa
ed inesorabile (mentre prima spiegava in pace le vele d’oro al blando favonio del tempo) quando il
vostro spirito critico trova che le cose del mondo vanno irrimediabilmente male e che i vostri
consimili non sono più graziosi, ma sono una macchia sporca nel paesaggio del mare e della selva,
quando in voi si viene radicando la convinzione che esiste una legge dello spirito immutabile come

quella della materia e che, con tutto cotesto, voi fra i milioni de’ vostri simili non avete altro diritto
che quello di essere tollerato per il posto che occupate, pel pane che mangiate, per l’ossigeno che
respirate, oh, allora sì l’austerità è paurosa!
Dove è la verità? prima o poi? Eh, chi lo sa! Non lo sapeva nè meno Pilato, uomo positivo e
proconsolo di Roma presso Giuda: anche egli si chiese: «Che cosa è la verità?»
La verità che io so in proposito è questa: Prima vuol dire che voi siete giovane e poi vuol dire che la
morte si è allacciato le coreggiole dei suoi sandali per venire a farvi una visita.
Questo io so. Il resto lo sanno i filosofi patentati.
***

Refrattario all’amore!
Oh, altra cosa è la superba castità del maschio, giovane e bello intento al pensiero, e altra cosa la
castità dell’uomo il quale un bel giorno si avvede come le donne non abbiano più in suo onore
quelle due qualità seducentissime che sono la Civetteria ed il Pudore. E se ancora elle vi ascoltano,
o serie o pietose, ridono di voi sotto la gonna!
Forse è per quest’unica ragione che i passerotti hanno smesso di cantare in vostro onore; e i fiori
del maggio non hanno più tinte inebrianti.
***

Lo spirito critico di Leo, in sui vent’anni, trovava che il mondo e le istituzioni degli uomini erano
bensì andate male dal tempo della creazione sino allora, anzi molto male! ma è presumibile che in
lui fosse la convinzione profonda che per l’avvenire le cose dovessero modificarsi compiutamente:
passare, cioè, dallo stato empirico e del sentimento a quello della ragione pura e della luce
scientifica. In somma il mondo aveva avuto la delicata attenzione di aspettare a mutar la strada
vecchia per la nuova proprio finché egli, Leo, non fosse venuto all’onore della vita; e questo
fenomeno che accadeva a Leo, giovane di alta intelligenza, accade anche a molti imbecilli.
Bellissimo fenomeno anche questo di rifrazione ottica, prodotto dall’effetto dei venti anni sulla
intelligenza, e che ha in sè il beneficio di spingere l’uomo verso l’attività e verso la fede nella vita.
Giacché uno spirito attivo e credente era Leo: credente negli enunciati della scienza come già le
genti credevano nel dogma della Immacolata Concezione, nella Comunione del pane del vino, nel
simbolo degli Apostoli, ecc.
Leo non credeva più in S. Isaia, in S. Paolo, in S. Matteo, in S. Giovanni; ma credeva in Darwin, in
Carlo Marx, in Haeckel e in altri profeti minori ed apostoli della civiltà moderna. perchè, a ben
pensarci, tutta la questione sta qui: nell’avere cioè una fede e sopra tutto la fede del proprio
tempo.
Mettete questa fede in una intelligenza sveglia e in una volontà risoluta come era quella di Leo, e
avrete un giovane che, se fortuna l’assiste, si farà largo e poi finirà col camminare sulla testa dei
suoi compagni con gran dolore del dogma modernissimo dell’uguaglianza.

E come la delicata e sensibile bontà è la calamita più forte delle disgrazie o per lo meno delle
seccature: laddove la presunzione di risoluta violenza ha fra gli uomini la virtù di spazzare
gl’impacci e le difficoltà (come il maestrale spazza le nubi e rimena il buon tempo) così Leo un po’
per istinto della sua generosa natura, un po’ per esperienza della dolorosa sua giovanezza, aveva
imparato a tener difeso il meccanismo delicatissimo della Bontà sotto un certo suo buon
impermeabile di indifferenza e di risolutezza insieme, così che lagrima o pioggia, grandine o fango,
bestemmia od urto vi rimbalzavano superbamente nè arrestavano il vittorioso procedere del
bell’automobile della Vita.
E per tutto cotesto avrete la spiegazione del perchè i visi scialbi, i capelli lucidi, gli impeccabili
colletti alti degli studenti aristocratici ed esteti — i quali facevano corte d’onore a Regina — non si
voltassero nè meno quando passavano davanti agli occhi vivi ed ai calzoni corti di Leo, sulla soglia
dell’Università. Pareva indifferenza o disprezzo, ed era invece rispetto e timore!
Ma Regina, invece, salutava per tutti questi altezzosi, e ben gaiamente, dicendo:
— Buon giorno, signor Leo!
E Leo era obbligato a rispondere: ma dopo diceva ai suoi: «Stupida! non ha altro luogo per andare
a spargere il suo muschio?» Regina la giovanetta liberista e feminista, adorava le supreme
eleganze, i rari profumi e perciò stava con gli esteti e con i borghesi dal colletto alto.
E i compagni — poiché si convinsero che Leo non s’infingeva — ridevano e lo beffavano di questo
suo spregio per le donne in genere, e per Regina in ispecie.
Sì, per mettere a posto le cose del mondo bisognava redimere — emancipare — restaurare la
donna: di questo Leo era più che convinto. Se non che la fisiologia e la psicologia muliebre,
studiate da Leo assai bene sulla tavola anatomica, gli presentavano delle difficoltà di primo ordine.
Molto più facile, oh molto! nazionalizzare le terre e le macchine della borghesia parassitaria che
rifare il tipo della donna!

***

Era Regina una studentessa di lettere, altrettanto prudente e silenziosa — anche se interrogata —
durante le lezioni di greco e di filologia quanto loquace e gaia negli ambulatori dello Studio.
Il cappello di feltro e la penna d’airone dominavano sulle teste degli studenti e il suo riso era come
un raggio di sole in quella austerità grigia delle aule e dei corridoi.
Era Regina una giovane altrettanto povera quanto baldanzosa e piacente; e la penna d’airone
poteva essere il suo stemma: nessuna penna di struzzo languida e accartocciata vezzosamente la
sostituì: neve, pioggia, nevischio non l’abbatterono! Quando veniva il maggio, la penna d’airone
trasportava il nido dal largo feltro ad una graziosa maggiostrina, molto primaverile, molto eretta
sulla bella chioma. La sua penna d’airone ferì molti cuori e indusse a molte e audaci speranze. Ma
l’umile colazione che ella portava nella borsetta, testimoniava troppo eloquentemente della sua
onestà e della sua povertà e induceva al rispetto. Uno stecco di mandorle tostate, due datteri
canditi erano i soli omaggi che ella accettava dai suoi camerati, alla luce del sole e al prezzo di
cinque centesimi dal vassoio piramidale di ottone che il venditore di caramellati! ostentava sulla
porta dell’Università.

***
Un giorno vi fu una gran notizia fra gli studenti.
La Reginella ha gettato il suo fazzoletto: la Reginella s’è innamorata.
Da due mesi gli amici le andavano ripetendo:
«Signorina, Torri le fa una corte spietata.»
«Davvero?» e rideva.
«Signorina, Torri non mangia più, non ride più; è pazzamente innamorato.»
«Davvero? gli ordineremo una cura ricostituente» e rideva.
Ma un bel giorno — dico — Regina dichiarò lei stessa che, ebbene sì, lei era innamorata del Torri.
La Reginella allora licenziò la sua corte.

***

Da quel giorno la penna d’airone fece rare e rapide comparse nei corridoi: pareva mortificata.
Platone e Tucidide vennero provvisoriamente abbandonati.
Il professore di filologia classica non vide più al primo banco gli occhi di Regina, impassibilmente
stupefatti all’udire tutta la roba che egli poteva tirar fuori da una semplice e nuda radice di
sanscrito.
L’eco del suo gaio riso si spense fra i corridoi clamorosi.
***

Questo piccolo incidente di cronaca studentesca sarebbe passato del tutto inavvertito da Leo, se gli
amici non glielo avessero detto:
— Va là che ha scelto proprio bene, quel clericale in mala fede, quel famulo del Santo Uffizio,
quell’ignobile referendario della Sacrestia! Evidentemente l’amore fa delle combinazioni chimiche
non contemplate in alcun testo — si accontentò di chiosare Leo. perchè Torri, l’amante di Regina,
passava per clericale.
Del resto cotesto Torri era bel giovane, alto, molto fine, molto elegante, occhi splendidi: godeva
inoltre reputazione di gran serietà fra gli studenti di filologia. Quanto al clericale le cose dovevano
essere andate così: povero in canna anche lui, Torri, senza appoggi e invece con buone dose di
ambizione e di voglie, si era buttato con chi gli era capitato prima. Gli erano capitate prima delle
buone lezioni private in alcune famiglie dell’aristocrazia nera, e lui diventò clericale e godeva di
alcuna notorietà come critico d’arte in un giornale cattolico.
Già; o nero, o rosso, o verde, un giovane intelligente bisogna che lo scelga un partito, come una
ragazza bella è bene che si decida fra i suoi corteggiatori.

Se no, questa rischia di restar zitella, e quegli non metterà da parte altro capitale che la propria
indipendenza: capitale assolutamente infruttifero anzi passivo, non quotato presso alcuna Borsa!
Prima, dunque, si sceglie quello che capita e dopo si muta, se torna o se piace.
E proprio Leo non ci pensò più a Regina: se non che, nel corso dei mesi, gli capitò due o tre volte di
leggere nei giornali che l’esimia studentessa, Regina, avrebbe tenuto una conferenza sulla Donna
cattolica, un’altra volta Contro il divorzio o qual cosa di simile. Leo rideva: «La signorina libera
pensatrice, divenuta fervente cattolica sotto l’influsso della stella di Venere!» Proprio vero: la
fisiologia della donna non ha altro commentatore sicuro che Eros.
Se non che, dopo più tempo ancora, se la vide proprio faccia a faccia in un tavolino della sala
riservata della Biblioteca.

***

In quel tempo Leo attraversava una di quelle meravigliose crisi dopo le quali il giovane, lasciate le
spoglie antiche, appare ad un tratto uomo alle genti. Un’ebrezza di sapere gli innondava, più che il
cervello, il cuore. Egli avanzava, egli sospingeva la nave verso l’ignoto; alla scoperta del Sapere.
Esiste la voluttà di giungere al confine del Sapere, come esiste la voluttà mortale di scoprire
l’ignoto punto del polo e le terre inesplorate. Meraviglioso e benefico anelito in cui si rivela tutta la
divinità che è nell’uomo, ancorchè ciò sia cosa vana: giacché l’uomo non avanzerà se non per la via
che è, che fu, che sarà!
Leo povero, Leo solo, Leo coi calzoni corti sentiva questa ebbrezza della conquista e la gioventù del
cuore gli diceva:
«Domani la gloria, figliuolo!»
(Di fatto l’invidia, segno di alte latitudini, vento che spira soltanto lungi dalla riva, già gli sibilava
d’attorno).
Perciò egli consumava il giorno e gli occhi sui libri della Biblioteca e perciò se in tale stato d’animo
Leo appena ravvisò Regina, non deve far meraviglia.
Fu lei che chinò il capo davanti a lui, salutando.
Aveva anche lei di gran libri davanti a sè: libri che pesavano più di lei, e quelle sue belle braccia e
quelle sue perfette mani facevano gran fatica a smuoverli ed a rivoltarli! Tutto parea raccolto ed
austero in lei, ma il seno, presso quei gravi libri, palpitava d’amore.
Quando suonava la campana del fine, Regina si levava dai suoi libri, si metteva il lungo mantello
nero, si inchinava con un «buona sera» passando davanti a Leo e se ne andava per ritornare il dì
seguente. Spesso Leo, uscendo poco dopo, scopriva nei vicoli reconditi presso la Biblioteca una
coppia che si attardava sotto i fanali.
Erano il Torri e Regina.

***
Passarono frattanto due anni.
La Fortuna — questa Divinità antica e stravagante che sopravive alla morte delle altre divinità —
avea assistito Leo.
L’onorevole X***, professore di Università, uomo politico di primo ordine, uno di quei personaggi
che col trionfo dei partiti popolari era divenuto arbitro del governo e della città, aveva preso a ben
volere Leo: infine lo aveva imposto. Lui, l’onorevole, occupatissimo di politica, più di due o tre
lezioni all’anno non poteva fare: le altre le faceva Leo. Sono colpi di fortuna, o calci nel sedere,
come dice l’invido vulgo, che capitano qualche volta: se non capitano, anche con tutto l’ingegno e
lo studio di Leo si rischia di rimanere coi calzoni corti e con la cena di pane e formaggio per molto
tempo, anche battendo la corrente democratica, anche credendo nei nuovi apostoli, Carlo Marx,
Haeckel, ecc., ecc.

***

Un giorno Regina bussò all’uscio di Leo.
La sorpresa che si dipinse sul volto di Leo fu tanta che la penna d’airone non ebbe il coraggio di
venire avanti e si fermò sulla soglia.
— Già vedo bene che lei mi dà della seccatura — disse la proprietaria della penna d’airone — e può
darsi, ma lei ha parlato così bene ieri all’Università che ho detto proprio a me stessa: «Io vado da
lui! Sarà quel che sarà!»
Leo sorrise.
E Regina proseguì:
— Lei, ieri, alla sua lezione…
— Lei perde il tempo a venire alle mie lezioni? — si credette in dovere di chiedere Leo — ma
questo è un onore!
Non sapea perchè, ma a Leo, l’austero, veniva la voglia di prenderla in giro, la penna d’airone.
— Non le faccio elogi — proseguì ancora Regina — perchè non è più mia abitudine fare
complimenti agli uomini. Ma devo dire che lei parla molto bene: giuste quelle cose dette ieri! Io
che la credevo un demolitore arrabbiato, un partigiano, un giacobino feroce mi sono dovuta
ricredere: già, demolire è facile, demoliamo pure: ma si tratta anche di formare delle nuove
coscienze, e non di parata, ma di sostanza. Allora sì il nuovo edificio sociale sarà fondato sulla
pietra e non sulle mobili arene. Lei ha detto così à peu près? non è vero? Io, però, non ci credo
niente, perchè oramai io sono completamente scettica: cattolici e socialisti, monarchici e anarchici
tutti uguali, tutti fatti a sembianza d’un solo, tutti figli d’un solo egoista…, ma mi sono commossa.
Poi m’han detto che lei è tutto di casa coll’onorevole X*** e allora mi sono decisa, ed eccomi qui!

— Allora è una cosa lunga quella che lei mi vuol dire — chiese Leo.
— Un pochino!
— Allora s’accomodi: fra questi libri una sedia libera la troveremo. Il mio appartamento non ha
maggior estensione di questo studiolo, molto amico alle rondini, e di un bugigattolo per dormire.
Trovata la sedia, seduta Regina sotto la luce, Leo non dovette far grande studio per iscorgere che,
se la penna d’airone era tuttavia ben eretta, tutto il resto dovea essere passato attraverso la crisi di
qualche battaglia, tra le sirti di qualche tempesta.
Ma interrogare una donna vuol dire, per lo meno, esporsi ad una orazione ciceroniana. Leo perciò
ebbe il delicato e prudente intuito di lasciar parlare e nulla interrogare, e Regina parlò.
Si trattava di questo: in un collegio feminile era vacante il posto d’insegnante di storia: molte erano
le concorrenti, molti gli intrighi: ora che del Municipio era arbitro l’onorevole X***, domandava il
suo valido appoggio perchè il nome di lei venisse prescelto.
Esposto questo, venne la perorazione in questi termini: «Capisce che sono disoccupata e non ho
voglia di scioperare? che per vivere faccio l’assistente in una scuola privata dove una negriera di
direttrice-proprietaria mi tiene lì fissa dalla mattina alla sera, per un franco e mezzo al giorno?
L’anno scorso quando comandavano le sottane nere e le malve c’era libero un posto di
professoressa d’italiano.
Era proprio quello che ci voleva per me! Comincio a far il giro di tutti quei signori, cavalieri,
commendatori, senatori. Cascavano, poverini, dalle nuvole alla notizia che c’era un posto vacante.
Cominciavano con un «Ah, sì!… Mi pare…. Ma veda…. Ma ecco! Veramente!…» ecco un corno! Mi
guardavano come avessi avuto un marchio d’infamia sulla fronte. Quale marchio? Forse perchè ho
amato in piena luce di sole una persona — che per giunta era uno dei loro — e questa mi ha
indegnamente tradita? (Anche qui Leo si guardò bene dall’interrogare). E dire che per il loro partito
io ho abdicato persino alle mie convinzioni più solide, ho tenuto persino delle conferenze contro il
divorzio: cose da ridere, però, sa? trovarsi in mezzo a dei pii giovincelli baliosi, a fremebonde
vergini pulzelle che brandiscono la spada di Giovanna d’Arco contro il divorzio! Tutta roba dove han
diritto di interloquire solo quei poveri cristi e quelle povere diavole che hanno provato! E sa perchè
mi hanno negato quel posto? Non mica perchè io avevo avuto un amante notorio; in sacrestia loro
fanno ben altro! ma perchè sanno, indovinano che io sono un carattere fiero, indipendente, che
non mi lascio mettere i piedi sul collo da nessuno. E loro invece vogliono il mondo sotto i loro piedi.
Pigliala, adesso! E poi sa anche perchè? perchè non straluno gli occhi, non torco la bocca alle
nequizie del mondo reo, perchè porto i ricci, come se fosse mia colpa se la natura mi ha fatto i
capelli ricci, la bocca così, il piedino slanciato, le mani aristocratiche! ah! dimenticavo il più grave:
perchè porto l’abito maschilizzante! Gran delitto! un abito comodo, eccolo qui! Ma a loro il mio
abito fa venire il mal di mare. Il guaio è che io me ne sono accorta troppo tardi! pensi che anche
quando servivo la causa del legittimismo cattolico, nessuna di quelle pie dame ebbe per caso la
felice idea di farmi guadagnare quattro soldi offrendomi delle lezioni per qualcuna di quelle
spuzzette delle loro figliuole. Che! che!
Per entrare nelle grazie di certa gente bisogna presentarsi vestite a gramaglie come una vecchia;
senza ricci, la fronte rasa d’ogni baldanza, come dice Dante, il collo torto come una monaca del
Sacro Cuore, far atto di umiltà, di contrizione, di penitenza, strisciare, ungere. Capisce che io non

sono buona di far certe parti, che io ci ho la mia dignità, il mio orgoglio? Adesso, anzi, mi farò i
bandeaux à la vierge, sacrificherò la mia chioma sull’altare della loro prepotenza! Questo non sarà
mai!
«Mai» — confermò la penna d’airone ergendosi anche più fieramente sul capo.
— Del resto non stia a credere che io creda che i rossi valgano più dei neri, i gialli più dei verdi. Il
mondo, sotto ogni latitudine, sotto ogni clima storico, sarà sempre proprietà esclusiva del prete. Il
prete! Capisce lei? Ecco il vero, l’unico dominatore del mondo per omnia sæcula! Lei, caro signore,
è ancora molto giovane, molto immerso nei suoi studi e nelle sue teorie e certe cose non le può
capire. «Bisogna aver fatto l’esperienza che abbiamo fatto noi! — commentò agitandosi la penna
d’airone — per convincersi di una tale filosofia della vita!»
Leo anche qui fu cauto nel non interrogare sulla genesi di tali opinioni filosofiche molto pessimiste.
Il pessimismo nella donna proviene di solito da un amore inacidito: e il rimestare simili liquidi
esplodenti non è da savio.
Promise che ne avrebbe parlato all’onorevole X***.
— Con molto entusiasmo altrimenti è inutile — avvertì Regina.
E la penna d’airone finalmente si decise a scendere i sessanta scalini che portavano
all’appartamento di Leo.

***

La cronaca non registra se Leo parlò con entusiasmo; registra solo che Regina ebbe il posto
desiderato, e siccome «bene a chi ci fa bene e male a chi ci fa male» oramai è la massima pagana e
pratica di Regina, così ella manifestò la sua riconoscenza in maniera tale da far desiderare a Leo
che quell’ufficio non le fosse stato in alcun modo concesso.
E la prima manifestazione di riconoscenza consistette nel frequentare assiduamente tutte le lezioni
di economia politica, tenute da Leo.
Fra quel gran concorso di giovani che accorrevano ad udire la convinta e dotta parola di Leo, la
penna d’airone era la prima a comparire nel primo banco dell’aula.
Come già un tempo s’accoglievano le turbe ad udire la buona novella dei seguaci di Cristo, così
oggi, per quel misterioso fascino che ha la modernità della vita, accorrono le genti ad ascoltare chi
loro parla di rinnovata vita, di rinnovate coscienze nell’umanità nuova.
Con questa pietosa illusione il conquistato pane sembra più dolce, e, al di là del velo del pianto e
del sangue, si vede risplendere il prato fiorito dell’Asfodelo! Vecchia istoria!
Se non che Regina guardava più specialmente il volto dell’oratore. Ella inoltre era ignara del tutto di
certe teorie, di certe voci e ne chiedeva contezza, ed erano come dei supplementi di lezione che
Leo era obbligato ad impartire fuor dell’aula a questa troppo diligente scolara; e una volta, d’aprile,
Leo fu sorpreso di trovarsi sotto i tigli suburbani in compagnia di Regina. Ma i tigli furono anche più

sorpresi di Leo. I tigli odono tutte le coppie che si attardano sotto le loro ombre, ragionare di
amore.
Quella coppia invece, di Leo e di Regina, in quel vespero d’aprile parlava e dissertava di filosofia.
Leo era ottimista. Regina pessimista più che mai.
— Via, signorina, parliamoci chiaro — disse in fine Leo — per voi donne l’umanità consiste e si
compendia in un uomo solo: il mondo è buono o il mondo è cattivo secondo che l’uomo con cui
avete avuto a che fare vi ha trattato bene o vi ha trattato male. Questo modo di giudicare è troppo
soggettivo: facciamo una cosa più semplice: parliamo in tal caso di voi. Il vostro amante vi ha
lasciata? Il vostro ex amante ha preso moglie? e vi pare che tutta l’umanità si debba risentire di un
fatto che riguarda voi sola? Io posso essere dolente per voi, cara signorina, ma noi siamo immuni
da ogni colpa nella vostra questione personale.
— Ed è tutto qui lo sbaglio, caro signore, — disse Regina — sa lei quale è la vera questione sociale?
La donna! Un uomo mi ruba il capitale della vita: un uomo, freddamente, un bel giorno viene e vi
fa questo discorso chiaro, come mi fece il Torri: «Tu mi ami, è vero? Ebbene, io ho bisogno di un
sacrificio dal tuo amore. Io voglio far carriera nella vita. Se io sposo te, ecco quale è il nostro
avvenire: un posto di ginnasio inferiore in Sicilia od in Calabria per me: il mestiere di lavapiatti per
te: una mezza dozzina di figliuoli da sfamare per ambedue. Ora questa prospettiva non va per me,
e credo che tu pure avresti a pentirtene in breve. Ora io voglio fare una carriera splendida e una
vita bella. Per tutto questo ci vuole una base economica.» Egli, capisce, Leo, ragiona come voi
socialisti: la base economica!
«Dunque — proseguì lui, l’infame — un giovane, anche d’ingegno, anche di buona volontà, se non
parte da una base economica di almeno cento mila lire, lavorerà nel vuoto per tutta la vita, e finirà
miserabile come ha cominciato. Ora io ho trovato, non cento, ma cento cinquanta mila lire sotto
forma di una signorina che i suoi genitori sarebbero felicissimi di darmi in isposa.» Questo in poche
parole fu il ragionamento semplice, positivo, pratico che mi tenne il Torri. Così disse e così fece:
sposò la sua signorina: un mostriciattolo dai capelli di stoppa e dalle linee rette, e mi piantò come
una bella carota. Ebbene, quest’uomo seguita ad essere un galantuomo, un gentiluomo: finirà
onorato, stimato, accademico, cavaliere, commendatore. E io cosa sono? Una ragazza vilipesa ed
indicata a dito! Ora, finchè simili infamie sono permesse nel mondo, il mondo sarà sempre in
rivoluzione. Vi sono tribunali per questi delitti? No! Che cosa rimane da fare ad una povera
giovane? Darsi alla mala vita? Uccidere il traditore? Veda — questo voi altri nella vostra sconfinata
presunzione maschile non la capite — per fare una di queste due cose bisogna averci l’istinto.
Gli occhi di Regina così parlando balenarono di pianto: e in omaggio all’antico assioma che l’ira
muliebre domanda sempre una vittima, prese il guanto e se lo strappò.
Leo, il parsimonioso, Leo, lo spirito esatto, si chinò e raccolse il guanto.
— Quando sarò deputato, signorina, giuro che sosterrò la legge americana sulle promesse di
matrimonio non mantenute. Contenta così? Intanto prenda il suo guanto.
— Scherzi pure, caro signore, che ne val la pena! E non le ho detto ancor tutto. Deve sapere che io
per amore di lui non ho potuto prendere la laurea, e adesso che son giù di studi, ho paura di non
poterla prendere più, e tutto questo perchè? perchè in vece di studiare per me, mi sono messa a
lavorare per lui.

— Ma se io per quasi un anno la vedevo così assidua alla Biblioteca a studiare! — disse Leo.
— Bravo! appunto quello! Sa, è vero, come fanno adesso i professori giovani a far carriera? Fanno
certi lavori che un tempo li eseguivano i vecchi eruditi, quando avevano perso il vigore e non erano
più buoni da niente e non sapevano come impiegare gli ultimi anni. Si pigliano dei codici, delle
stampe rare e si comincia a fare uno spoglio di citazioni, di varianti, di virgole. Con tutto questo
materiale si compone un volume che pare il catalogo di un farmacista; questi sono i lavori di
carattere scientifico coi quali si fa carriera. Oppure si trova che Dante ha usato la parola camicia.
Ebbene, si fa la storia della camicia del tempo in cui Adamo ed Eva adoperarono per tale uso la
foglia di fico sino alle camicie di batista tagliate sulla linea del corpo come si costuma adesso: e
questo si chiama spiegar Dante. Ma per fare un lavoro simile bisogna sfogliare una Biblioteca.
Se non che quel galantuomo di Torri non aveva nè voglia nè tempo di star lì ad ammattire sui libri e
mi faceva lavorare per lui. L’eterno sfruttamento della povera donna!
«Quando però è innamorata, se no…» — sorrise pensando Leo nel suo vivo core.
— Ogni sbaglio che fai — mi diceva — un giorno di più di ritardo nelle nozze.
Si figuri come lavoravo!
— Aveva dunque promesso di sposarla?
— Certamente: anticipò anzi qualche schiaffo.
E Regina scagliò lungi da sè anche l’altro guanto!
***

E se Regina aveva fatto queste confidenze a Leo, cosa più sorprendente fu quando Leo s’accorse
d’aver confidato se stesso a Regina: la storia della sua adolescenza: un segreto semplice e doloroso
sepolto nel suo cuore. perchè lo aveva svelato a lei?
perchè lei gli aveva chiesto:
— E perchè questo odio?
Ed egli le aveva detto perchè odiava.
Ciò era avvenuto dopo una lezione di Leo.
Nell’aula era passato un impeto d’uragano. Fuori delle gran finestre gravi nubi immote, cariche di
elettricità, toglievano il giorno: l’uragano della materia: dentro l’aula l’uragano del suo spirito.
L’aula era stipata di uditori. Il bidello aveva acceso due candele sulla cattedra. Come si accese, si
agitò di tempesta la scientifica parola di Leo? Si accese nel modo stesso che la nube nera e immota
vien squarciata dalla folgore. Aveva obliato la definizione e la statistica: aveva parlato folgorando
del diritto sacro alla vita, del dolore e del patimento umano che dura da secoli e si rinnova sempre:

dell’ingiustizia e della frode che bisogna svellere in nome di una giustizia nuova ed audace. «E chi ci
si oppone sia schiacciato!» Sprigionavano scintille d’odio dalle sue parole.
Quando la folla si dileguò, Leo taceva.
Col capo chino, pareva sorpreso egli stesso della sua violenza e parea domandarsi:
«perchè mi sono lasciato vincere? perchè ho parlato così?»
E fu allora sotto i portici solitari, mentre le nubi nere trascinavano via il giorno e la pioggia, che
Regina, toccandogli la mano ardente, gli chiese:
— Ma perchè questo odio? lei cui la fortuna assiste e l’avvenire sorride?
Era, vero: esistevano dei giacimenti di odio nell’anima sua, generata da uomo e da donna. Poteva
essere l’effetto dei calzoni corti e delle invariabili colazioni di pane e salame che rimontavano
nauseabonde alla gola. Sì! Giacché si ha un bel gridare: «Viva la sobrietà!» ma in fine secca vedere
della gente che mangia tartufi e fagiani sotto i vostri occhi, impudentemente! Poteva essere il
ricordo della sua avvilita e dolorosa adolescenza in otto anni di collegio. Anzi, era! Ma sopra tutto
era l’orgogliaccio soffocato, l’ambizione spasmodica, erano tutte le idre che fanno nido nell’animo
dei nati dall’uomo e secernono e laborano il rodente veleno dell’odio. Ciò che Cristo non volle! Se
Leo fosse stato uno dei tanti rimasti schiacciati nell’attrito della vita, idra e veleno sarebbero periti
insieme. La miseria cronica è il più terribile degli anestetici! Ma oramai Leo avea cominciato a
salire: il maledetto salame cotto — ricovero di ogni rifiuto organico — era serbato ad altri: ora lui
era nutrito, vestito. La gente ascoltava la sua parola e perciò le idre non spente dal gelo, ma
animate dal sole, sibilavano. Ciò che Cristo non volle!
Che rispondere alla donna che aveva indovinato?
La parola già animata e turbata di Leo discese allora, quasi con voluttà, a parlare di sè. Poteva
essere una giustificazione ed anche una deviazione alla domanda: «perchè questo odio?»
Come la nave sbattuta dalla tempesta, se può ricoverare in un porto o nella rada, fende con la
violenza impressa il nuovo tranquillo specchio delle acque; così Leo agitava le memorie della
adolescenza con il fremito e con la passione di allora, ed ella ascoltava la parola dell’uomo come se
la trama della vita di lui s’intrecciasse con i fili della sua vita.
Disse Leo:
— Voi, cara, che vi meravigliate della mia audacia, sappiate che io, a undici anni, ero non timido,
ma timidissimo. Pensate: io, figlio di un modestissimo possidentuccio di campagna, trovarmi fra
camerati di cui uno era marchesino, l’altro contino, l’altro ricco bastardo, l’altro figlio di un
generale, di un capo divisione, di un banchiere, di un ex ministro, di un milionario e via via! Avevo
vinto un posto gratuito in uno dei più reputati collegi nazionali del Regno: di quei collegi che hanno
in proposito l’educazione morale, intellettuale ecc. congiunta coi buoni abiti corporali. Questa era
l’etichetta che ho ancora in memoria.
La borghesia e la plutocrazia vogliono fare sfoggio di una umanità che non hanno, e sono punite
alimentando i loro futuri becchini. Sport imprudente! Questa almeno è la storia mia e della borsa

di studio, regalata a me, figlio di un umile lavoratore. Quando entrai in collegio, il nome che mi fu
dato subito dai compagni e che portai sino al liceo, e anche dopo, fu quello di Corame: nome
indegno e sudicio a cui non mi rassegnai mai! E tanto più ne soffrivo in quanto non potevo
vendicarmi. Se ne potrebbe ricavare una buona massima di morale pratica: «non offendete mai
gratuitamente!»
perchè questo sudicio nome? Ecco:
I miei aristocratici compagni avevano quasi tutti delle bellissime mamme. Inutile dire a voi, che
siete donna, quanto la perfetta e ricca eleganza aiuti a formare il supremo bene per una
abbondante metà del genere umano: cioè la bellezza: la quale, in fondo, è una forma di imperio!
Ne convenite? Queste mammine nelle ore della visita avevano delle frenesie, degli accessi di
amore pei loro figliuoli, forse per compenso dell’oblio in cui li lasciavano per tutta la settimana.
E nel parlatorio, dopo quell’ora mondana, rimaneva un profumo di essenze e di muschio, insieme
all’odor del cioccolatte, della vaniglia e delle paste sfogliate di cui, insieme ai baci, rimpinzavano i
loro figliuoli, scialbi, slavati, dalla fisonomia viziosa e stupida di tanti S. Luigi che prendono la
comunione.
In quelle ore di visita, io, che non avevo nessuno che mi venisse a trovare, rimanevo in camerata
con altri due o tre disgraziati senza famiglia.
Una volta chiamano anche me in parlatorio.
Figurarsi che festa: metto la tunica nuova, mi lucido le scarpe e scendo giù.
C’erano in un canto mio babbo e mia mamma che mi venivano a fare una sorpresa.
Ma cessata la confusione del primo incontro e del primo abbraccio, mi avvidi che le parole di quella
folla signorile erano sospese e gli occhi malignamente rivolti su di noi tre.
Intuii, tacqui, mi irrigidii.
Mia madre e mio padre, invece, erano così felici che attorno a loro non c’era nessuno.
Mia madre parlava ben forte e dava tutte le notizie di casa: mi avrebbe voluto portare una
ricottina, di quelle che mi piacevano tanto, ma siccome i regolamenti proibivano di portar roba
mangereccia, non aveva voluto trasgredire alla legge. Mio padre, avendogli io scritto che soffrivo di
geloni ai piedi, liberò da un grosso involto e mi fece ammirare un superbo paio di scarpettine da
inverno.
Quando risalimmo in camerata — gli altri a gruppi rumorosi e con gli scroscianti cartocci dei dolci
— io, solo, tenendo in mano quelle povere fatali scarpe, il mio sopranome era già formato.
Mia madre venne chiamata la ricottara, mio padre Crispinus ed io Corame.
La scoperta di questi tre nomi li divertì moltissimo per vari giorni: ma io versai molte lagrime
segrete che nessuno asciugò e perciò esse, seccandosi, hanno formato quella durezza che si
chiama odio. Per molte notti pensai: io rividi il campo del grano nel sole, il pergolato, l’orto ricco di

maggiorana dove lavorava mio padre: rividi la fonte dell’acqua viva, la siepe di spino bianco dove
mia madre stendeva i lini ad asciugare, cantando, e mi domandai: «perchè mi strapparono
dall’amorosa terra? perchè tutti questi libri?» Ma il mio raccomandatario, umilissimo uomo anche
lui, mi assicurò in segreto, come fosse un mistero, che da quei libri bene ismossi, come già i figli del
vignaiuolo nella favola ellenica, avrei trovato il tesoro. Tesoro non so, ma vendetta, certo! E
inghiottii le lagrime e stetti attento sui libri. E allora cominciò la persecuzione terribile e stolta:
«Sporca il libro a Corame! Butta la palla, intinta di inchiostro, sugli abiti di Corame, così suo padre
da Crispinus diventerà anche Sutor e gli porterà un abito nuovo nel giorno di visita.» A me delle
macchie e dei castighi importava poco oramai: era l’idea che mio padre doveva lavorare di più per
farmi i calzoni o la giubba nuova, quella che mi faceva fremere in segreto; sempre in segreto e
mandare giù, e studiare, giacchè Corame studiava e vinceva con la rassegnazione e con la pazienza
— armi terribili — quella crudele protervia. Le vendette lasciarono il posto alle imposizioni, alle
prestazioni servili: «Corame, dammi il lavoro di latino, dammi da copiare il problema» e così via, e
Corame ubbidiva.
Le sole varianti in questa vita uguale di otto anni erano le uscite col detto raccomandatario. Buon
diavolo di maestro, carico di figliolini piccini e di compiti da correggere, che era una pietà.
Lui passava il mese d’agosto in campagna dai miei, e per compenso mi veniva a prendere nei giorni
dell’uscita, Pasqua, Natale, Statuto, ecc. Il buon uomo, per pagare il debito di ospitalità, si credeva
in obbligo di riversarmi a dosso un supplemento di buoni precetti morali e pedagogici. In verità io
non ne aveva bisogno ma egli affermava che melius est abundare quam deficere.
Insisteva poi con specialissime cure nell’estirpare un mio grave vizio, quello di essere republicano.
Già, in collegio io acquistai il titolo di republicano. perchè? Non lo so, nè mi ricordo di averlo mai
detto, nè di averlo pensato, ma i miei compagni lo ripetevano sempre e con tanta convinzione che
mi persuasi che proprio io dovevo essere tale veramente.
Dimostrava il mio ottimo raccomandatario che non è lecito ad un giovane per bene essere
republicano. «Republicano al tempo di Catone, di Cicerone, di Muzio Scevola, di Collatino e di
Bruto va bene: ma dopo, no! il nome stesso republica si presta bensì all’esercizio di una
declinazione composta: nominativo res publica e genitivo rei publicæ, come ius iurandum, genitivo
iuris iurandi. Ma questo è il solo vantaggio che noi possiamo ricavare dalla parola republica.»
Giacché il povero uomo scivolava per effetto della lunga abitudine sempre nelle declinazioni.
Però era il solo che fosse sincero e mi volesse un po’ di bene.
Egli, in quelle solennità, mi veniva a prendere verso mezzogiorno, dopo colazione, quando già tutti
i compagni erano usciti.
— Bondì, putèlo! oggi è un giorno che ci divertiremo — dicea — La colazione l’hai già fatta? Sì?
Tanto meglio; così avrai più appetito per il pranzo. Intanto andiamo a comperare un bel dolce!
In quell’età, verso i quindici anni, io amoreggiavo letteralmente con certi speciali dolci, come è a
dire i canditi, i fondants, le creme, le cioccolate, quei dolci siropposi che gemono icore e colore da
tutti le parti. Ci lasciavo gli occhi nelle passeggiate! Ma il mio raccomandatario si accontentava di
comperare una di quelle squallide ciambelle come se ne mangiavano anche in collegio.

Giunti a casa, doveva giocare e far divertire i suoi molti figliuoli: dalle tre alle cinque su e giù in
piazza alla musica, dove mi vergognava a fianco del soprabito ritinto del raccomandatario, che era
appunto il più umile e spregiato professore del ginnasio.
Alle cinque, pranzo col lesso di pollo, un piatto d’arrosto, dolci e bottiglia di vino moscato, la cui
stappatura era una cerimonia: tutto ciò con la raccomandazione di bere e mangiare molto «perchè
di questa roba tu non ne mangerai in collegio di certo.»
Alle sette, a spasso con tutta la famiglia. Io avanti a dar la mano ai piccini, dietro i coniugi, infine la
nonna e la fantesca che in quelle occasioni solenni otteneva di lavare i piatti al mattino. Io arrossivo
e fremevo di trovarmi in quella processione!
D’inverno, si andava a mangiare la panna montata con le cialde, d’estate a sorbire il gelato.
Alle otto precise, ritorno in collegio.
Giunto alla presenza del rettore, venivo riconsegnato regolarmente.
In quelle occasioni il rettore si ricordava che anch’io ero uno dei cento venti infelici, soggetti alla
sua giurisdizione.
Levava il dito all’altezza della fronte, corrugava le ciglia e mi scatenava senza motivo un’esortazione
morale preceduta da un «Macte animo! Principiis obsta! Cursus in fine velocior! Obœdite
prepositis vestris! Seggendo in piume in fama non si vien nè sotto coltre ecc.! Itala gente, se virtù
suo scudo su voi non stende libertà vi nuoce!»
Il raccomandatario con la zucca pelata e scoperta, chiosava sorridendo e sorbendo il dolce e la
saggezza di quelle parole che evidentemente formavano parte degli annessi e connessi all’ufficio di
rettorato, per rendersi meritevole del ventisette del mese.
Per mio conto, senza giungere allora tanto in là, sentivo un odio implacabile quanto ingiusto contro
Ovidio, Orazio, il Petrarca, contro tutti questi poeti e filosofi, divenuti carabinieri ed aguzzini al
servizio del rettore. Il quale con uno schiaffetto episcopale mi accomiatava.
«Attento alle cose dette!» ammoniva il raccomandatario con segreta significazione, e si riferiva alla
Republica, genitivo rei publicæ.
Con le dame che venivano poi in ritardo il Principiis obsta, e il Macte animo! erano detti con un
tuono tale che tutta la colpa era di Ovidio e di Orazio: gli inchini erano inoltre così profondi, le
parole di indulgenza così convinte che non si avvedeva degli enormi contrabbandi di caramelle,
cioccolatte, pasticci d’ogni maniera.
Si sentiva sino ad ora tarda in dormitorio sgretolare dolci, e ogni tanto a me: «Ehi, Corame, ti sei
divertito? era buona la panna? Con un franco ne danno da riempire un pitale. E il pranzo era buono
in casa di Gattina arrabbiata! Per un republicano di Sparta basta la broda nera.»
Gattina arrabbiata era il sopranome del raccomandatario.

E, a proposito di dolci, mi ricordo che una volta mio padre me ne comperò una scatola, seguendo
le mie precise ordinazioni. Il contrabbando fu eseguito felicemente: chiuso nella mia stanzetta,
dopo essermi bene assicurato che nessuno mi vedesse, alzai devotamente i quattro veli di carta
ricamata che coprivano la scatola. Un tesoro! I marroni canditi gemevano il loro rosolio sugli
ananassi e su certe meravigliose prugne verdi, grinzose, dense. I fondants, dal lilla tenue al rosa
ardente, erano allineati su di un letto di cioccolatte finissima.
Povero babbo mio! mangiando quei dolci, io mi comunicavo con lui come i credenti comunicano
con Cristo quando sulle labbra loro si posa l’ostia consacrata. Lagrimavo di commozione e di gioia.
Dove nascondere il meraviglioso dono? A quale angolo confidarlo? Il tempo stringeva. La stanzetta
povera, nuda, non offriva alcun nascondiglio. Alzai il capezzale e sotto vi occultai la scatola.
Al mattino seguente in camerata, dalle sei alle otto, era tempo di studio, a lume di gas.
Ma per capir bene, bisogna che sappiate come fra quei marchesini, fra quei S. Luigi blasonati,
esistesse una vera e perfetta camorra.
Date un ambiente sociale falso e viziato, e voi avrete naturale e spontaneo il fenomeno della
camorra, nel modo stesso che se non rifate il letto e la stanza, vi si annideranno le cimici. Il
linguaggio simbolico, i segni di riconoscimento, l’astuzia e la violenza collegate insieme, il segreto,
la vendetta, l’omertà: non mancava niente! Mi stanno ancora alla mente certi fenomeni di
depravazione e di raffinatezza del vizio che se li leggessi in un libro di patologia, stenterei oggi a
crederli. I prefetti stessi subivano, che v’ho a dire? il fascino di quella corruzione: molte volte la
alimentavano essi stessi spiegando in segreto alle avide orecchie, ai viziosi sensi mal desti, le
oscenità dei sessi. Accumulate per anni questi adolescenti, questi efebi, assieme; provocate la
pubertà nella serra dell’inazione forzata; nutriteli di ipocrisia obbligatoria; impedite il sano sviluppo
organico con una disciplina stupida ed inumana, e il fenomeno patologico e il pervertimento
scoppierà da ogni parte come uno sfogo voluttuoso. E dire che sono cinquecento anni da che
Rabelais scrisse un suo mirabile trattato di pedagogia! Noi, i timidi, i pusilli, i lavoratori, formavamo
il campo di sfruttamento. Sempre così, dovunque: nel vasto mondo e nel minuscolo collegio!
Dunque vi dicevo che al mattino c’erano due ore di studio a luce di gaz.
E una voce allora, beffardamente nasale, disse nel silenzio:
— Ho il piacere di annunciare ai compagni che abbiamo requisita, dopo debite e diligenti ricerche,
una mastodontica scatola di dolci. Eccola!
Tutti si erano voltati: un gelo mi corse al cuore; era la mia scatola!
Mi levai, corsi per afferrarla.
— È la mia! — gridai, e molte braccia mi trattennero.
La voce seguitò imperterrita e sarcastica:

— Noi potremmo, a norma degli statuti che ci reggono, punire con la suprema pena dell’interdetto,
come insegna la storia magistra vitæ, l’audace ribelle, il prepotente soggetto, detentore e
occultatore di cose appartenenti alla proprietà comune…. Vero, signori?
— Sì, interdetto! — si alzò un coro di voci.
— Un momento, signori! Ma considerando la bontà eccezionale dei dolci e d’altronde volendo dare
saggio della nostra magnanimità, così non terremo conto della grave ingiuria: summa iniuria! Unica
pena sarà il non partecipare al dolcissimo banchetto, epulæ suavissimæ, che ora sta per
incominciare; tanto più gradito in quanto che inaspettato. Alla guardia!
«Alla guardia!» era l’ordine dato a coloro che dovevano spiare se il censore o il rettore a caso
passassero.
La scatola fu rovesciata sul biliardo, posto in mezzo alla camerata.
Un grido selvaggio di gioia accompagnò il cadere dei preziosi canditi.
— È mio, me li portò mio padre! — singhiozzai e feci per lanciarmi.
— Tacete Corame, figlio di Sutor o di Crispinus che dir si voglia! — tuonò ancora la voce — Voi non
avete diritto di parlare!
Fui preso, percosso, costretto al mio banco. Mi vennero meno le forze. Piansi.
Dopo mezz’ora i dolci erano scomparsi. Una orgia famelica! la scatola, fatta a pezzi, mi percosse
ripetutamente sulla schiena e sulla testa.
Feci rapporto al prefetto, il quale mi disse:
«Ella sa bene che dolci in collegio non se ne possono portare. Dunque il primo colpevole è proprio
lei! In secondo luogo io le osservo che se i compagni hanno fatto male a portar via i suoi dolci, lei
pure ha fatto male a volere egoisticamente tenerli tutti per sè. In fine non dimentichi che lei, qui,
ha il posto gratuito, e perciò il pane che mangia è tolto in parte dalla pensione di quelli che pagano
la retta intera!»
— Povero piccino! — fece allora Regina — come se lei fosse stata una mamma, e lui il giovanetto
pauroso d’allora: e gli prese la mano.
Leo sentì la carezza di quelle due parole, e crollò le spalle come per buttar via la commozione che
l’aveva vinto nel raccontare.

***

Nel prolisso racconto si erano dilungati in luogo solitario, sotto i tigli dove sul vespero vanno a
spasso gli innamorati.
Il vento era calato; e le chiome dei tigli riposavano nella dolcezza della notte primaverile.

E Leo fu sorpreso di trovarsi solo a quell’ora tarda con quella donna presso di lui, che gli
camminava a canto assai dolcemente, senza interrogare: con quella parola materna, soave come
un balsamo sopra una ferita, con quella mano che fasciava di morbidezza pietosa la sua rozza
mano: «Povero piccino!»
Sentiva anch’egli il turbamento e la passione del suo dolore insieme alla pietà per se stesso ora che
con la parola aveva animate le memorie delle piccole, irrevocabili cose.
Piccole sì, se la lunghezza della vita si misurasse alla stregua che il geometra usa per la materia: e
non fosse vero cioè il contrario, cioè che il giorno, il mese e l’anno hanno valore di misura se non in
quanto tu li combini con le fasi del vivere, col piacere e col dolore: vere misure della vita!
Come al mattino di estate, se ti levi quando rifulge ancora la Stella, ti sorprende il lento procedere
della luce, così è del salire degli anni della giovinezza: e la materia stessa del cervello ritiene soave,
come in tabernacolo, solamente quelle memorie: il resto è cronaca che si compone e si scompone
ogni dì!
Così Leo rivide la camerata dei compagni crudeli sotto il gaz al mattino, le sentenze del prete
Rettore, le ricottine della mamma, le scarpe del babbo, la scatola dei dolci del babbo, rivide anche
le speranze del babbo fiorite più del grappolo delle sue viti, più del grano del suo campo amoroso!
Aveva richiamate queste memorie, ed esse erano vive davanti a lui.
Or dunque perchè odiare così gli uomini se essi sono fatti così? Tutto al più sdegnarsi: ma il sole
non tramonti sopra la nostra ira, ma i fantasmi dell’odio non turbino il sonno e la notte; piuttosto
cerchiamo alcun bene.
«Alcun bene, riposto e lontano!» diceva il piccolo piede di Regina che avanzava agile e sciolto,
come a terra lontana. «E la purità delle opere buone discenda sulla vita come l’olio scende sulle
onde in procella e le acqueta» diceva la mano di Regina che stringea la sua mano al modo che i
piccoli bambini si tengono e si sorreggono quando camminano avanti.
Ad un tratto la mano di lei si staccò da lui, e l’indice si tese indicando davanti a sè: disse:
— Quello è il lumino di una bara!
Il viale dei tigli corre presso l’ospedale, da cui portano via i morti di notte, che così quivi è costume.
Il viale dei tigli era buio: in fondo un lumicino si accostava.
Quando il lumino fu da presso, apparve quello che era realmente.
Cioè una bara.
I due becchini la reggevano e avanzavano con quel loro largo e greve passo che oscilla or da una
parte ora dall’altra.
Parve venire addosso la bara: Leo si tolse il cappello, Regina si segnò, della croce di Cristo.

Nessuno avanti, nessuno dietro: il fanale era infisso sopra la bara. Il lume si allontanò.
Quando il lume si fu allontanato, Regina disse:
— Sarà un pregiudizio, signor Leo, ma così senza croce, senza nessuno, fa pena: pare che l’essere
nato, che l’essere vissuto sia stata una colpa; e gli uomini ne portino a seppellire le tracce come di
un delitto.
— Eppure otto anni or sono, così, per questo viale, qui, più tardi che quest’ora, così fu sepolto mio
padre che non ebbe colpe!
— Così senza croce? così orrendamente come di soppiatto? — chiese Regina.
— Così orrendamente! — ripetè Leo confermando — No! via via! via! via, dico! — e le mani di lui
ferocemente, villanamente avevano ributtato le mani di lei che lo avevano afferrato alle spalle, al
collo, alle guance.
Un enorme singulto aveva gonfiato il petto dell’uomo ed era scoppiato in orrido pianto.
Ella assistette al suo pianto: lì presso, immobile e la mano, levata per appressarsi a lui, non osava e
tremava dalla pietà di bagnarsi di quelle lagrime disperate dell’uomo.
Egli si vinse però con uno sforzo supremo, ma bensì fremeva e ruggiva della sua debolezza, della
viltà con cui quella confessione era venuta spontaneamente alle labbra, come un rigurgito.
Poco dopo si tranquillò: un esaurimento di forze che pareva dolcezza, subentrò a quello spasimo e
disse con voce calma:
— Vedete, è stato così: io faceva qui il primo anno di legge, quando, in questo ospedale, venne mio
padre per curarsi di un male che non perdona.
Ogni tanto usciva e mi aspettava qui di fronte all’ospedale, in un sedile, sotto questi tigli. Io non
avevo allora un’idea esatta del perchè si muore, e come si muore e perchè muore il padre e la
madre.
Non ero, dunque, molto preoccupato e seguitavo la solita vita.
Ma un giorno io lo attesi invano; non venne, e allora entrai con angoscia nell’ospedale: i medici e
gli infermieri mi dissero che sarebbe morto presto. Passò la notte dell’agonia, eterna come una vita
di dolore: io era presso il letto, la sua mano era sulla mia: i suoi occhi su me: egli si spegneva, io
cadevo esausto ai piè del letto, come sotto un letargo potente: mi scuoteva ogni tanto un lume, poi
un infermiere, poi un medico, poi un prete e molta luce, poi un gran silenzio finchè la mano di mio
padre si staccò dalla mia. Allora mi portarono via di lì.
Fuori era levato il giorno.
Io ero solo e ho dovuto provvedere a tutto.

Venne in cerca di me un mercante di bare che mi condusse nel suo deposito, dove aveva molti suoi
soprabiti dei morti, ed io volli comperare la più bella, la più forte bara.
Io ho voluto provare la misura e mi sono disteso dentro, e lui mi diceva: «Oh, ci sta benissimo!»
Allora io compii l’atto macabro con una grande indifferenza: ma da allora qualcosa di quel
soprabito dei morti rimase attaccato a me.
Dopo io andai ad un convento di frati e dissi che mio padre era morto e che aveva desiderato una
croce e un frate. Io pregavo uno di loro di trovarsi con la croce la sera seguente davanti alla cella
mortuaria dell’ospedale. Mi pare che rispondessero di sì ed io quando fu sera aspettai: ma non
venne nessuno. I becchini avevano fretta.
I frati, dicendo che io ero studente, forse sospettarono una burla. Avrei dovuto lasciare del danaro
per caparra. Ma non sapevo che per l’ufficio funebre di una croce ci volesse del denaro: comunque
sia, il fatto è che non vennero. Parliamo d’altro. Ora basta!
Nel ritorno parlarono d’altro e Regina chiese timidamente:
— Nessuna speranza di rivederli di là i nostri cari, quando che sia?
— Nessuna! oramai è deciso!
— Allora tutto qui? Tutto quello che c’è di bene e di male, tutto qui? Ma sa che è poco, signor Leo?
Anche tutta la nuova vita che lei disegna dalla cattedra, sa che è poco?
— Mah! Quello che è. La morte è necessaria alla vita: questo è quanto noi sappiamo di certo.

***

Poco dopo si erano lasciati.
Quella notte il sonno non scese sulle palpebre di Leo: un malessere come di febbre, un senso di
isolamento nel mondo lo tenne desto e agitato sul letto. Come lunga la sua breve vita!
Il giorno venne, ed egli volle riprendere le sue occupazioni serene, ma non gli riusciva: il mondo in
una gran tristezza, in una stanchezza di morte, si allontanava da lui.
Lo stesso come otto anni fa, dopo la morte del padre, quando gli pareva che la gente attendendo
alle opere della vita, fugisse, esulasse da lui! Volle vincersi e non ci riuscì. Aperse i libri della scienza
e della esperienza, ma i periodi gli si disfacevano, come cosa ridicola e vana, nella mente. Manca il
cemento dell’amore ai libri della esperienza e della scienza, e però talora essi franano. Vero è che a
certe verità è cosa prudente non accostarsi con il pensiero, e molto meno con la parola concreta!
Ma quando venne la sera seguente e Leo rincasò e sollevò le coperte del letto per coricarsi fu
sorpreso nel trovarvi una cosa inaspettata e strana.

***

Era un grosso involto finamente legato: sciolse i nodi di raso e ne venne fuori una magnifica scatola
di dolci.
Sollevò i quattro veli di carta e vide dei magnifici canditi che posavano su di un letto di cioccolatte:
delle enormi prugne che gemevano il loro rosolio sugli ananassi. I fondants, dal tenue lilla e del
profumo di vaniglia, si allineavano in fila alternata coi più rari confetti.
E mentre fissava, vide che c’era una lettera, con un carattere che gli era nuovo, e diceva:
«Regina manda questi confetti a Leo. Il male che gli uomini fanno, gli uomini possono riparare in
qualche misura.»
E Leo contemplò a lungo quei dolci senza toccarli. E gliene veniva una sensazione nuova e pietosa.
Se il mondo pareva allontanarsi da lui, la donna veniva a lui e bastava per tutto il mondo.
Una mano carezzevole si accostava senza ripugnanza e senza paura alla piaga del suo dolore, ed
era la mano di Regina timidamente levata nel desiderio di bagnarsi del pianto di lui!
Ne sentiva pietà, confusione e gran dolcezza insieme.
«Domattina la rivedrò!» pensò con piacere come avesse pensato: «Domattina rivedrò il padre
mio!»
Manifestamente esisteva una comunione di spiriti tra quella viva e quel caro morto: una voce era
partita dalla bara e aveva parlato a lei, e quella soavità senza nome che gli distillava nell’animo
ebbe virtù di calmare il pensiero e chiudere gli occhi nella dolcezza santa del sonno.
Era ben tardi: la candela, sibilando, si distruggeva nello spegnersi.

***

Rideva l’alba al mattino; le lagrime della notte splendevano come le gocce della rugiada che la
rosea aurora rinfranse.
Le rondini squillavano festose sotto la gronda.
Egli si destò: sorrise dei suoi fantasmi, si placò nella sua passione: il sogno doloroso cedeva alla
realtà ed alla ragione. Tuttavia la scatola dei dolci rimaneva ed egli disse: «Povera ragazza! questo è
stato un pensiero gentile. Bisognerà andare per ringraziarla!»
E disse queste parole forte quasi per persuadersi al suono delle parole che l’animo non diceva di
più. Ma in verità, l’anima di Leo voleva dire di più.
E Leo andò in casa di Regina. Se non che quando la signora di casa gli aperse, egli si avvide che era
troppo presto per una visita, e ne ebbe pentimento e voleva ritornare. Ma gli fu risposto che a
quell’ora Regina era sempre levata.

Egli si sentiva assai turbato, assai impicciato. Le semplici parole: «Il suo pensiero è stato molto
gentile ed io vengo adesso per dirle grazie» gli parevano poche. Bisognava dire qualche altra cosa.
Anche il farsi rivedere da lei lo turbava.
Ma lo tolse dall’impaccio Regina che gli venne ella stessa in contro festosamente così come era.
— Così come sono, in un déshabillé poco adatto per ricevere dei professori di Università — e così
gaiamente lo presentò alla sua padrona di casa e gli fece strada nella sua stanzetta.
— Ha trovato buoni quei confetti? Non li ha assaggiati? Ingrato! Io, uno ne mettevo nella
cassettina, uno ne assaggiavo. Adesso perchè è uomo non è più goloso come una volta? Peccato:
un piacere di meno! Ma badi a me, non stia a girar gli occhi per la stanza. Quello che c’è di meglio
sono io, guardi me, invece di guardare la penna d’airone, quella che fa venire il mal di mare alle
persone per bene.
E Leo guardò Regina: La guardò negli occhi buoni, nella fronte serena.
— Povera ragazza! — disse in fine Leo.
— Oh sì, molto povera e poco buona! — disse ancora celiando Regina.
Ma non ne ebbe più tempo di celiare perchè le mani di lui erano state invincibilmente attratte da
quella ricca chioma scomposta e ci si erano immerse senza opposizione, facilmente sino alla nuca,
con un senso voluttuoso come di penetrare entro un’anima docile.
— Povera ragazza! — ripeteva, nè altro dicea e s’avvide che quelle due parole avevano avuto la
virtù di far tacere le vivaci espressioni di lei e di far lagrimare quelle pupille: e come la testa di lei
stringea sul suo petto, così sentì il tepore ardente delle lagrime di lei gettare alimento di nuova vita
dentro il suo cuore maschile.

***

E fu così che Leo amò Regina.

 

IL TRIONFO DI NADINA

Nella famiglia di Nadina, dopo la morte del padre, la colazione del mezzodì venne un po’ per volta
a confondersi nel caffè e latte mattutino, ma il decoro degli abiti non subì modificazioni visibili.
Il fruttivendolo dimenticò di portare il solito cestello di frutta; ma il grazioso appartamentino che
abitavano, vivo il padre, non fu sostituito con altro di minor prezzo.
Mancò il vino in cantina, ma non mancò una tazza di tè per le amiche.
Con questi umili espedienti fu conservato il decoro esteriore: la qual cosa pareva alla vedova quasi
un dovere verso la memoria di quel povero morto, così laborioso, così felice tra i suoi figliuoli, e
portato via così presto!
Ma le risorse del capitale erano pochine davvero: un rivoletto sottile e intermittente, un lucignolo
che vive perchè non muore: fosse almeno bastato finchè i figliuoli avessero avuto un posto, e
prima di tutti Nadina! Perchè molte erano le speranze in Nadina.
La mamma, volgendosi indietro — se ella pure fosse mancata — vedeva Nadina: i fratellini,
guardando avanti, prima della mamma vedevano Nadina.
— Guai se il babbo, in paradiso, sa che tu non sei stato buono, Giulio! che tu, Rina, non hai fatto il
compito, che tu, Righetto, non ti sei lavata bene la faccia! — così ammoniva Nadina: ma non c’era
bisogno di ammonimenti. Erano così buoni quei tre cari, così pietosi con quegli abitini neri! Il
babbo? Un nome, un simbolo oramai per loro, avvertito prima dall’abito nero, poi dal crespo nero
al braccio che durò assai tempo, e — talora — da una carezza della maestra che diceva:
— Poveri piccini!
Lo stomaco, tuttavia, avvertì una maggior dose di polenta e di fagiuoli in luogo della frutta e dei
dolci di una volta: ma lo stomaco quando il cuore non palpita e la pupilla non lagrima è un organo
che trova in sè facili compensazioni.
Non così Nadina: non per effetto della polenta e de’ fagiuoli, ma perchè pensando al padre l’occhio
avrebbe lagrimato spesso se non si fosse fatta forza nell’animo.

Ma la forza spesso non bastava e cadevano le lagrime silenziose.
Tutte, dunque, le speranze erano in lei, in Nadina, e speranze fondate!
Nadina parlava spedito il francese, scriveva con sicurezza e con garbo, apprendeva con facilità,
disegnava benissimo. Sapeva inoltre egregiamente tagliare e cucire, fare un rammendo, un ricamo,
e — virtù che le giovanette vanno perdendo di giorno in giorno — non disdegnava sorvegliare i
fornelli e con la cura dar sapore alle povere vivande e variarle con arte. E benchè ella avesse un
naturale talento per il bello e per lo studio, pur tuttavia un dolce istinto muliebre la conduceva
spesso in un angolo caro per raccogliersi e lavorar d’ago, poichè attorno a lei la stanzetta, da lei
rassettata, splendea.
«Brava la mia Nadina!» diceva il ritratto del povero morto.
E gli occhi di Nadina non lagrimavano perchè era forte e fiera, ma il piccolo vivo cuore, entro il
petto di palpitante alabastro, mandava un guizzo d’amore.
Nadina inoltre era bella.
Ella era allieva dell’ultima classe magistrale.
E se la signora professoressa di disegno che aveva studiato estetica e anatomia, e se la signora
professoressa di pedagogia che aveva studiato psicologia e fisiologia, e se la signora professoressa
di ginnastica che aveva studiato anche lei qualche cosa in proposito si accordavano nell’affermare
che Nadina era bella — anzi una bellezza — bisogna proprio credere che fosse tale veramente
giacchè non è facile trovare tre donne d’accordo sul valore di un’altra donna.
Testa classica su di un collo ammirevole! Amore — il buon statuario — attendeva di dare luce e
grazia a quel volto, fascino e risalto femineo a quella persona ancora di snello efebo.
Giacchè la pubertà, da poco fiorita, essendosi — come vento con vento contrario — abbattuta nel
dolore, splendeva a pena nelle grandi pupille sotto la fronte sottile.
Tutto al più la signora professoressa di italiano correggeva il giudizio delle colleghe dicendo:
— Sì, ma una bellezza fredda! glaciale! insensibile! Non lo si vede dai compiti?
Ora bisogna sapere, a giustificazione di Nadina, che quella signora professoressa di italiano era
un’ardente seguace della scuola estetica: tanto più ardente in quanto che era in ritardo; e i preziosi
anelli, gli amuleti, le pietre, gli argenti che portava al collo, alla vita, alle dita; i preziosi aggettivi, le
rare parole di cui costellava il suo dire; le supreme delicatezze, le audacie e i pudori non bastavano
più a renderla estetica. Ella, poveretta, si sforzava a veder simboli, figurazioni, reconditi sensi e
riposti colori in ogni cosa più semplice: un frutto era per lei un omaggio religioso della Terra: il
tovagliolo della mensa si trasfigurava spesso in un Altare: bere un bicchier di latte simboleggiava un
olocausto alla Purità.
Il modo di allacciare le scarpe, di modellare il taglio dell’unghia aveano un profondo significato per
questa infelice. Ed era così commossa di questa sua penetrazione sensibile nell’anima delle cose
che, se anche non sveniva, parlava sempre come persona che sta per svenire.

— Non vedete? non intendete voi tutto codesto che non appare, ragazze mie? — diceva alle
scolare. — E quelle povere ragazze si dovevano sforzare a vedere tutto codesto.
Nadina era quella che ci vedeva meno. Per Nadina un tramonto melanconico di settembre era
semplicemente un tramonto, ma per la professoressa era invece «un lento dilagare di luce
tranquilla, di colori blandi evanescenti, di fluttuanti penombre morbide, indugianti nel pigro
crepuscolo vesperale».
Ma anche senza pietre, senza simboli, senza anelli, senza aggettivazioni Nadina era estetica.
La egregia professoressa si faceva mangiare molto del suo stipendio dalla sarta e trottava tutto il
giorno e si sfiatava per la cuffiaia e pel mercante di mode. Ma non riusciva a vestire come Nadina.
— Chi è la sua sarta? la sua cuffiaia, signorina? mi dica!
— Non lo so, signora, fa la mamma!

***

Il tempo passava dolcemente per Nadina, in quel dolce salire al vertice dei venti anni, senza
impazienza, senza risvegli, senza passione.
— Che cosa ne farò, signora, di questa mia figliuola, adesso che ha il diploma? — domandò un
giorno la madre alla Direttrice della scuola, che era una savia signora — la maestrina? la commessa
di negozio? o la farò andare avanti negli studi?
— La commessa intanto no, cara signora; troppi pericoli, troppe tentazioni, e poi una vita falsa per
la donna. La maestra in campagna? Ma chi è abituata in città mal vi si adatta. Ecco, tenti i concorsi
del Comune e intanto la faccia studiare. So che ha molta disposizione per il disegno. Segua
l’inclinazione, la mandi all’Accademia: dopo potrà aspirare ad un posto più conveniente; e poi
creda, la sua signorina troverà di meglio prima ancora di avere il diploma. Così consigliò la buona
Direttrice.
Nadina esultò dalla gioia quando seppe la decisione materna. Studiar pittura! Era il suo sogno
segreto, la sua cara ambizione.
Per quattro anni visse felice all’Accademia, nella cara dimestichezza dei maestri, delle liete
compagne, dei condiscepoli sciamannati e chiassosi.
Ma l’Aspettato non venne.
Vero è che ella non lo cercò nè lo attese: gli stessi condiscepoli avevano per lei un rispetto
superiore a quello che si potesse richiedere. Quei poveri ragazzi le cui vanterie e le cui conquiste
erano di un’audacia incredibile, al passaggio di Nadina si toglievano la pipa e salutavano
abbassando l’ala dei gran cappellacci all’artista che sono una specie di anticipazione sulla futura
gloria dell’arte.

Quanto bene volevano alla loro avvenente e signorile compagna! quanta festa il giorno in cui il
professore di plastica volle modellare la bella mano di lei!
Ma chi avrebbe osato farle la corte sul serio? chi rivolgerle una parola d’amore? E ben sapevano
che ella si occupava di amore! Un libriccino, legato con antico cuoio, che ella leggeva talvolta da
sola negli ambulatori, era stato scoperto: «Le rime di Messer Francesco Petrarca»: vecchio libro di
casa, testimone di antiche gioie spirituali per qualche antenato della sua famiglia.
Ma chi di quei poveri figliuoli, spesso in litigio crudele con lo stomaco, avrebbe a quella pura a
quella sicura vergine rivolto la parola sublime? L’amavano tutti insieme. Ella dominava quella
venerazione e sentiva un’ebra lietezza nell’essere donna. Conobbe in quel tempo rinomati artisti,
ebbe dimestichezza con qualche canuto signore dell’arte e del pensiero, ma da pari a pari, perchè
l’aureola della fiammeggiante e virtuosa bellezza era corona di nobiltà non inferiore alla gloria.

***

I dolori vennero poi quando ella, già donna, dovette lasciare l’accademia e guadagnarsi la vita.
Quelle poche volte che si recò da personaggi autorevoli per commendatizie e favori ne uscì
disgustata e in rivolta.
Gli occhi avidi la percorrevano tutta, scrutandola come per cercare qualcosa che in lei fosse e non
era, come per dire: «così bella e cercate un posto da poco rame?» e non v’era offesa in queste
parole: era giusta meraviglia per il tesoro della non comune bellezza, cui Amore, il buon statuario,
già dava visibili rilievi.
Benchè vestisse con molta semplicità, tuttavia la sua persona avea bisogno di alcune rare finezze:
era inutile per lei il monile d’oro, il profumo, la penna d’oriente; non inutile il guanto squisito, non
inutili i puri lini costosi.
E quella finitezza aristocratica del vestire avea parvenza di gran dispendio e faceva dire alla gente:
«Così riccamente vestita e cercate un ufficio di poco rame?»
Ebbe tuttavia qualche scuola, qualche commissione di ritratti e di quadri e qualche guadagno ne
ritraeva, ma la sua femminilità domandava — non sapea ella come — maggior servitù e dispendio,
quasi come un nume che si imponesse entro di lei e a cui ella stessa dovea rendere omaggio.
Conveniva cioè pagare l’opera d’Amore, il gran statuario, che al suo servigio destina la bellezza
muliebre.
S’accorgeva inoltre Nadina che il sogno dell’arte che sui diciotto anni pareva facile, era invece
difficile cosa e lontana. Così la montagna pare di agevole ascesa quando è vista da lungi e, quando
vi si è per entro, atterisce e conturba.
Teste di bimbi, ritratti di donne, adorne tele, sì, il pennello di lei compiva con precisa eleganza, ma
dare anima ai fantasmi del bello, impossibile!
Nadina lo sentiva, e il pennello cadea con tristezza dalla mano.
Il pennello dicea: «Fibra virile e di titano la mia arte strugge e pur domanda, o fanciulla!»

Dicea lo specchio: «Non te ne avvedi? L’arte e la bellezza sei tu! Due cose esser non puoi per la
contraddizione che nol concede».
Talora un languore molle la possedeva e la tenea trasognata nel suo studiolo a rammendare con
sottile arte un suo guanto, un suo indumento, a togliere una macchia dalle sue vesti.
«Povera figliuola!» diceva l’effigie del babbo.
***

— Mamma — disse un giorno Nadina — se questo ritratto lo pagheranno bene sai che faremo?
Andremo al mare, in qualche stazione modesta e di poca spesa: anche lì dipingerò, farò degli studi
dal vero. Una sposina vuole ornare il suo salotto e accolse la mia proposta di due marine. Ma più
che altri è il medico che domanda per questi ragazzi un poco d’aria e di sole. E un po’ di sole, un
po’ di viaggio anche per me dopo tanto inverno!
***

Fu così che in quell’estate la famiglia di Nadina si recò al mare.
Si recò in una spiaggia ignota non che ai manifesti ed ai Baedekers, ma finanche alla comune
geografia.
È un villaggio di pescatori in su le gran dune del mare.
Per due o tre ville signorili, vi sono cinquanta o sessanta casette o meglio capanne con tanto ordine
disposte che sembrano piovute dal cielo su quella spiaggia; di ciò solo accorte, cioè di non cadere
l’una sull’altra: nessuna in fatti sale più in alto di un piano terreno. Quando vien la state, i pescatori
intonacano quelle loro casette, le scopano, vi aggiungono un letto, una tavola, due sedie, alcuna
suppellettile. Così affittano pel luglio e per l’agosto. Essi poi dormono o nelle loro barche o in certe
capannette di brulla e di cannucce, o mandano l’asino a serenare e ne usurpano il posto. Ma se
misero è il luogo, grande è il sole, e, stillante tuttavia delle azzurre acque del mare, batte in
sull’aurora la diana alle chiuse imposte delle capanne. Piccole betùlle, civettuole e canore,
crescono liete: i tamarischi pallidi e salsi, fanno sottili siepi e qualcuno ne cresce arboreo, anzi
gigantesco per la natura dell’umile pianta.
Bellissima poi e alquanto discosta dal villaggio si eleva una gioconda selva di pini: il dolce pino
italico, la snella pianta gentile e secolare i cui fusti quasi purpurei e nudi e eccelsi sorreggono un
diadema di fronde di smeraldo.
Quei pini, cento e cento, parevano esser corsi per vedere il mare.
Sulla riva si erano arrestati.
I più audaci e i più giovinetti quasi si specchiavano nell’onda e facevano festa e richiamo ai
barchetti quando approdavano dal largo.
In quei mesi dell’estate due o tre bottegucce si riforniscono di olio, di salumi, di paste.

Persino un barbiere vi pianta la insegna e affila i rasoi. I villani del contado vi smerciano galletti,
uova, frutta, verdura, latte con grande festività di grida e di richiami.
Umile è il luogo, ma lieto e vario il costume, come quello di cenare all’aperto. Quando viene la
sera, le tavole sono imbandite davanti alle capanne: si accendono i lumi da giardino, si ricambiano,
di capanna in capanna, saluti e parole gioconde.
Nadina aveva avuto notizia di tale angolo riposto in una descrizione di un giornaletto letterario, la
quale descrizione portava questo titolo strano: «Il paradiso dei bimbi». Si informò se quella per
avventura non fosse stata un’invenzione di poeta. No! era cosa vera! Trovò il nome su di una carta
geografica, e un orario di ferrovia indicò come vi si potesse arrivare.
Propose il luogo alla mamma, e vi trasportarono in sul finire del luglio i Penati sotto forma di
numerose valigie.
L’economia del luogo avrebbe compensato la spesa del lungo viaggio.
Nadina prese in affitto una capannetta come tutte le altre: muri imbiancati di fresco, la porta che
quando è aperta fa da finestra, tre camerette e la cucina. Un pergolato di campanelle, arrampicanti
sulle cannucce intrecciate a losanghe, ride davanti la porta e veste quella umiltà.
Come risero di gioia in quel giorno dell’arrivo i fratelli di Nadina quando seppero che quel sole,
quel mare, quella spiaggia era loro proprietà: la proprietà del buon Dio! come si sbandarono per le
dune del mare a bere il sole!
— Ma il cappello, Giulio, ma tu, Rina, l’ombrellino — aveva detto Nadina in sull’uscio e in gran
faccende per mettere a sesto la dimora.
— Lasci andare, signorina, il sole presso il mare non nuoce.
Un uomo che passava aveva detto così, assai dolcemente.
— Ma un’insolazione, signore, è presto presa. Qui non c’è medico, non c’è farmacia, siamo donne
sole….
— Il sole vicino al mare — replicò l’uomo — è buono, buono come questa spiaggia: non tema, li
lasci correre liberamente.
E l’uomo si era allontanato togliendosi nel salutare un suo gran cappello di paglia bianca.
Quell’uomo in ogni altro luogo fuorchè in quella spiaggia dove i bimbi e anche le giovanette
andavano scalze, molti giravano in semplice accappatoio, le signore avevano abolito l’uso dei
cappelli — sarebbe parso assai strano.
Sandali francescani ai piedi nudi, un abito di rigatino, più che semplice, negletto, bel profilo
signorile e dolce, dolce sguardo, alta e forte persona, barba bionda, virile, fiorente in pieno
meriggio della vita.

Quell’alta figura si allontanò lungo le dune lentamente.
Anche i pennelli e la tavolozza di Nadina furono lietissimi: le barche, le vele latine, i pini snelli
coronati di verde, i grandi sciami dei bimbi, alcuni de’ quali stupendi, formavano la messe di colore
e di linee che Nadina avrebbe raccolta.
Con tele adorne, con arazzi e altre fantasie, Nadina ricoprì la nudità delle pareti e indulgendo al
costume della spiaggia, anche lei alla sera imbandiva la mensa sotto le campanelle all’aperto con la
lampada da giardino, contro cui le falene venivano in gran folla dolcemente a morire.
Spesso in su le prime sere notò fra le molte ombre che passavano, un’ombra che si arrestava e le
parve quella dell’uomo dal gran cappello di paglia bianca. Osava a pena fermarsi da lontano, e
scompariva.

***

Ma oltre alla casetta, bisognava pensare al capanno di paglia in sulla riva del mare per fare il
bagno, e Nadina, nuova ancora a quella vita, stava contrattando con alcuni pescatori per farne
erigere uno, quando una cameriera elegantissima, in cuffietta bianca e niente scalza benchè
sull’arena, le si accostò e disse: — La mia signora mi manda a dire che se lei vuole approfittare della
sua capanna, faccia pure! —
Nadina ringraziò, guardò a torno e osservò, meglio che prima non avesse osservato, non lungi da
sè sulla spiaggia un piccolo attendamento signorile.
Da una gran sedia di vimini con frange e cupolino veniva fuori un volto e una capigliatura color
carota, e su quel volto si disegnava un sorriso benigno con gli angoli delle labbra in su: e il sorriso e
una mano che sporgeva, dicevano: «Siamo noi che offriamo!»
Presso alla sedia era piantato un tavolino con giornali, sigarette, cestello con ricamo: il tutto al
riparo di un ombrello enorme multicolore, fissato sulla spiaggia. Sedia, tavolo, ombrello riparati
alla lor volta da un elegantissimo camerino da bagno di fine e graziosa fattura, inverniciato a colori
vivaci.
Un compiuto attendamento alla cui guardia stava un terribile enorme cane danese.
Nadina si accostò.
Il cane danese scoperse i denti e ringhiò.
— Approfittate mio capanno, io non potere più prender bagni. Orribile gente ha sporcato il vostro
bel mare. Accomodatevi!
La fantesca pose uno sgabelletto di vimini alla nuova venuta e la signora accennò che si facesse più
presso per evitare «vostro orribile sole!».
La signora che così parlava a Nadina vestiva di bianco purissimo, tutto merletti bianchi, fuorchè il
volto e i capelli, color carota. Volto non bello ma geniale, occhi fosforescenti; età, quarant’anni,
dichiarati. Non che li dichiarasse ella: li dichiaravano essi stessi.

Ella si dichiarò per Mrs. Evelyne Taylor di Boston, vedova! e dicendo «vedova» sigillò subito col
fazzoletto le due pupille che divennero rosse — Oh, yes!
Nadina corrispose presentandosi per Nadina X*** di Torino.
— Torino c’est presque la France — sclamò esultando l’esotica dama. — Oh, finalmente trovata
persona civile in questo orribile paese. Bicchierino cognac contro l’orribile sole? Noh? Cigarette?
Noh? Allora capanno! Sentir prima vostra madre? così avete detto? ah, benissimo! Non potere
signorina come voi spogliarsi in questi capanni di paglia che vedete là, dove c’è une salété
rivoltante.
L’offerta era gentile, ma Nadina prima di accettare, volle avere alcuna informazione su questa dama
che parea eccentrica oltre al limite concesso a chi è ricco e straniero; e siccome sulla spiaggia le
conoscenze sono facili e pronte, seppe quello che poteva sapere e che si sapeva.
Era sbarcata quivi con gran treno di servitù; e locando la villa più bella e più grande. Da principio
tutto splendid, tutto buono, tutto bello; adesso tutto orribile e tutto sale. «In ciò non ha torto:
questi pescatori sono sporchi, inguaribilmente sporchi. Ma non saranno nè i saponi nè i
disinfettanti di cui l’americana faceva da prima larga distribuzione nè i sarcasmi di adesso che li
correggeranno. Bisogna supporre che il sudiciume per la povera gente che non ha sempre da
coprirsi e da ripararsi, costituisca una specie di impermeabile naturale, un isolante agli agenti
esterni altrimenti non si spiegherebbe l’affetto che hanno per quelle loro incrostazioni.
Oh, avvenivano scene graziosissime! Da principio erano sciami di monelli che le turbinavano
d’intorno domandando la elemosina.
«Niente carità, mai dare carità: prendi invece questo: non vedi che tu es sale? oh, quelle saleté!»
E distribuiva degli ottimi saponi. I monelli si allontanavano con degli sgambetti di festa, e
l’americana era felice di quell’entusiasmo per i suoi saponi, e della sua pronta cura di incivilimento
dei petits sauvages. Ma l’illusione fu di breve durata. I saponi finivano nelle botteghe e se ne faceva
incetta. Del che ella fu indignatissima. Inoltre quel continuo ripetere sale e saleté originò il
nomignolo di signora «Salina» che scandalizzò molto la dama.
Però più che tutto questo deve avere contribuito al suo malanimo un’altra ragione meno
confessabile: La signora avrebbe voluto essere qui considerata come una regina da tutti, con
omaggi, vassallaggi, ossequi, baciamani.
Ma la gente vien qui per fare i bagni e godere la propria libertà, nè d’altronde in questa provincia si
conoscono quelle raffinatezze degli usi, della moda, delle convenienze la cui violazione costituisce
per lei il supremo oltraggio. La vertu c’est la politesse! Ma questo assioma moderno qui è poco
inteso. Quindi disgusti, malintesi, maldicenze. Ora la dama ha messo le muraglie della Cina attorno
a sè con la guardia del cane danese. Piccole miserie, insomma!»
Queste le informazioni.

Esse però non erano tali da dover rifiutare l’offerta e Nadina accettò più pei fratelli che per sè. Una
saettia di legno di cedro, squisito lavoro di perfezione e di grazia, già aveva attirate le voglie de’ due
fratelli, giovinetti oramai fiorenti nella bella adolescenza.
Capanno, yole o saettia, come meglio vi talenta chiamarla, servitù, marinaio, tutto fu posto a
disposizione di Nadina e de’ suoi.
Quando poi Mrs. Evelyne seppe che Nadina dipingeva, che parlava il francese, furono grandi oh!
grandi Jesus! di ammirazione. Nadina inoltre accettava volentieri una tazza di tè «mentre questi
sauvages non bevono che dell’orribile vino».

La compostezza rigida e signorile della bellissima fanciulla piaceva molto alla ricca dama; e il
complimento più ingenuo e più ammirativo era questo: «Non parete nè meno italiana».
Non pari ammirazione aveva Nadina per la dama: pareva quasi studiosa che la relazione non
mutasse in intrinsichezza, come colei mostrava gran desiderio.
La dama straniera rappresentava per la fanciulla un’eccellente sedia di vimini all’ombra per la
mamma, la saettia per i fratelli, e perciò aveva cara la nuova conoscenza.
Nadina con occhio materno li vedeva per il meraviglioso, docile, dolce mare correre rompendo co’
remi il compatto cristallo dell’acqua. Rina la sorella, quindicenne fra poco, reggeva le due corde del
timone, e le risa della loro festività giovane, nell’ebrezza del correre per l’onda consumando la
esuberanza dei muscoli, giungeva sino a lei.
— Come sono felici, come sono giovani! — diceva Mrs. Evelyne osservandoli col suo occhiale.
«Come sono giovani!» echeggiava nel cuore di Nadina. Essi, giovani, in sui quindici anni, non più
lei, oramai.
E il seno, cui Amore, il grande artefice, avea già ben modellato, si elevava sospirando.
Breve del resto era il dimorar di Nadina sulla spiaggia e più la dilettava il tentare in sulla tela di
riprodurre un raggio di quella luce e di quel mare.
— Non viene Nadina? — domandava Mrs. Evelyne alla madre.
— Credo che lavori.
— Oh! — e questo «oh» voleva dire: «Nè meno una parola di più! Noi americani sappiamo tutta
l’importanza e il rispetto che meritano il lavoro!»
Più spesso dunque che alla spiaggia ella si stava in casa a dipingere e più spesso ancora nella
Pineta.
Alla spiaggia rimaneva la mamma la quale rispondendo sempre di «si» e accettando sempre il tè,
andava d’accordo benissimo con l’americana.
***

Fra la colonia de’ bagnanti, gente assai allegra e provinciali alla buona, Nadina godeva reputazione
di aristocrazia.
Nè ella nè alcuno de’ suoi avevano detto nè anche alla lontana che fossero nobili e ricchi, ma non
erano nemmeno in obbligo di esporre al publico le loro condizioni finanziarie più che modeste.
Onde la voce sul conto loro suonava: aristocrazia e ricchezza. L’essere provenienti da grande città,
un certo riserbo, nessuna concessione all’andar scalzi e alla buona, il saper di francese, certe
raffinatezze nella vita e negli usi avevano dato credito a queste voci.
La sola concessione che Nadina aveva fatta e ben volentieri agli usi del luogo, era stata quella di
non portare il cappello.
Cotesto riserbo, il non prendere che poca parte a gite, a balli, a feste mettevano Nadina nella
condizione di bellezza «fuori concorso» e la risparmiavano dagli strali della maldicenza e della
invidia.
Era poi singolare e commovente l’ammirazione di quell’umile popolo di marinai e di villani per
quella bellezza virtuosa e trionfale.
Quel popolo così orribilmente sale, — chi sa? — forse alcuni secoli addietro era stato cavaliere
tutto e assai latinamente gentile. Vestigia ne apparivano manifeste: il rispetto alla donna!
Oh, non per nulla quivi, presso i progenitori di quei pini, fiorì la nuova rima dolce d’amore!
Il rispetto alla donna!
Non una parola, non uno sguardo insistente da quel rozzissimo popolo! Se stretto era il sentiero, si
faceano da un lato perchè ella passasse, e quanta cortesia di umane proferte fra quella plebe
sfiorata a pena dal sillabario! Nella sua città, ben culta, oh, come diverso il costume del popolo!
Il solo complimento che ella si sentisse rivolgere fu una domenica in chiesa.
Chiesa non propriamente, chè la parrocchia è lontana, ma una piccola cappelletta ove si officia
soltanto ne’ mesi d’estate per comodo de’ forastieri.
Poche dozzine di persone essa può contenere; e la più parte del popolo ascoltano la mirabile
mistica storia della passione di Cristo sotto una tenda che già fu antica vela e conobbe la tempesta
del mare. Ora difende quel popolo dal sole. La domenica quivi si officia e la leggenda del sacrificio
mirabile cade — stilla preziosa — nel cuore degli umani.
Fra quella folla silenziosa la figura di Nadina sopravanzava. Vestita di bianco, uno zendado azzurro
le fascia la testa e le passa come un soggòlo monacale sotto il mento.
— Pare la Madonna!
Questa fu la parola, ed era stata detta da un pescatore nel momento che ella, finita la messa, si
facea largo per tornare a casa.

Ma allora un’altra voce si udì:
— Beatrice di Dante — ed ella volse l’occhio.
Era stato l’uomo dai sandali francescani.
Nadina fissò. Il complimento, retorico, le era parso uno scherno. Ma vide l’uomo chinare il volto e
arrossire vergognosamente d’essere stato sorpreso.
Nadina ne fu turbata.
Il dì seguente, mentre dipingeva nella Pineta, sentì un passo dietro di sè.
Si volse.
Era l’uomo dai sandali in attitudine rispettosa, col cappello in mano.
— Signorina — disse l’uomo arrossendo tuttavia — il luogo è male adatto per parlare ad una
donna; lo riconosco, ma il bisogno di giustificarmi è anche più forte. A me, ieri in chiesa, è venuta
fuor delle labbra una parola banale. Ma io le giuro due cose: la prima che essa non era detta con
intenzione: e mi crederà considerando che un uomo, alla mia età e come me, sarebbe da esporre
al vituperio publico se osasse rivolgere a lei un’espressione amorosa: la seconda è che io non avevo
nessuna idea o voglia che ella sentisse. Io solo sentii nascere entro di me quella parola, eppure lei
ha udito! Io ne sono mortificato dolorosamente e vorrei che ella mi perdonasse.
Nadina sorrise a quel bizzarro discorso e sorridendo, guardava l’uomo che così andava parlando. Se
un’alta fronte — largo campo alle battaglie del pensiero — non avesse parlato in favor suo, ella
avrebbe così giudicato di lui: «anima di fanciullo imprigionata in un corpo d’uomo.» E fu per
questo, cioè per la sincerità e la ingenuità che trasparivano da quel volto, che Nadina disse
schiettamente:
— Caro signore, una donna non può offendersi di una simile parola se non quando la giudicasse
irriverente o detta per beffa, il che non posso credere per rispetto a me ed a lei.

***

Di questo singolare personaggio non fu difficile a Nadina sapere vita morte e miracoli.
— Io sono un uomo relativamente felice, signorina — disse l’uomo — perchè un certo benessere
materiale mi ha dato e mi porge libertà di seguire i miei istinti di osservatore e di filosofo. La mia
vecchia ed ottima madre provvede ad ogni mia minuta ed umile cosa personale, un mio
amorosissimo fratello, minore di me, è ragioniere e uomo d’affari. Egli sorveglia l’azienda
domestica, così che io non ho da pensare a nulla per questo lato, inoltre — tranne la passione di
viaggiare che mi prende di quando in quando — io sono di così pochi bisogni com’ella può vedere
osservando la mia persona esteriore. Che cosa sarebbe stato di me se avessi dovuto lottare per il
pane quotidiano? Fremo al pensarci. Ma forse la natura avrebbe provveduto e, chi sa? con mio
beneficio. Mi avrebbe distolto dalla via per la quale mi sono messo e dalla quale non ho ricavato
alcuna soddisfazione. Proprio nessuna!

È da molti anni che io mi affatico intorno a questo antico problema, posto già nettamente da
Aristotele, rinnovato in ogni tempo e specialmente nel tempo nostro: vedere cioè per quale via si
possa assicurare all’uomo la maggior somma di felicità e di benessere, di verità e di giustizia. Ma
come il chimico non può separare alcune sostanze se non col pensiero, così io dopo avere cercato
di isolarmi, di sterilizzarmi per così dire da tutti gli errori, le tradizioni, i pregiudizi, mi sono accorto
che nel laboratorio chimico del mio pensiero non è possibile isolare nè la felicità nè la verità. Esse
vivono in quanto sono mescolate all’errore!
Sono venuto sempre a questa conclusione: due e due fanno quattro, uno meno uno forma zero: gli
uni hanno ragione, ma anche gli altri non hanno torto. Ha ragione l’anarchia, ma la legge non ha
torto. Ha ragione lo spiritualismo, come ha ragione il positivismo materialista: non hanno torto le
masse socialiste, e non hanno torto gli aristocratici del blasone e del denaro: ottima la pace, ma
necessaria la guerra. Meravigliosa l’idea di un’unica umana famiglia, e pure santa l’idea della
patria. Si progredisce con una gamba e si va indietro con l’altra.
Ho scritto anche qualche cosa in proposito, ma la critica, pur lodando i miei umani intendimenti, ha
giustamente rilevato le mie innumerevoli contraddizioni. La conseguenza quale è? Eccola: io non
ho amici in nessun partito o scuola filosofica. Nella vita sociale, intellettuale, politica sono, ahimè,
un non valore! Intanto eccomi qui, mandato per cura dal medico e dai miei, con proibizione
assoluta di leggere e di scrivere. Mia madre, facendomi la valigia, non mi ha permesso altro libro
che l’orario delle ferrovie. Cammino, anzi per maggior agio ho adottato questi sandali, faccio bagni
di sole, di mare e cammino, cammino come vuole il medico: una vita molto igenica che mi ha
migliorato d’assai. Ma che vale riposare il cervello dai libri se trovo poi da discutere col piccolo
insetto, col fiore, col cielo? L’umanità, signorina, almeno in quanto è rappresentata a me da me, è
inguaribilmente infelice!
— E la donna — domandò sorridendo Nadina — la donna, questo meraviglioso fiore delle cose
create, non è stata presa in attento esame nel suo laboratorio?
L’uomo aggrottò le ciglia.
— Mi permetta, signorina, di non rispondere a questa domanda.
— Perchè?
— Perchè la risposta non le piacerebbe.
— Le permetto ampia libertà di risposta.
— La donna — disse colui timidamente a gran fatica — io la considero esclusa dalla umanità
ancorchè sia esteriormente a noi molto conforme. Non per pazzia! L’umanità è formata dall’uomo.
La donna ne è semplicemente il lievito.
— Protesto in nome del mio sesso! Io invece ho un’altissima opinione di questo lievito e mi glorio
di appartenervi.

***

Il personaggio era grazioso e piacque a Nadina. Con esso era lecito addentrarsi nei profondi recessi
della Pineta, o andar lungo le dune del mare.
Ma l’uomo dai sandali, che si vantava fine osservatore, quando camminava insieme a Nadina era
per lo meno un osservatore distratto od ingenuo. La donna invece fiuta l’uomo con un senso di
meravigliosa finezza e precisione; e Nadina aveva senza intenzione ma per semplice istinto fiutato
l’uomo dai sandali e l’avea classificato fra la categoria dei maschi innocui, in questo senso che egli
era di quelli che rimangono atterriti davanti alla Bellezza. Vedono una vetta eccelsa, la adorano,
credono che lassù non si possa salire, che vi abitino soltanto gli Dei, e invece gli svizzeri hanno
piantato sulla montagna persino un albergo a prezzo fisso. Alpinisti ciabattoni! Un attentato
adunque da parte sua sarebbe stato impossibile, anche nel più denso della foresta. Era inoltre cosa
piacevole per Nadina vedere su quel bel volto umano riflessi tutti gli effetti che la sua feminilità
completa produceva in lui. Pura acqua tranquilla non meglio riflette gli oggetti circostanti.
La artista e la donna ne erano in pari grado confortate.
L’uomo dai sandali era inoltre fornito di coltura larga, profonda. Egli era un bello scrigno pieno di
gemme, ma serrato. Era un bel vivaio di preziose piante di sapienza e di esperienza, ma seminate in
un terreno profondamente sterile: la Bontà.
I bacilli del Male, meravigliosi agenti di fecondazione, non trovavano l’ambiente adatto al loro
sviluppo.
L’uomo, appunto per essere tale, vedeva le cose con un daltonismo morale assai curioso e talora
mescolava osservazioni profonde a vane sciocchezze, come questa:
— Lei così bella, non teme di andare sola con un uomo? non teme quel che ne può dire la gente?
Rispose Nadina:
Noi siam fatte da Dio, sua mercè, tale Che la vostra miseria non mi tange
ed oltre che per la ragione espressa da Dante, sappia che io fui sempre abituata ad una relativa
libertà fin da ragazza, e più se ne avessi voluta.
— Chissà quanti….
— «Quanti amanti» lei voleva dire. Ebbene, ecco che le è scappata di bocca un’altra sciocchezza.
L’uomo arrossì, e si scusava dicendo che non voleva dire «amanti», che non voleva usare questo
vocabolo così volgare riferendosi a lei.
— Come si confonde per poco — e Nadina sorrideva lietamente — ma dica pure «amanti», è una
parola onestissima e che molto mi piace: soltanto mi dispiace di non averne avuti.
L’uomo fece un atto di incredulità.
— Ma sa che lei dimostra ben poco spirito a non credere a quello che io dico? «Le donne sono
bugiarde» ecco, non lo dice, ma gli si legge in fronte. Bugiarde quelle che non possono essere

sincere, ma io perchè dovrei nascondere se avessi avuto uno o due amanti?… La verità vera è che
non ne ho avuti: moltissime adorazioni….
— Molte proposte di matrimonio — suggerì timidamente l’uomo.
— Di quelle poi nè meno l’ombra con mio grande dispiacere.
— Inverosimile!
— Anzi, verissimo.
— Evidentemente la grande sua bellezza, mi conceda questa espressione audace (e l’uomo
pronunciò quella parola timidamente credendo che la donna ne dovesse arrossire, ma la donna
non arrossì) ha reso timidi i suoi adoratori. E in verità chi dei mortali oserebbe sposare una Dea?
— Ed ecco detta una terza o quarta sciocchezza.
— Perchè signorina?
— Perchè contiene nella sua forma di complimento iperbolico una grave offesa. Lei viene a dire in
bel modo che io non sono una donna adatta alla vita domestica, e invece io mi sento
discretamente portata per la vita di casa. Mi piace dipingere, scrivere, leggere, ma non disdegno
brandire la mestola o far saltare la casseruola. Uomo incredulo, non c’è che il fatto che la possa
persuadere?

***

L’uomo incredulo si era costituito una specie di servitore di Nadina. Nella dimestichezza della vita
del mare, in quel facile comporsi e scomporsi delle relazioni, in quel vivere familiare di tutti, la cosa
non destava alcuna critica o maldicenza. Se non era l’uomo dai sandali, erano altri signori e giovani
e giovani donne che si accompagnavano a Nadina nelle belle passeggiate o a veleggiare sul mare,
giacchè la riserbatezza non voleva dire stranezza, e stranezza sarebbe stato il vivere troppo
diversamente dalla vita che tutti facevano. Nadina stessa era sorpresa della confidenza e della
familiarità piacevole a cui la induceva quell’uomo semplice e strano, ingenuo e sapiente. Una vena
di letizia fraterna le si apriva quando si trovava in sua compagnia.

***

— Uomo incredulo — disse un giorno Nadina (e il sole folgorava nel cielo di mezzogiorno e le
diafane campanelle del pergolato non avean la forza nè meno di segnare un’ombra sul terreno) —
uomo incredulo, si fermi qui sulla porta e mi dica che profumo ella sente.
— Un profumo di intingolo delizioso.
— Ebbene allora si avanzi ed entri! — e lo guidò nella cucinetta presso i fornelli. — Guardi
quest’umido da cui emana un così eccitante profumo.
Non strabili: sono pomidori autentici: il tutto preparato con le mie mani. È persuaso che anche le
dee sanno far da cucina?

***

Ma Mrs. Evelyne non la pensava così. Mrs. Evelyne non potè a meno di dire il suo pensiero a
Nadina.
— Io avere dovere di mettere in guardia voi, signorina, così gentile, contro un grave pericolo. Lei è
molto amica con uomo dai sandali. Io invece ho dovuto licenziarlo da mia casa.
— Perchè, signora?
— Perchè uomo scandalosissimo. Intanto è più sale di tutti. Senza calze, indecente! E poi bisogna
sapere che cosa ha fatto a Venezia, quando io era a Venezia. Io saper tutto.
— Che cosa ha fatto?
— Nientemeno che un libro su l’affranchissement de la femme, dove sostiene spudoratamente
l’amore libero: un libro da scandalizzare non solo le signorine; ma anche le signore ne sono rimaste
indignate. Un uomo, dico, scandalosissimo. — E concluse con un climax di esclamazioni esotiche
che in lei valevano ad esprimere il sommo dello sdegno o della meraviglia, secondo i casi.
Nadina sapeva per esperienza che tutti gli issimi della buona signora erano dei pleonasmi: il sole
d’Italia glieli faceva dire.
— Molto grave — disse tuttavia Nadina la quale, più che grave, trovava strano che un uomo
trattasse tanto risolutamente una materia di cui pareva così poco esperto.
— Oh, gravissimo! — confermò la signora. — Il divorzio va bene. Tutti noi dei paesi civili avere il
divorzio; l’Italia non paese civile e perciò non avere mai divorzio. Ma l’amore libero! Pfui!
— Ma come l’ha saputo lei?
— Quando era a Venise è scoppiato questo scandalo: tutto il mondo ne parlava!

***

— Ne sappiamo delle belle sul suo conto, caro signore — disse il dì stesso Nadina all’uomo dai
sandali.
Lei si è permesso di scrivere un libro così scandaloso che una fanciulla per bene non potrebbe nè
meno pronunciarne il titolo senza vergogna. Questa non me la sarei mai aspettata da un uomo
come lei.
L’uomo arrossì e disse:
— Questa viene dalla signora americana.
— Precisamente!

— Ora lei deve sapere che la signora americana ha un odio feroce contro di me; sommi questo
odio con le sue esagerazioni e capirà ciò che ci può esser di vero in tutte le infamie che avrà dette
sul conto mio.
— E perchè questo odio?
— Nient’altro che per questo perchè: nei primi tempi, prima che lei venisse, eravamo intimi, ed io
mi sono permesso di osservarle che nell’insultare Italia e Italiani si poteva avere una onesta misura:
questa per esempio: insultare di proposito, direttamente. Non domandavo molto, mi pare. Ma ella
non riesce a formare un periodo anche sulle cose più indifferenti e diverse senza innestarvi
un’ingiuria atroce, villana, satirica su questo disgraziato paese. La mia pazienza ha tollerato fin che
ha potuto, facendo finta di non udire, di non capire. Ma un giorno non ne ho potuto più e le ho
osservato che se è vero che la politesse è la più importante delle virtù, la politesse insegna ad
avere un poco di riguardo per il paese e per gli abitanti dei quali si è ospiti.
— Imaginiamoci!
— Oh, sì! credo che anche i crini della perrucca abbiano sibilato di sdegno. E che risposta: Parlò in
nome di tutti gli stranieri e di tutti i possessori dei Baedekers con su scritto Italy: «Noi ospiti? Noi
padroni che veniamo qui a dare a voi nostro danaro.» Ma non se ne è accorta anche lei, signorina,
che pur di dir male dell’Italia, ella, evangelica fanatica, si entusiasma persino del papa ce pauvre
grand vieillard, unico uomo (italiano, si intende) respectable?
Nadina sorrise.
— Già noi sorridiamo, ma talvolta l’animo si gonfia di sdegno.
— E il famoso libro? — chiese Nadina.
— Il famoso libro non è che una traduzione di un libretto francese il quale mi è piaciuto per la sua
limpidezza e sincerità, e sopratutto per il coraggio con cui tagliava netto questa bizantina questione
del matrimonio e del divorzio.
Io non so se la questione dal lato storico e giuridico e, se vuole anche, dal lato sociale sia stata
trattata a fondo e bene, ma dal lato naturale, cioè di assicurare all’uomo e alla donna la maggior
somma di felicità, era svolto così sicuramente e onestamente che tutte le considerazioni di
opportunità e di convenienza passarono in seconda linea.
Certo sono convinto che la legge ferrea del matrimonio è ai dì nostri un ben strano anacronismo
storico e sociale. Veda quale immonda fioritura di vizi, di delitti e di malsane passioni — delizia di
una letteratura pornografico-sociale — ci fiorisce d’attorno!
— Così che lei, caro signore, mettiamo il caso, pur amando una buona fanciulla, in omaggio ai suoi
principi, non domanderebbe mai la sua mano di sposa? — chiese Nadina sorridendo.
Ma non avea nè meno proferite queste parole che vide l’uomo impallidire, mettersi la mano sulla
fronte, e poi?
E poi fuggì.

***

Nei giorni seguenti l’uomo dai sandali fu più tosto riservato e contegnoso con Nadina.
— Si può sapere che cosa ha ella con me? sarei io che dovrei averla con lei che ha scritto un libro
compromettente.
— Che cosa ho? Ma scusi, ma perchè si piglia ella giuoco di me?
— Io giuoco di lei? Si spieghi.
— Non ha ella detto: «così che lei non domanderebbe mai la mano di sposa ad una fanciulla
amata?»
— Sì! e questa domanda è forse un’offesa?
— Non è un’offesa — affermò l’uomo — ma uno scherzo atroce.
— Perchè? Non crede degno ad una buona fanciulla di salire sino all’altare, la vorrebbe sposare alla
zingara come dice nel suo libro?
L’uomo fu lì lì per iscappare una seconda volta. Ma Nadina lo fermò:
— Via, si spieghi!
— Io non ho autorità, io non ho autorità — diceva l’uomo miseramente crollando il capo — io
finirò con l’impazzire sul serio: io non ho autorità presso nessuno, nè uomini nè donne: tutti si
prendono giuoco di me: io potrei accumulare tutta la sapienza di Salomone e tutta la virtù di
Socrate, e gli uomini si prenderebbero lo stesso giuoco di me. Lo scherno degli uomini lo sopporto
ma quello di una donna bella no, mi pare lo scherno di Dio.
— Ma dice sul serio? — chiese Nadina aggrottando le grandi ciglia.
— Sul serissimo.
— Allora lei deve essere veramente ammalato.
— Ammalatissimo, signorina.
— Pare anche a me, perchè io non ho nessuna intenzione di offenderla: il mio affetto fraterno…
— Ah, ecco la parola! — fremette l’uomo quasi lagrimando — Io, perchè sono un uomo onesto,
retto, morale, non ho inspirato alla donna che degli affetti fraterni: per me tutte le donne furono
caste, pudiche, virtuose. Io quando tradussi quel libro — ingenuo io e l’autore — giudicai come un
fatto universale il fatto che accadeva in me, ed ho condannato la legge del matrimonio nel nome
della felicità della donna. Ma che legge! La donna anzi vuole la legge per avere la voluttà di poterla
infrangere: la donna combatterà sempre la libertà dell’amore naturale per la medesima ragione
che combatterebbe la nudità se una legge la imponesse. La donna vuol essere vestita per il piacere

di potersi denudare. Eva ha creato la prima toilette! Tutti gli impedimenti, i riti, le paure, i
giuramenti, le ipocrisie, i veli sono i meravigliosi afrodisiaci di cui dispone la donna per sè e per il
maschio. Infrangerli, profanarli i riti, ecco la suprema voluttà! Più dolce è il pane furtivo, più soavi
le acque nascoste!
Gli occhi dell’uomo che così parlava, avevano bagliori di pazzo esaltato: ma l’occhio calmo e severo
di Nadina, posato su di lui, lo tranquillò un poco.
Erano nella pineta: il sole incendiava lo smeraldo dei gran diademi di verdura.
Nadina, poichè lo vide più calmo, gli prese dolcemente la mano e disse: — Non teniamo conto di
tutte le brutte parolacce che le sono a sua insaputa venute fuori di bocca. Mi cavi semplicemente
la curiosità, mi dica soltanto perchè lei non mi sposerebbe!
Strana cosa! A Nadina il caso generico si era mutato, così all’improvviso, in un caso personale e,
prima ancora di riflettere, aveva detto «mi sposerebbe»; appunto perchè questa idea era nel volto
e nelle parole dell’uomo. Se ne pentì; ma troppo tardi! La parola era già pronunciata.
— Sposare! — gemette l’uomo. — Ma io celebrerei tutti i riti, non solo quelli di Madre Chiesa, ma
mi adatterei a tutte le consacrazioni dell’amore stabilite dai più remoti popoli: ma ci pensi e troverà
che è un assurdo.
Le pare che un uomo di trentacinque anni, che non rappresenta nessun valore sociale e politico,
che è affetto dal tædium philosophorum possa contrarre legami di nozze con lei? Lei bellissima, lei
che ha così profondo il senso della sua feminilità da farle dire come disse, si ricorda quel giorno?
«la donna è la più bella e perfetta cosa della creazione, è la creazione stessa!» Ma per lei, in
qualsiasi modo ella si unisca, ci vuole un uomo che rappresenti uno splendido valore umano,
riconosciuto dagli altri uomini e che si riverberi poi su di lei. Io, se anche fossi ricco, non le potrei
offrire che uno stato umile, appunto perchè umile è l’anima mia. Lei dice «io ho disposizione per la
casa, io mi compiaccio delle faccende domestiche.» Sarà anche. Dio tolga che io dubiti della sua
sincerità, ma è il fatto che ella non ha ancora la percezione esatta, precisa delle sue potenze
muliebri. Imagina lei che è artista, Venere dea che prepara lo stufato in cucina, o concepisce
Aspasia ed Elena che fanno il bucatino del bimbo? Non sente l’inverosimile?
Minerva non fa la calza, Cesare non fa il copista, e lei non può, non deve nè meno essere donna di
casa, o se lo diventasse sarebbe un sacrificio così inumano da averne poi pentimento.
— Lei, caro signore — disse Nadina freddamente — è molto ammalato.
— Lo so anch’io, signorina, e ho piacere così morrò presto.
— Sì, ma lei non sa quale è la sua malattia. Glielo dirò io: Lei è ammalato di grave esaltazione
mentale: lei combina le domande e le risposte tutte da per sè e in una volta e così può sostenere
qualunque paradosso perchè è sempre lei che ha tutte le parti nella commedia. Per quel che
riguarda la mia umile persona le dirò che nelle sue parole ci può essere qualcosa di vero. Io non
sono nata per il matrimonio. Ho domandato così per dire.
***

— Sapete signorin Nadina grande novità di ier sera? — domandò il dì seguente Mrs. Evelyne.
— Io non so niente.
— Allora dirò? io: Quell’orribile uomo è partito.
— Chi? il signor X***?
— Precisamente, partito autenticamente: visto io alla stazione con le scarpe, con il colletto e con la
valigia. Partito! Nous en sommes délivrées.
***

Partito veramente!
E la lettera di commiato fu recapitata a Nadina la sera stessa: lettera assai strana. Confessava la sua
passione per lei. Diceva avere ella pieno diritto di tormentare, perchè essere questa una forma di
rara e squisita voluttà per la donna. Non poter però egli più resistere e perciò fuggire. Del resto
esser pronto ad esserle servitore e ubbidiente ad ogni suo imperio se ella lo avesse richiesto.

***
Nadina non conservò: strappò lentamente questa lettera.
E nei dì seguenti la decisione di Nadina era presa.
Molte volte, prima incerta, da poi insistente, noiosa anche, la ricca e bizzarra Mrs. Evelyne avea
fatto questa proposta a Nadina, e poi che Nadina non ci sentiva da quell’orecchio, alla madre di lei:
«Come sarei felice, mia cara, se vostra figlia volere venire con me, come dama di compagnia.» Non
le assegnava verun lavoro od ufficio che avesse sembianza di servitù «basta leggere un poco; vostra
bella voce, deliziosa.» E, o fosse sicurezza che non avrebbe accettato o lusinga per indurla al suo
volere, aveva offerto una ricompensa vistosa, superiore a tutti i guadagni fatti insino a quel dì col
pennello.
— Si viaggerebbe?
— Oh, sì, viaggiare. Quando viaggio aver bisogno dama di compagnia, molto gentile.
La signora soffriva di certi suoi terrori della morte e una dama di compagnia le era o le pareva
necessaria per allontanare questo macabro fantasma: dama di compagnia prima di tutto, poi vivaci
letture, poi cognac, tè, cigarettes in gran copia: ecco la cura!
Deplorevole! Anche offrendo i suoi cinque milioni (la signora non aveva nessuna vergogna di far
sapere che non possedeva di più; capitale irrisorio per far la gran vita nella sua patria dalle stelle
gloriose; obbligata quindi per economia a viaggiar di continuo, fermandosi a pena un paio di mesi,
Aprile e Maggio, a Parigi, l’estate in qualche stazione climatica), deplorevole, dico, che anche
offrendo tutti i cinque milioni non si possa arrestare la morte!

La signora però è convinta che un Edison americano qualsiasi arriverà a tale scoperta.
Pur troppo per lei sarà tardi!
Come Nadina parve accogliere tale idea, la dama ne fu felice, anzi entusiasta e volle in quel dì
stesso tutto stabilire e determinare chè tale prontezza è costume d’America.
Dolci terre d’Oriente e di riviera segnavano l’itinerario invernale della signora. L’artista ne era
sedotta e la sorella contenta giacchè quel guadagno assicurava gli studi al fratello maggiore.
— Vi pare una stranezza passare sei mesi e più dell’anno viaggiando? Per voi italiani forse, ma noi
stranieri facciamo dell’hôtel, del transatlantico, dello sleeping-car una specie di abitazione
normale, un home in movimento. È piacevolissimo. È un mondo che conoscerete molto volentieri.
Tutto dipende dal saper fare. I mezzi sono oggi così perfezionati che saper viaggiare è una vera
scienza.
Voi italiani, passata appena la frontiera, siete subito all’estero; noi anglo-sassoni siamo da per tutto
in casa nostra. In qualunque luogo del mondo dove sbarchiamo ci attendono i nostri costumi. È un
dovere di ospitalità alla nostra razza!
Tali erano le idee se non le parole di Mrs. Evelyne nel preparar la giovane compagna alle sue
lunghe peregrinazioni.
Questo nuovo genere di vita incominciò per Nadina in sul finire del Settembre: da prima stentò ad
abituarsi, poi ne provò soddisfazione e piacere.
***

Se invece di Nadina fosse stato l’uomo dai sandali — che soffriva del grave male dell’osservazione
cronica — a condurre quella splendida e variatissima vita, avrebbe notato come essa costituisca
una specie di privilegio meraviglioso, appena intravisto dagli immani greggi degli uomini lavoratori,
incatenati all’ufficio, all’officina, alla professione, al dovere; i quali, in parte, questa gran vita
preparano, elaborano con il mirabile complesso dell’opera singola. Privilegio non condannato in
nessun programma rivoluzionario o sociale appunto perchè figlio della civiltà, del progresso e della
scienza: vita della vita! Privilegio dove vivono liberi e con speciali leggi i nuovi Re.
I Re anonimi dell’Oro.
L’impressione che ebbe Nadina fu di respirare in un’atmosfera nuova.
Un servizio meravigliosamente organizzato attendeva in qualunque parte del mondo questi
anonimi Re. Nessun re di Corona ebbe mai tante regge e palagi, e sotto le palme e fra le lande
gelate e fra gli eccelsi monti, quanti attendevano Mrs. Evelyne e Nadina.
Navi meravigliose; alberghi splendenti come castelli incantati; eserciti muti e pronti di servi; fiori
preziosi nell’aspro inverno adornanti la mensa del treno che fugge, attendevano Nadina e Mrs.
Evelyne.

Quale enorme somma di umano e immane lavoro per rendere facile la vita a questi privilegiati Re
dell’Oro!
E come si otteneva questo privilegio? quale eroica preparazione, quale veglia d’armi conveniva
fare?
Nessuna veglia d’armi, nessun diploma o emblema: bastava fare semplicemente, come faceva Mrs.
Evelyne con molta grazia e pratica, cioè mettere in movimento il massimo degli accumulatori
umani — accumulatore non contemplato nei testi di fisica: l’oro! e siccome l’oro è pesante e
ingombrante, esibire volta a volta alcuni esilissimi foglietti di carta.
L’umanità che vive nei cupi sotterranei del lavoro e che mette in moto tutta questa splendente
macchina di piacere e di bellezza, ha qualche volta delle convulsioni di ribellione e di odio.
Ma i Re anonimi, i Re inafferrabili dell’oro ridono, come potrebbe ridere il micròbo a chi lo
inseguisse con la spada. Buttano alquanto più di oro nella bolgia sotterranea.
E l’oro, cadendo, stride e ride come olio su le fiamme.
L’umanità incatenata bestemmia, odia più e più, e lavora più che mai per dar libertà e agevolezza di
moto a questi pochi felici.
E l’oro, per fatal legge, ritorna nelle mani d’onde era partito!
Per qualche tempo a Nadina soccorse la memoria di questa umile Italia lontana, della sua stanzetta
dove il ritratto del babbo pendeva dalla parete, e le labbra di lui dicevano: «brava Nadina!»
Poi un po’ per volta queste imagini perdettero di forza e finì per trovar bello, anzi magnifico,
trionfale quel genere di vita sempre in moto, ma un moto che si compiva così dolcemente come
quello di una cuna che ninna o si muove sui tappeti silenziosi.
Avea appreso anch’ella a spregiare il minuscolo pane plebeo delle vertiginose abbaglianti mense, a
trovar logici i costumi esotici, a trovar supremamente belli i pranzi ne’ grandi alberghi, ne’ suntuosi
piroscafi tra fasci di luce, scintillar di brillanti, spalle ignude.
Oh, semplici e lieti pini dell’Italia lontana, come eravate lontani oramai dal cuore di Nadina!
Aveva finito per trovar naturale quello strano amalgama di audace e di cauto, di inverecondo e di
correttissimo che era nei costumi di quella gente eterogenea. Eterogenea ed eteroclita, eppure
uguale e alla pari.
Non dite che l’uguaglianza l’ha creata Prudhomme, che l’internazionale è figlia della mente di Carlo
Marx!
In quella gran vita che Nadina viveva, tutti erano uguali, internazionali, cosmopoliti.
Il re delle carni porcine si trovava gomito a gomito alle splendenti mense col re della Borsa e del
tappeto verde. I brillanti della gran mondana scintillavano all’unisono coi brillanti della lady
aristocraticissima.

Il fumo della sigaretta dell’avventuriero si intrecciava nella stessa sala con le spire della sigaretta
dell’erede di un trono.
La politesse, la suprema delle virtù, uguagliava e amalgamava quel mondo eteroclito.
E così pure Nadina non provava più disgusto alle letture che doveva fare a Mrs. Evelyne. Le subiva.
Letture bizzarre appartenenti ad un’arte così diversa da quella del piccolo Petrarca che aveva
portato con sè, letture di cui la strana donna meravigliosamente si compiaceva. E a Nadina
conveniva leggere!
Una sete insaziabile di godimento possedeva Mrs. Evelyne. Un bell’abito, un bel colpo d’occhio, un
bel gesto, uno scandalo del gran mondo, un avvenimento fuor del normale la eccitavano come un
liquore prezioso. I casi più miserandi della vita erano da lei riguardati con calma addirittura ieratica.
Capace di profondere oro per un capriccio puerile, incapace di spendere un centesimo per
asciugare una lagrima.
In quella febbre di sensazioni anormali trovava nei libri il massimo eccitamento. Una mostruosa
passione la commoveva sino alle lagrime: gli affetti comuni e santi la lasciavano indifferente.
«Saltate — diceva alla sua leggitrice — questi sentimentalismi europei». Ella, insomma,
apparteneva naturalmente a quel gran publico per cui esteti e psicologi si affaticano ad elaborare la
loro mostruosa arte novella.
No, Nadina non poteva essere così! E nel non essere più quello che era e nel non poter divenire ciò
che era Mrs. Evelyne consisteva il suo martirio segreto.
Ma sempre e dovunque Nadina si trovasse, e nel vestire e negli atti, faceva capire quale era la sua
condizione: ella era e voleva essere domestica, dama di compagnia, nulla più.
Ciò indispettiva la dama. — Fra noi va bene — costei dicea — ma davanti al publico fate male: voi
avete graziosissimi abiti, ma non avete toilettes. Permettete che ve ne acquisti.
Nadina rifiutò sempre questa offerta.
— Non parete nè meno giovane italiana — concludeva Mrs. Evelyne.
***
Era il tempo in cui Amore, il buon statuario, ha compito l’opera sua. Era il tempo che la donna
sente il bisogno di far sè devota e sottomessa all’imperio dell’uomo.
Se ciò non avviene cadono in breve le corolle della bellezza, chè questa è la legge del buon
statuario.
Ma vi era qualcosa per cui Nadina era invincibile e si irrigidiva.
Se una parola ardente di amore fosse in quel tempo caduta su lei, ella sentiva che si sarebbe
trovata miseramente indifesa.

Ma quella gente non amava. Tutte le sensazioni erano a loro possibili, non l’Amore!
No! Mai nessuna parola d’amore, nessuna dolce, timida, cara parola fremente, ma sempre quegli
occhi dei re dell’oro fissi invariabilmente su lei come a dire: «Vostro prezzo, miss, mademoiselle,
fräulein?» secondo i casi.
Oh, l’ossequio, la cerimonia, la politesse!
Un manto di ermellino intatto, ma quegli occhi grifagni e freddi dicevano pur sempre «Vostro
prezzo?» E ciò la irrigidiva.

***
Questa vita vertiginosa durò tutto l’inverno.
Quando venne l’aprile Mrs. Evelyne trasportò le sue tende a Parigi.
Legata come era alla dama, vi conveniva condurre la vita che a lei piaceva e conoscere quello che
ella gradiva di conoscere.
La mattina, in giro pei gran magazzini a provar vestiti e a fare acquisti: dopo colazione la solita
passeggiata ai Campi Elisi o al Bosco di Boulogne o talora alle Corse o visite a famiglie della colonia
americana: la sera al teatro e, di solito, alla Comédie Française.
Gran vita signorile insomma che colse Nadina in un periodo in cui l’anima sua era presso che
annientata, la molla della volontà, infranta.
Mrs. Evelyne invece era nel suo centro, nel colmo della sua gaiezza; Nadina vinta da una
melanconia senza nome.
— Cosa avete, amica mia? — domandava talora la dama — la vita di Parigi vi annoia? — e cercava
di distrarla quanto più poteva.
Un brivido, uno sconforto senza nome dominavano Nadina nel trovarsi al contatto di quella
enorme fiumana elegante, mentre la carrozza s’incrociava, fendeva, vi s’aggirava per entro: dentro
le fiamme di un alito caldo, che non era quello del sole!
Ed era sopratutto oggetto del suo stupore quell’immane accozzaglia di donne, splendenti di rara
bellezza, adorne de’ più strani abbigliamenti; erano le deturpazioni provocanti del trucco,
l’abbagliante scintillio di tanto oro e di tanto orpello sotto quel bel sole di maggio; era quella ridda
infernale dei colori più strani, quegli atteggiamenti provocanti e decorosi nel tempo stesso che
offendevano voluttuosamente la sua vista, sconvolgevano la sua mente, annichilivano il suo essere.
E con gli occhi incantati guardava ma non vedeva.
Chi erano quelle donne? L’Idolo. Perchè cercare o scoprire chi fossero: la virtù o la colpa? il Bene o
il Male? Era l’immane Idolo.

Cercava Nadina, con un ultimo sforzo, di frugare in fondo al suo animo per ritrovarvi qualcosa di
buono, di santo, di antico. Nulla! Tutto era svanito, come un aroma prezioso di cui si è obliato di
otturare il coperchio.
E l’obbligo di rispondere al cicaleccio della compagna! La gran dama e la gran mondana ottenevano
da Mrs. Evelyne il medesimo tributo di oh! ammirativi.
Le une e le altre formavano una cronaca di vario ma non dispari interesse: cronaca splendente al
sole, che non offendeva più.
Ma di ciò che passava nell’animo di Nadina nulla balenò o comprese, nè poteva ella comprendere.
Tutto al più osservava che era molto pallida: che gli uomini la guardavano molto: che l’avrebbero
guardata di più se avesse ceduto alle sue esortazioni di vestire qualche abito più appariscente.
In altri tempi e in altre circostanze queste parole avrebbero provocato lo sdegno di Nadina; ora non
più! La molla dello sdegno era spezzata, e poi la dama non avrebbe compreso il suo sdegno, e poi
le parole di lei erano senza intenzione, corrette, nel modo stesso che la sua vita esteriore era di una
correttezza compiuta: nulla che non fosse conforme a dama e a gran dama ella aveva notato nella
vita di Mrs. Evelyne, e l’altezza delle relazioni che costei aveva in Parigi la confermava in questo
pensiero e le acquistava prestigio. Di che dunque sdegnarsi?
Ma nei pochi momenti di raccoglimento nella sua stanza d’albergo, maggiore era il pallore, più
orribile il vuoto.
E non solamente la voce della coscienza non reagiva più, ma quella vita febbrile e pazza le parve un
po’ per volta la vera vita: necessari e belli le parvero quei riti del lusso, e con terrore pensava che
domani quelle mille futili e preziose cose sarebbero per lei state altrettanti bisogni.
Sapeva che fra poco avrebbe dovuto riprendere la vita umile, laboriosa, parsimoniosa di prima, e
non se ne sentiva più la forza.
Anzi la vita insino allora condotta, virtuosa ed attiva, le parve una vita sciupata.
Sì, vita sciupata!

***

Fu in cotale stato dell’animo che Mrs. Evelyne disse a Nadina che quella sera si sarebbe andati au
Gymnase.
Cleo de Merode, l’étoile belge, questa splendida incarnazione della bellezza muliebre, vi si
produceva per una delle ultime sere.
Il Gil Blas ne faceva una descrizione meravigliosamente estetica, piena di affascinanti particolari.
Nadina protestò debolmente. Non le pareva conveniente che due signore sole andassero ad una
rappresentazione del demi-monde, e tentò di dissuadere la signora.

Ma ella rispose con un americano e imperioso io so che, tradotto, voleva dire: io conosco
l’ambiente e non voglio osservazioni!
Quella sera Nadina attendeva su di una poltroncina, presso il bureau dell’Albergo, che madame
finisse una delle sue interminabili toilettes.
Fissava, fra i molti giornali, il Gil Blas che portava lo schizzo della donna che in quei giorni
affascinava Parigi.
Avventure di re, fiamme di brillanti turbinavano davanti agli occhi della fanciulla.
E attendendo e guardando, questi versi di un poeta italiano le si fissarono davanti:
Per quella notte don Petro a corte
Non ospitò
E il giorno dopo, cangiando sorte,
Di Spagna al trono Pachita andò.
— Voi andate questa sera au Gymnase, mademoiselle? — disse una voce dietro di lei.
— Oh, no! — rispose Nadina arrossendo, — noi andiamo questa sera, come il solito, alla Comédie
Française, almeno io credo.
— Ah! Madame mi avea assicurato il contrario.
Chi aveva interrogato così era un giovane e bellissimo signore, col quale già aveva fatto il viaggio da
Alessandria a Marsiglia. Si era legato di amicizia con Mrs. Evelyne, anzi vantavano ragioni di
reciproca conoscenza e parentele comuni.
Nessuno più discreto e perfetto gentiluomo di costui, ma di nessuno gli occhi avevano chiesto con
maggior insistenza: «Insomma, quanto volete?»
Ventura od elezione avevano fatto trovare costui nel medesimo Hôtel dove erano le due donne in
Parigi.
L’ossequio del signore era tale che non si poteva essere con lui scortese.
In quella scintillò e strascicò giù per la scalea l’abito di Mrs. Evelyne.
La carrozza era pronta.
In sul salire Nadina tentò un’ultima volta:
— Non si va proprio alla Comédie?
— Avere detto andare au Gymnase — rispose la dama e in tuono così esplicativo che voleva
significare: «io pago e voi dovete seguirmi».
— Vous verrez — diceva Mrs. Evelyne frattanto in tuono più dolce — elle est toute couverte de
pierreries. Galleria degli Uffici a Florence valere meno, oh molto!

Nadina non rispose: non avrebbe mai voluto arrivare au Gymnase, e invece il trotto dei cavalli
quella sera era più rapido che mai. Dai tigli dei boulevards vaporava un caldo profumo di
primavera.
I suoi pennelli, la sua arte! Oh, miseria delle miserie! quando avrebbe ella mai guadagnato
altrettanto, pur lavorando tutta la vita? quando un raggio di gloria avrebbe cinto la sua fronte come
quella che splendeva intorno al nome di Cleo de Merode?
Oh, miseria delle miserie!
Entrarono in un palchetto di primo ordine.
Bastò un’occhiata a Nadina per comprendere il luogo dove era piombata: Mrs. Evelyne stessa parve
a disagio e sfuggiva l’occhio della fanciulla che nettamente la interrogava: «Signora, perchè avete
voluto condurmi qui?»
Evidentemente quell’«io so» era stato pronunciato con troppa fretta; e quella platea splendente,
zeppa, magnifica di cortigiane autentiche, osservate nella libera manifestazione dell’arte propria e
in casa propria per giunta, offendevano il decoro anglo-sassone di Mrs. Evelyne: il color di carota
del suo volto assunse una tinta pavonazza: soffocava di bile.
Non di bile, ma di ultime fiamme si accese invece il volto di Nadina; e per il pudore di parer pudica
tra quella impudicizia trionfale che la serrava da ogni lato, teneva gli occhi sul programma dello
spettacolo, quando uno scoppio di applausi, spontaneo, fragoroso, unanime le fece levar la fronte.
Una prima cantatrice era apparsa, poi una seconda, poi un’altra ancora.
E allora un fatto strano si compì in Nadina.
Quell’applauso solenne, interminabile, da fare invidia alla persona più grande della terra, quel
bianco scintillare di nudità e di brillanti, il raccoglimento religioso di quella folla parvero a Nadina
come la celebrazione di un rito: anzi del grande antico rito. Quello che prima era sembrato
mancanza di rispetto a se stessa, diventò quasi omaggio reso a se stessa.
Breve la lotta tra l’ammirazione e lo sdegno: poi soggiogata, vinta, incatenata al suo posto, con un
fermento del sangue entro il corpo immobile, fissò quelle splendenti femine, quasi serafiche e
quasi beate nella impudicizia sicura. Poi più nulla, poi null’altro che un’ansia che il sipario si levasse
ancora, un’avidità angosciosa di udire, di vedere sempre di più: quando uno scroscio di nuovi
applausi la scosse.
Salutavano Cleo de Merode.
Fra lo scintillio dei brillanti di cui era coperta, quasi vestita come le imagini miracolose dei santuari,
feriva uno scintillio più forte: quello de’ suoi occhi.
E intanto l’applauso, fragoroso, cresceva; saliva sino al delirio. Un fremito, una febbre scuoteva il
teatro. Inabissare parea dovesse il teatro: uomini e donne lanciavano fiori, parole, grida: e lei,
ieraticamente composta, sorrideva a pena, e danzava.

Sorriso della vita, incarnazione della vera vita parve a Nadina la meravigliosa femina.
Un’ombra proiettava su quella luce, ed era la sua esistenza umile e occulta: e Nadina la maledisse
nel cuore e sorrise a quella luce e a quel trionfo: l’una palma della mano cadde sull’altra,
inconsciamente. Applaudì!
Era scomparsa Cleo de Merode: qualcosa di nuovo avveniva sulla scena, qualcosa che Nadina non
ben comprese: fissava e non comprendeva.
Ma uno scoppiare intorno a lei di risa; di lascive, di sguaiate risa la fecero avvertita di quel che
accadeva.
Guardò a torno, e vide la scena rispecchiarsi nel volto di tutte e di tutti: ella solo non rideva,
riguardò per un attimo il palcoscenico, e comprese.
Una mima eseguiva laidamente una scena di ciò che «in camera si puote».
L’incanto fu rotto. Come nelle fole, il castello magico sfumava, la fata si trasformava in serpe e in
orrida strega. Non rito, non amore, non sogno! Commercio anche qui: scienza del dare e dell’avere:
domanda ed offerta. Quanto valete, miss, mademoiselle, fräulein? Dite vostro prezzo! E la nausea
montò alla gola della fanciulla.
Nadina scattò in piedi: guardò nell’interno del palco. Vide Mrs. Evelyne pure in piedi e il cameriere
che posava il mantello sulle spalle di lei.
— Questo è shocking — disse Mrs. Evelyne che qualche cosa doveva pur dire.
Nadina non rispose; e in quel punto un più nutrito scoppiar di risa, risa ironiche, sarcastiche si levò:
balenarono volti, occhi, piume, gioielli, volgendosi dalla lor parte.
Salutavano la fuga delle due donne.
Nell’atrio un uomo attendeva calmo, sorridente.
Era il giovane signore americano.
— Oh, shocking! — ripetè a costui la dama, facendo un gesto di orrore.
Il giovane rispose con un sorriso.
Ma Nadina non disse nulla: gli occhi di lui, pur nell’inchino, pur nell’atto servile di aprire lo
sportello della vettura, erano fissi su lei, audacemente fissi, ed ella li senti penetrare come pugnali
con questa domanda: «Dunque?»

***

— Voi siete molto pallida, mia cara ragazza — disse Mrs. Evelyne quando la vide comparire al
mattino seguente — ma permettete che ve lo dica: quel pallore e quell’aria truce da giustiziera vi

danno un fascino irresistibile. Ah! se fossi nata uomo non so quali follie avrei commesse in vostro
onore! (questo insieme all’altro «voi non sembrate nè meno italiana» erano le due supreme
espressioni di lode che Mrs. Evelyne rivolgeva a Nadina — ambedue non bene accolte). Se non vi
dispiace, affrettatevi. Ho dato appuntamento alle undici da Pasquin. (Si trattava di uno
sfarzosissimo abito in grande scollato che Mrs. Evelyne aveva commesso per una serata di gran
ricevimento in casa di una famiglia americana).
Nadina era ben pallida! E in verità solo al mattino aveva velato le pupille. Un senso di nausea avea
tenuto agitate le belle membra per tutta la notte tra le insonni coltri. Nausea non per le imagini
impure viste la sera. «Impure?» parevano domandare brutalmente gli occhi grifagni dell’uomo,
«ma a quale altro ufficio vi ha consacrate Natura quando rivestì di tanto fascino e di tanta
bianchezza, di tanta deità le carni miserabili destinate — ultimo tributo fatale — alla terra?»
Miserabili ipocrisie!
Nausea materiale piuttosto, nausea strana di quella vita artificiosa in cui da mesi era trascinata,
nausea presso a poco consimile a quella provocata dai cibi che le erano ammaniti sulle splendenti
mense, cibi irriconoscibili, disfatti, putrefatti in salse eccitanti, che lasciavano inerte il dente e lo
stomaco: nausea per quegli uomini tuffati, sommersi in una gelatina di convenzioni, di cerimonie,
di lascivia insieme, senza mai uno scoppio di passione, senza che un grido d’amore redimesse o
compensasse quel orribile, nauseabondo, continuo «quanto valete?».
Nausea sopratutto di sè, che pur ripudiando tutto il suo passato di semplicità, di modestia e di
lavoro, non avea il coraggio di tuffarsi nel vortice di quella vita che da mesi e mesi le faceva
irresistibile invito: nausea del languore e del torpore che la possedeva come un lento e voluttuoso
narcotico.

***

Nadina era abituata a far la mula del medico durante le lunghe attese ne’ gran magazzini di mode,
e talvolta attendendo o rispondendo distrattamente alle domande di Mrs. Evelyne, che la
consultava sulla scelta de’ colori e degli ornamenti degli abiti, scorreva quel suo piccolo Petrarca.
Erano le melodiose dolci parole italiche come un richiamo, come un’evocazione che le risvegliava,
per effetto dei suoni, il pensiero, l’anima, il colore e il paesaggio d’Italia. Oh, quale voce di
inesausta trionfale passione si sprigionava dal riposato, mortificato e sacro verso d’amore di
quell’antico e meraviglioso poeta!
Ma Nadina in quel luminoso mattino, mentre il sole faceva scintillare tutte le meraviglie lucenti e
preziose, e gli specchi di una riposta saletta di prova, sedeva inerte ed attonita, senza più pensiero.
Venne la commessa che depose sul tavolo la gran veste, con il rispetto degli arredi sacri. Le sete, le
trine, i merletti risuonarono nel posare come metalli preziosi.
Con la commessa si accompagnava una di quelle mute e statuarie creature che sono denominate
mannequins, pupe o fantocci, perchè servono per la prova delle vesti.
Costei già si accingeva a svestirsi, quando Mrs. Evelyne, rivolta a Nadina, disse:

— Vi dispiacerebbe, ragazza mia, di provare voi questa toilette? la vostra persona mi pare più
adatta.
Quelle parole tolsero la giovane dal suo torpore.
Si levò e si appressò allo specchio docilmente.
Le due commesse allora si accinsero a toglierle gli abiti che a’ suoi piedi, come antiche spoglie,
cadevano l’una dopo l’altra.
E allora l’abito fu sovraposto alle carni con la solennità di una vestizione o di una consacrazione:
per un po’ le mani delle giovani attesero, posando, adattando; poi si scostarono pianamente, in
silenzio per contemplare.
Lievi gridi di ammirazione sorgevano accanto a Nadina.
Passò qualche istante.
Un lampo passò folgorando negli occhi di Nadina.
Aveva visto sè trasfigurata, rinnovata, rinata nella grande specchiera, più grande e, più che bella,
terribile quasi in quel grande scollato, con quell’enorme strascico che la ingigantiva sollevandola
quasi, come sopra un altare. Un sorriso le germogliava sul labbro.
Sorrideva, dunque!
Era l’anima nuova, di dentro, che rideva: era la calma per l’equilibrio che si veniva alfine formando
tra questa anima nuova e il mondo circostante: era il piacere per la fine dell’angoscioso dissidio che
durava da mesi: era il bagliore del suo nudo seno, proteso allo specchio, che le ricordava le carni
ignude della sera prima, premiate dal mondo con una cappa di diamanti: era la fine della dolorosa
coscienza antica, il principio della coscienza nuova. Era il piacere del rinascere!
Mrs. Evelyne, l’esperta, aveva ragione: occorreva a Nadina una vesta nuova, un nuovo involucro! E
Mrs. Evelyne spiava intanto con occhio attento il succedersi di quei sentimenti sul volto della
fanciulla, come il medico scruta nell’ammalato gli effetti del male. Quando il sorriso apparve
spiegato, disse:
— Quest’abito è per voi, Nadina! — giacchè quel sorriso voleva altresì significare come risposta
anticipata all’offerta: «sì, grazie, signora, accetto».
***

Ma questa risposta non venne!
Uno strano cambiamento avvenne:
Un — No! — di paura e di angoscia risuonò nella saletta di prova.

E gli specchi rifletterono quell’angoscia e quella paura: e gli specchi rifletterono le due commesse
che accorrevano pronte a difendere la meravigliosa veste perchè le mani di Nadina non la
sgualcissero. Con mani febbricitanti, convulse, cercava di togliersela di dosso.
— Ma perchè? ma cos’è questo? — chiese stupefatta a tal mutamento improvviso Mrs. Evelyne.
— No! — urlò Nadina.
— Ma vi sta benissimo — insinuò la dama.
— Deliziosamente — dissero in coro le due commesse con voce accorata.
— No!
— Ma voi allora siete impazzita! — concluse Mrs. Evelyne.
— No!
Questo era avvenuto: Gli occhi di Nadina, volgendosi da quell’estatica contemplazione, avevano
scorto, reietto, buttato in un canto del tappeto, da lei stessa buttato in un canto, il suo abitino nero
che portava sempre e, presso, il piccolo Petrarca.
Era l’involucro dell’anima sua, era l’anima sua!
E allora l’anima che doveva morire in Nadina, aveva supplicato: «no! non farmi morire, fammi
amare, fammi vivere nella purità a nella luce del sole!»
Si chinò, raccolse quelle lievi vesti reiette che si stringevano in un pugno; raccolse quel piccolo
libro, ignoto a quelle genti barbariche, ove tanta gentilezza antica, ove tanto adorno splendore di
cieli e di terre si raccoglieva, e tutto strinse in grembo, e se ne coperse il seno.
Ne sentì il tepore, ne sentì la carezza, sentì una voce lontana che partiva da una tomba: «brava
Nadina!»
E non resse più, si piegò su di sè, sul divano, nascondendo fra le mani la testa.
— Piange? — si chiedevano le commesse.
E Mrs. Evelyne disse sdegnata:
— È una fanciulla italiana: tutte le fanciulle italiane sono così, molto sentimentali.

***

I signori portalettere assicurano che l’uomo più ragguardevole di una città è colui che riceve
maggior quantità di corrispondenza.
Ora l’uomo dai sandali doveva essere pochissimo ragguardevole perchè la sua corrispondenza era
così rara che il signor portalettere ignorava persino la sua esistenza.

Grave, quando i portalettere ignorano l’esistenza di una persona! Ciò vuol dire che l’uomo non è
più allacciato alla vita!
Ma un giorno, sul finire del dolce maggio giunse all’uomo dai sandali una lettera incognita con un
suggello straniero.
Da molto tempo l’uomo dai sandali domandava a sè stesso che ne faceva oramai della sua vita.
Nulla! era la risposta.
Ma poichè ebbe scorsa quella ignota lettera, le fiamme della vita furono per nuovo alimento in lui
riaccese. Le pupille ritrovarono le lagrime, le membra benedirono e invocarono la forza.
Nadina scriveva all’amico lontano e obliato.
***

Un uomo percorreva nella notte e nel furore di un treno diretto la lunga strada che dall’Italia a
Parigi conduce.
Era l’uomo dai sandali francescani a cui Nadina chiedeva, a grande voce, disperatamente soccorso.

 

SENAPE INGLESE O SENAPE FRANCESE?

Per trovare la ragione per cui il comm. Fabrizi — autorevole magistrato, uomo solidissimo, anzi una
specie di cavallo della ditta Gondrand attaccato al forgone del più rigido dovere, uomo che
morendo in pieno esercizio delle sue funzioni, avrebbe avuto uno splendido funerale di prima
classe e avrebbe costituito uno spontaneo fatto di cronaca ne’ giornali — peccasse di pensiero e di
azione, bisogna risalire al giorno prima.
Un più sottile osservatore potrebbe eziandio ricercarne le cause nel dolce aprile che blandamente,
ma invincibilmente, risveglia le piante e gli uomini senza alcun rispetto alla matura età, al senno
maturo, al loro grado sociale; ma accontentiamoci della prima spiegazione: cioè quella del giorno
prima.
Ora che cosa era saltato in mente il giorno prima al quasi illustre C*** C*** di fermarlo per la via
così? Così, con queste parole:
«Sapristi, sapete voi, caro Fabrizi, che voi siete ancora un bell’uomo, un imponente, un gagliardo
uomo? I vostri occhi, sì, sono liebig! Peccato che portiate quella barba, indizio e rivelatrice del
tempo, ahi, inesorabile ed edace!»

***

C*** C*** è un felice letterato mondano, il quale se non declinasse oramai per la inesorabile curva
degli anni, avrebbe buona speranza di vedere avverato il suo lungo sogno di gloria. Ma la morte lo
gabberà. Egli intanto si oppone per quanto può a questa crudele discesa, e un suo innocente
artificio consiste nel ripetere alle dame le eterne, le uguali, le romantiche parole; e siccome tanto
elle che lui discendono verso le rughe ed il grigio, così nè elle nè lui si avvedono del dolce inganno.
E fu manifestamente per effetto di questa sua inveterata abitudine di far complimenti che egli disse
all’amico: «I vostri occhi sono liebig!»
E quel liebig voleva dire «sguardo concentrato come l’estratto omonimo» ovvero «amabile» come
liebig significa in tedesco?
Il commendatore Fabrizi non si curò per allora di indagare, ma se ne sentì lusingato: tanto più che
l’altro aggiunse enfaticamente: «Noi seguaci delle Muse, abbiamo un continuo ricambio di fosforo,
laonde per noi la vecchiezza non è che un involucro apparente. In voi, seguaci della rigida Temi,
avviene lo stesso, a quanto pare!»
Queste parole fermentarono nel sistema psiconervoso del commendator Fabrizi, perchè se non si
fosse più ricordato che avea gli occhi liebig, non avrebbe risposto allo sguardo; se non avesse
accettata per buona l’affermazione del ricambio di fosforo e la teoria dell’«involucro apparente», si
sarebbe vergognato della sua debolezza, inconcepibile dopo tanti anni di virtuosa astinenza e di
nobile esempio della virtù.
Ma per Dio! Se uno deve cadere in tentazione dopo venti o trent’anni di esercizio stoico
dell’abstine-sustine, dopo tante rinunzie, tanto vale che ci cada prima!
Il vero è che questo grave magistrato si era così assuefatto all’abstine-sustine che se avesse dovuto
rispondere perchè Iddio ha messo al mondo le belle, le folli, le amabili, le incoscienti, le seducenti
donnine, si sarebbe trovato assai impacciato. La donna è il lievito primo delle passioni e dei delitti:
ciò risultava evidentemente al commendatore Fabrizi. Se dunque si potessero abolire le incoscienti
e seducenti donne come si potrebbero abolire le cartoline pornografiche, sarebbe abolito anche il
delitto. Questo pure risultava evidente.
Ma in questo caso anche i magistrati, lui compreso, sarebbero stati aboliti: la vita stessa subirebbe
un’abolizione! Manifestamente nel mondo ci sono delle questioni complesse e il miglior modo per
comprenderle è di pensarci il meno possibile e lasciar da parte la logica.
La verità, anzi tutta la verità, è che, proprio in quella mattina, gliene capitò una seducentissima di
donnine, di fronte a lui, in tram.
E, cosa inverosimile, costei guardava lui, proprio lui, negli occhi liebig.
Ma era verosimile, ripeto, che una donna guardasse lui? Verosimile come se il buon diavolo
Asmodeo comparisse nel nostro studiolo e ci dicesse: «Pronto, signore, a trasportarvi per l’aria!»
così pareva verosimile al commendatore Fabrizi di esser guardato a quel modo da una bella donna.
Il commendatore sbirciò a destra e a sinistra: nessuno! Dunque la causa della fissazione di quelle
due maliarde pupille non era che lui. Cosa più che inverosimile!
La donna che lo guardava non era dama ma neanche cortigiana; non crestaina vestita da festa; non
di quelle femmine che imparano bensì per istinto in poche prove l’arte dell’eleganza, ma, apriti o
cielo se schiudon la bocca! colei invece non solo la apriva e mostrava una boccuccia fresca ed
odorosa con una doppia fila di denti madidi e perlacei, ma parlava vezzosamente, finamente alla
sua compagna; sempre però fissando lui negli occhi liebig.
Un feltro alla studentesca, due sbuffi di capelli castani in su le tempie, un ovale di giovanetta
ventenne, pallido e fresco che dava l’idea della giunchiglia d’aprile! Ricordava quei tipi di ragazze
che si attaccano con predilezione ai seguaci di Minerva, cioè agli studenti, e che erano in uso un
trent’anni fa. Lui — il fiero magistrato — in trent’anni era mutato moltissimo, ma quel tipo di ragazze, spensierate e gaie, modeste di prezzo e di peso, rimaneva tuttora a conforto dell’umana
specie! Quella lì ne faceva fede.
Il solenne magistrato da prima si seccò di quello sguardo insistente, poi si irrigidì in tutta la sua
dignità, infine concentrò tutto il fuoco di cui era capace negli occhi liebig, imponendo alla fanciulla
di smettere. Macchè! quegli occhi maliardi non subirono alcuna perturbazione. Che fare? Il
magistrato, di scatto, fece fermare il tram e scese.
Ma appunto, approfittando della fermata, scese anche lei con la compagna.
Ciò era soverchio!
Il commendatore Fabrizi aveva gravi cure in quel dì. E non solo il presidente della Corte d’Appello lo
attendeva nel suo studio, ma si trattava anche di conferire col senatore X*** e col marchese C*** e
con altri valentuomini intorno ad un fiero proclama da lanciare al paese contro la nefasta
propaganda del divorzio.

***

Perchè in quella mattina il commendator Fabrizi, sorbendo il caffè, in veste da camera, si era
sentito brillare la splendida idea di rivolgere a tutte le persone, note e notorie, un formulario in
proposito di questo tenore:
«Crede Ella che in un popolo pervenuto ad un alto grado di civiltà, dove è ammessa la
indissolubilità del coniugio, l’introduzione del divorzio rappresenti un progresso?
«Non teme Ella che dalla adozione del divorzio possa risultare un crescente dissolversi della
famiglia?» Queste le domande.
L’idea era bellissima e la trovata degna del suo amore per la conservazione sociale. Bisogna cioè
vincere l’Idra rivoluzionaria col metodo suo stesso. Ad referendum! e il commendatore Fabrizi
volse il passo verso la casa del senatore.
Ma proprio sull’angolo della via la giovinetta si era fermata per vedere se era seguita, come a dire:
«coraggio!»
Ciò oltrepassava i limiti della libertà e dell’audacia! E allora per mostrare a sè, a colei, al manifesto
che aveva in tasca, a tutto il mondo, insomma, che egli non ubbidiva ad eccitamenti peccaminosi, si
fermò; anzi avendo a mezzo della via trovata una buvette, vi entrò, ed egli, uomo astemio, fu
indotto a bere un acerbo ed eccitante liquore. Obbediva forse inconsciamente a quel motto della
sapienza popolare: «chiodo scaccia chiodo: un diavolo ne espelle un altro?»
Poichè ebbe bevuto, uscì fiducioso di aver libera la via, e proseguì il cammino verso la casa del
senatore. Il feltro chiaro era scomparso dall’orizzonte. «Il divorzio — pensava — disgrega la cellula
protoplastica della famiglia. E allora….» ma mentre esaminava entro di sè tutte le terribili
conseguenze di questa premessa, proprio sotto il voltone di un palazzo deserto, immobile, sola, lo
aspettava al varco il feltro bianco. Ciò si legge anche nelle rime di Francesco Petrarca: E fecesegli incontro – A mezza via come nemico armato!
Era troppo! Il degno magistrato si fermò e si trovò nell’assoluto dovere professionale di inquisire e
domandò: «Chi siete voi? Come vi chiamate? Quanti anni avete? Che professione esercitate?
Donde venite? Quali sono i vostri mezzi di sussistenza? Da quanto tempo dimorate in questa città?
e — finalmente — dove abitate?»
Tutte queste domande che avrebbero offeso qualunque persona, non turbarono che
mediocremente la giovinetta: la quale come imputata che non ha nulla da nascondere, nulla da
rimproverarsi, rispose a tutto con soavissima voce; e infine da un minuscolo portafogli trasse e
porse il suo biglietto di visita con l’annesso recapito: «Sola, orfana, straniera in quella città, anni
ventidue, abbandonata dal tutore: commessa viaggiatrice per la casa Band in articoli di mode.»
Una vita tersa come uno specchio!
— E allora — replicò il magistrato — che cosa fa lei, qui, sotto questo portone?
— La mia amica — ella rispose — è salita al terzo piano per prendere il suo piccino che oggi fa la
prima comunione, ed io ne sono la madrina.
— Va bene: ho piacere di vedere che ella è di principî morali!
— Per fortuna, signore — confermò la giovinetta — in tante mie traversie e vicissitudini infelici la
religione non mi ha mai abbandonata. Guai se la Madonna non mi avesse tenuto le sante mani sul
capo! Chi sa che cosa sarebbe avvenuto di me, in che abisso sarei caduta, sola, orfana,
abbandonata dal tutore, dopo avere egli abusato indegnamente della fiducia che io, povera
inesperta fanciulla, riponevo in lui!
Il signor magistrato a queste parole umili e dolenti, al commento che vi facea il pallido volto, si
sentì intenerire, onde domandò con voce più mansueta: — Ebbene, cara ragazza, ditemi perchè
quell’insistenza nel fissarmi, come facevate in tram.
Il sorriso zampillò negli occhi e sulle labbra di lei: poi si confuse, chinò con ritrosia il volto, in fine,
col rapido trapasso dal pianto al riso che è virtù della donna, disse:
— Perchè, o signore, i suoi amabili occhi azzurri mi hanno fatto un’impressione sorprendente,
strana. Ella, capisco, potrà pensar male di me, ma avrà proprio torto.
(Evidentemente quel liebig del giorno prima voleva dire amabile. Oramai ne era sicuro: la
spiegazione della signorina escludeva ogni altra indagine filologica).
— Veniamo, veniamo a noi — disse più gravemente l’uomo della legge. — Sono vere tutte le cose
esposte, proprio vere?
— Verissime, signore, dall’a alla z, e poi, dopo mezzogiorno, finita la comunione, se ha la bontà di
venire da me, potrà sincerarsene; vedrà il campionario.
— Perchè no? Se le mie occupazioni me lo permetteranno.
— Come crede, signore. Per mio conto già tutt’oggi bisogna che rimanga in casa.

***

Il degno magistrato salutò severamente, si allontanò e, riscontrando nel suo cammino una seconda
buvette, sentì il bisogno di entrarvi. La sua gola, per le poche parole dette, era arsa come dopo
un’intera concione.
Un raggio di sole faceva scintillare tutta la bottega e tutti i veleni opalini, verdi, amaranto, che
occhieggiavano nelle fiale.
Le commesse del collarino e dai polsini candidi, occhieggiavano anch’elle: ed egli bevve e non
provò affatto quel senso nobile di sdegno che lo accompagnava da anni, e per cui tutti i luoghi in
cui belle donne fanno da richiamo, gli pareano turpissimi lenocini. Anzi, centellinando, ebbe questa
idea: «E se tali luoghi sono lenocinio, come chiameremmo noi gli spettacoli di gala al teatro, i
grandi balli ufficiali, ove noi pure, uomini della legge, siamo chiamati ad intervenire? E pure ci
intervengono le compite dame, in grande scollato, che mi rivolgono questa prudente e saggia
domanda:
«Non teme Ella, commendatore, che dalla adozione del divorzio possa risultare un crescente
dissolversi della famiglia?»
«No, signora, non temo, non temo niente,» fu la risposta che allora diede il commendatore.
La famiglia! Il papà al posto d’onore, la mamma di fronte col naso lungo acerbo, la signorina e il
signorino ai lati: la domestica ogni giorno col solito piatto di bollito e la solita domanda: «La senape
francese o la senape inglese?»
Ciò evidentemente era troppo pel signor magistrato: era un rifare a precipizio in un giorno solo il
cammino lento e progressivo di trent’anni per la via della virtù. Se ne accorse anche lui.
«Certamente — seguitava pensando — i confini del diritto sono incerti, esistono delle
conflagrazioni fra diritto e diritto: ma egli è pur vero che se si dovesse chiudere questo negozio qui
in nome della morale e dei santi principî, bisognerebbe chiudere anche quello là: insomma
chiudere tutto. Insomma una clausura universale.
No! così la faccenda non va: i conti non vengono. Bisognerebbe cominciare da capo: tutto libero,
tutto aperto, tutto permesso! Qui l’orizzonte gli si allargò in una visione mirabile ancorchè fosse
tardi, come disse Dante.
Ma poi sopravvenne un’idea che chiuse tutto quell’orizzonte sconfinato di libertà perchè si ricordò
del motto di quel famoso filosofo che disse: Cosa disse? Se fosse stato un filosofo antico, un
Aristotele, un San Tommaso, un beato Lattanzio, il commendatore Fabrizi se ne sarebbe riso
davvero della sentenza di quel filosofo!
Ma si trattava di un filosofo moderno, positivista celebre: egli in quel punto non si ricordava del
nome, ma probabilmente si trattava di parecchi filosofi che dissero tutti, press’a poco, la stessa
cosa, cioè questa: La civiltà non è stata altro che una continua vittoria contro gli impulsi del senso.
E allora?
Allora non rimane che un rimedio: «abbasso la civiltà e torniamo alla barbarie!»
A questo punto il commendatore ebbe paura delle sue idee e retrocesse, in altri termini uscì dal
negozio ove occhieggiavano le fiale velenose in fondo alle quali cova un Asmodeo, loico e
demoniaco. Non però che prima non consegnasse ad una di quelle banchiere tutto l’incartamento
sul divorzio, pel quale e sul quale doveva conferire col senatore X***. Quell’incartamento anzi
tutto gli usciva dalle tasche del soprabito e stava male, inoltre lo sapeva tutto a memoria.
«Crede Ella (domanda ottava) che in un popolo pervenuto ad un alto grado di civiltà dove è
ammessa la indissolubilità del coniugio, l’introduzione del divorzio rappresenti un progresso?»
Cosa posso credere io? Io credo, io credo, io credo che far da salice piangente sull’argine del fiume
dove corre il torrente dell’umanità sia professione infelice fra le infelicissime! Questo io
fermamente credo: — Tenga, signorina, questo pacco di carte: passerò a riprenderlo.
— Si figuri, signor commendatore! — rispose colei inchinando. — Ciò fu un colpo di stile. Anche lì
era conosciuto, lì, dovunque, lì come da per tutto la sua barba e la sua dignità sono note: tutta
gente che trema, che allibisce davanti a lui: tutti lo riconoscono per il temuto, il rigido custode della
legge, a cui nessuno osa dire di no! Cioè, v’è una persona che non solamente osa dire, ma dice
sempre di no: La marchesa sua moglie.
Il commendatore uscì molto avvilito.

***

Eppure tutto in quella magnifica mattinata di aprile scintillava superbamente, allegramente,
liberamente. E il commendatore Fabrizi pensò che se gli occhi erano ancora liebig, la barba era
fatalmente grigia.
Date le idee radicali che gli lampeggiavano in quella mattina, egli ebbe questa prima e felice idea:
recarsi dal barbiere e sopprimere interamente il fatale grigio della barba. Ma dopo? No, non si
poteva. Tutt’al più si poteva correggerla, appuntirla, ringiovanirla, fare una barba da cavaliere di
grazia. E si recò dal suo barbiere. Ma poi, no! Lì si incontrano i soliti gravi e benpensanti amici e
conoscenti.
Egli, quella mattina, non era in vena di fare da tutore della società….
«Andremo da un barbiere eccentrico, fuori dazio: dove non sono conosciuto» pensò e salì in tram.
Il tram correva nel sole con un’allegria insolita di movimento. Evidentemente le correnti elettriche
in quella mattina si risentivano della primavera.
Era appena salito che una mano piatta gli si posò sul panciotto e una voce ben vibrata disse: —
Caro Commendatore, che fortuna! — Allora guardò: avea davanti a sè qualcosa di eccelso, di nero,
di rosso, di argenteo. Era il signor colonnello della legione dei carabinieri, il quale con un
gentiluomo suo amico ragionava calorosamente; e avea interrotto vedendo salire lui.
Però anche lui, l’egregio colonnello, ragionava al vanvera quella mattinata. Almeno così parve al
commendatore Fabrizi.
— Avanti di questo passo, caro Commendatore — seguitava il detto colonnello rivolgendo anche a
lui l’interrotto discorso — si va a rotta di collo. L’immoralità dilaga, le licenze della stampa e delle
cartoline pornografiche non conoscono più limiti; noi siamo in un treno lanciato a tutto vapore
senza più forza di freni. Se ne accorge lei di questo? Il principio d’autorità è sconvolto! Qui bisogna
provvedere, pensare il rimedio…
— Già il rimedio… — ripetè balordamente il commendatore.
— Semplicissimo! Volere!
— Sarebbe a dire?
— Come? E me lo domanda? — Sì anche lui, il colonnello, ragionava a vanvera. Si vede che avea
fatto un’eccellente colazione e si era attaccato ad un’idea fissa proprio come il sigaro verginia si era
attaccato ai folti baffi grigi.
— Volere! volere! — sentenziò il colonnello. — Sic volo, sic jubeo, stat pro ratione voluntas! Ecco la
massima! Nel medio evo vi fu la superstizione del diavolo; oggi c’è la superstizione della libertà!
Come si rimedia? Semplicissimo! Volere! Si stampa un avviso in cui si dice che i signori deputati
non saranno più eletti dal popolo sovrano, ma dalla sorte. Si mettono i nomi in un bussolotto e si
estraggono a sorte. È questione, creda, di vincere il punto morto della superstizione, dopo la ruota
va da sè. Veda le nostre reclute! Ve n’è d’ogni sorta, buoni e cattivi, docili e ribelli, pelandroni e
svelti, ascritti alle sette, anarchici…, e pure quando vestono questa qui — indicava la lucente, nero-
rossa assisa — diventano uguali. I bisogni del popolo? Ma certamente! Tutti hanno diritto di mangiar bene, vestir bene, lavorare quel tanto che è giusto e basta: nessuno deve più fare da
bestia da soma. Crede che anche noi non siamo all’altezza dei tempi? È vero, amici miei?
E pronunciando queste parole il signor colonnello si rivolse non al commendatore, non al suo
amico ma al conduttore del tram e ad un altro personaggio, tipo d’operaio e di sovversivo; i quali
due stavano pur essi ad ascoltare con tanto d’occhi fissi.
Il signor Commendatore paventò da parte di costoro una risposta insolente. Macchè! Il colonnello
battè allegramente sulle spalle del conduttore e dell’operaio che si posero in posizione d’attenti. —
Bravi figliuoli! Il principio d’autorità, ecco tutto! Disse allora lo scamiciato: — Non sono, signor
colonnello, le giacchette sporche quelle che fanno la ribellione; sono le giacchette pulite come
quelle di questi signori. Se le giacchette pulite si scalmanano per domandare cento, come si fa? per
forza noi dobbiamo domandare cento e uno. Non è così? A noi, come noi, basterebbe quello che
ha detto lei prima, aver da mangiare, aver la giustizia in casa! Già che questo non c’è, noi si va
dietro l’onda sicuri di non sbagliare mai.
— Vedete — esclamò trionfante il colonnello volto ai due gentiluomini — quale è il posto nostro!
dobbiamo noi entrare in mezzo al popolo, vivere con lui! altro che reprimere, reprimere, null’altro
che reprimere, null’altro che applicare gli articoli del codice!
E mentre quegli così dicea, al commendatore a cui le idee si confondevano più che mai, parve
sentire un peso nella tasca sinistra: il codice. Vi mise la mano e, in quel punto, il colonnello senza
far fermare nè arrestare il tram, balzò giù, piombò dritto, risuonò con la dragona, con la sciabola,
con gli sproni come un corazziere della guardia napoleonica. Ma il verginia non pencolò!
— Addio, cari! — e il tram fuggiva fuor della barriera nello scintillante mattino.
Il negozio del barbiere — un gran negozio del ventino — che lì si apriva, prometteva alla vista la
desiata garanzia dell’incognito. Entrò, dunque, e quando il giovane gli ebbe fasciato il collo
coll’accappatoio, il comm. Fabrizi notò che gli altri giovani e alcuni clienti pendevano dalla bocca di
un narratore tranquillo ed acuto.
— Il signore desidera?
— Appuntire un poco questa barba, raggentilendola.
La domanda del barbiere era molto logica attesochè il comm. Fabrizio Fabrizi non offriva nel capo
valida presa al pettine e molto meno alle forbici: d’altronde la barba di color misto, quadrata come
quella di Enrico di Navarra, con tutti i peli per isquadra, una barba magistrale in tutti i sensi,
incuteva un giusto senso di rispetto anche alle forbici di un parrucchiere. Da ciò la dubitosa
domanda, a cui fu aggiunto: — Solo un pochino, in fondo, è vero, signore?
— Oh, anche più che un pochino!
Il parrucchiere mise la sordina a questo pensiero: «che peccato profanare una così bella barba!» e
brandì l’arma.
E mentre i peli cadevano sotto il prudente taglio, non il savio pensiero che in quei peli or dalla
forbice recisi era molta parte della dignità del suo ufficio, balenò alla mente: invece balenò alla
mente questo pensiero, degno di ogni biasimo:
«Come inutilmente la folta mia chioma è caduta, come inutilmente questa barba si è fatta grigia,
anzi bianca!»
E allora una nuova luce si formò nella sua mente, giacchè se il liquore contiene nelle sue intime
cellule un demonio, non è detto che cotestui sia un demonio stupido e sonnolento: anzi è un
demonio vigile, dalla vista acuta, che ampiamente scopre le cose passate e le future, anche là,
dove il tempo, procedendo, opera nella memoria come il male della cateratta nella pupilla: cioè
chiude lento, ma inesorabile.
Ora ecco quello che egli scoprì: «Omero (ricordo di infanzia) Omero immutabile ed alato (mentre il
codice delle leggi è mutabile e pesante) Omero dove fa parlare quel tale, o Ulisse o Agamennone o Achille divino!… Certo qualcuno di costoro parla con alate parole e fa giuramento per il suo scettro,
e come è vero che fu strappato dalla selva e più non metterà fiore nè fronda…, così… ah, così i suoi
capelli più non fioriranno sulla lucida, convessa superficie di quel perfetto cranio che niuno appiglio
dava oramai più alle forbici: nel modo istesso che il suo esemplare e rotondissimo cranio nessuna
presa offriva nè meno alle sottili chiose degli antropologi criminalisti, suoi ottimi amici, ed
avversari, secondo i casi.
Non fiorirà più, mai più, inesorabilmente mai più!
— Che uso avete fatto dei miei doni? — domanda il diavolo.
Invece come di biscie nere, come di serpentelli accesi e di ceraste (il diavolo gli ricordava anche
Dante) fioriva il capo meraviglioso dell’umile commessa in passamanterie, fatta diserta ed infelice
per l’abbandono del suo tutore. Ella, la giovanetta dal volto di perla era ben umile; ma le sue
gagliarde chiome ventenni erano ben orgogliose e superbe! Sfidavano la miseria ed il mondo.
— O Fabrizio — disse a se stesso il commendatore Fabrizi — proverai tu nel profondo del tuo cuore
rimorso alcuno nel distruggere, come stai per fare e come hai intendimento, una di quelle cellule
del Consorzio Civile che tu sei chiamato a difendere?
Ed attese la risposta della coscienza.
È cosa nota: i liquori eccitano e deprimono nel tempo stesso: ora la coscienza del commendator
Fabrizi, già fatta inferma per le libazioni soverchie, dormiva di un profondo sonno come sogliono i
tre giudici dei tribunali, specie nelle udienze estive: invece i demoni erano desti ed avanzarono
superbamente con pifferi e trombette, ed uno gridò: «No! Nessun rimorso, avanti!»
Quando il rumore dei tamburi e delle trombette dei demoni cessò, il comm. Fabrizio Fabrizi potè
porgere ascolto alle parole di quel cotal narratore che non aveva ancor finito di parlare. A rigor di
termini il Commendatore avrebbe dovuto capir subito dalle prime parole perchè si trattava di un
delitto a lui bensì noto come fatto, del pari che ignoto nelle sue vere cause.
Ecco di che si trattava: un terribile lôcch, o masnadiero cittadino, di quelli che in Milano infestano
quadrivi e sobborghi (e lôcch deriva da loco spagnuolo che significa stupido: i quali lôcch fioriscono
stupendamente sotto le nebbie di Milano come fiorivano stupendamente i bravi al tempo di Don
Gonzalez Fernandez de Cordova) dunque un terribile lôcch, anzi il più terribile fra i terribili, era
stato trovato fuori di via X*** steso morto a terra, morto sul serio — giacchè i lôcch — chi sa mai
perchè? — quando anche ricevano un paio di pallottole di rivoltella nei fianchi, ritornano dopo
pochi giorni d’ospedale sani e gagliardi alle loro occupazioni quasi che la divina Angelica fosse
passata con le sue erbe magiche come avvenne pel fante Medoro — cosa che ai galantuomini feriti
non accadrà mai.
La giustizia aveva fatto arresti sopra arresti, aveva smosso tutto il sottosuolo putrido di Milano, ma
non aveva scoperto nulla. Il giudice istruttore aveva collegato con acutissima fantasia
quell’omicidio ad altri fatti altrettanto gravi quanto rimasti ignoti, e non aveva scoperto niente.
La stampa eccitava il troppo lento passo burocratico della giustizia con articoli giornalieri. Ora quel narratore lì, nella bottega del barbiere, spiegava la cosa con una semplicità stupenda;
così: «Lui, il morto, con i suoi compagni erano fermi all’appostamento per quando passano i
fittavoli che tornano alle loro campagne.
Vengono costoro dal mercato ed hanno la borsa piena pe’ traffici e pe’ baratti compiuti nel dì. Di
questi colpi dieci vanno bene, uno va male: questo era andato male. Il fittavolo, assalito nel buio, si
vede che aveva con sè il revolver ed ha fatto fuoco a bruciapelo e lo ha colpito nella nuca.» Se non
lo colpiva lì, in modo da lasciarlo sul colpo, garantisco — dicea il narratore — che colui non moriva:
lui le palle della questura che ha preso in corpo le ha sempre digerite, come fossero state delle
prugne, un po’ acerbe, ma le ha digerite!
— All’Osteria del Bianco — confermò uno degli ascoltatori con sincera espressione di rimpianto e
di rispetto — era capace di mangiarsi da solo un tacchino, e sempre in piedi, povero diavolo,
sempre con quella benedetta paura di essere sorpreso dalla visita dalla questura.
Disse un terzo ammirando — E la forza che aveva? Per lui rompere un mazzo di carte era conto di
ridere! Una volta che gli avevano messo le manette, non ebbe il coraggio di farle saltare
spezzandole sopra un paracarro? E quanti anni poteva avere?
— Ventidue, ventitrè anni! — disse il primo raccontatore — un fegato da leone!
***
Al comm. Fabrizi quella gente faceva un effetto nuovo e curioso, in questo senso: gli pareva cioè
che in tutti coloro che lì erano, fosse questo convincimento filosofico della vita, il quale può essere
espresso in queste brevi considerazioni:
I lôcch quando rubano, percuotono, uccidono, non fanno altro che il loro mestiere! nel che sta la
ragione della loro esistenza.
Ma per la stessa causa fanno bene i questurini ed i carabinieri a perseguitarli perchè tale è, alla lor
volta, il loro mestiere e vivono di quello.
Se le parti fossero invertite, i lôcch sarebbero questurini e i questurini sarebbero i lôcch. E così
estendendo sempre, gli apparivano di cotale strana natura formate tutte le azioni del mondo, e le
basi del diritto, del premio e della pena, gli apparivano sconvolte; giacchè il demonio è un
estensore meraviglioso di argomenti e basta dargli un grano di sabbia perchè edifichi una casa,
basta dargli un filo solo perchè intessa una tela, basta fargli una concessione perchè vi annodi da
capo a piedi nella sua implacabile logica.
O buon angelo custode, e voi impotenti spiriti del bene, vigilate, vigilate voi alle porte della
abbandonata fortezza del mio cuore, affinchè il demone non penetri! Nell’animo del commendator
Fabrizi era già penetrato e proseguiva estendendo e facendo sue chiose. Ecco: La donna pudica
preferisce morire che mostrar le sue carni. La donna impudica esulta nel contemplare la sua statua
fremente! L’uomo virtuoso, ancorchè ragione gli consigli il male, ne teme il contatto peggio che
toccare il viscido colùbro: l’uomo invece, chiamato malvagio, soffre se non può operare il male; e come l’assetato desidera l’acqua, come chi ha freddo sospira la fiamma, così l’anima dell’uomo
malvagio sospira il male, la frode, il vizio, l’inversione, la degenerazione dove tuffarsi come per
entro un bagno delizioso. Oh, comm. Fabrizi, giudice virtuosissimo, di’ tu se così non è come io,
demone saggio, affermo e dico. Fra i molti casi, anzi moltissimi che passarono sotto il tuo esame,
ricordane uno recente, quello di Flavio Equini. A Flavio Equini che cosa mancava per esser felice? A
lui nobiltà di natali, a lui ricco censo, bella moglie, acuto ingegno, eloquio piacevole e lieto, onori,
potenza, bellezza. Poteva non frodare. Ebbene, no! Quell’uomo aveva bisogno di frodare, rovinare,
distruggere, far del male! anche a se stesso, se mancava l’opportunità di far male altrui! Nel modo
medesimo che ai buoni intenditori di arte culinaria e valenti gastronomi piace assai la carne
quando essa è sanguinolenta e sopra con grandissima cura vi spargono alcune stille di acerbo
limone, così a molti umani il piatto della vita non piace nè altrimenti diletta se esso non è cosparso
di molto sangue e di molte rodenti lagrime. E mancando l’altrui, bevesi il proprio sangue: bevonsi
le proprie lagrime! E come vi è colui che fa piangere, così vi è colui che dedica la sua vita alla
missione di asciugare le lagrime; nel modo medesimo che vi è chi insudicia la via e chi la scopa: che
vi è l’inventore dei proiettili avvelenati e vi è l’inventore dell’antisepsi: che vi è il microbo infame
che uccide e il microbo che guarisce: e l’uno e l’altro hanno ragione, perchè l’uno e l’altro fanno il
loro dovere e mestiere, e dall’insieme risulta questa che noi, in mancanza di una definizione più
precisa e scientifica, chiamiamo «Vita». E benchè paia contraddizione, non è: o almeno il giorno in
cui gli uomini si avvedessero di questa meravigliosa contraddizione, essi cesserebbero dal vivere!
A queste sublimi considerazioni filosofiche si può arrivare tanto col grande studio quanto con la
grande ignoranza, come era il caso di quella rozza gente in quella bottega.
Il comm. Fabrizi ci arrivava un po’ in ritardo, ma ci era arrivato a questa perfetta cognizione del
meccanismo recondito della vita!
Tuttavia l’abito professionale per quel che riguardava la supposizione che il terribile lôcch fosse
stato freddato da un estraneo, si ribellò. Caspita, era tutto il suo lavoro che cadeva in frantumi!
onde volgendosi a pena (e prima richiamando l’attenzione con la mano) disse in tuono insinuante e
nel tempo stesso autorevole, rivolgendosi al principal parlatore: — Ma scusate, signore, come fate
voi ad asserire con tanta certezza; come fanno gli altri qui presenti a credere ad una cosa che si
affaccia come inverosimile, cioè che sia avvenuta una grassazione, e che un fittavolo, o fattore o
fittaiuolo, o commerciante che fosse, abbia fatto fuoco? Ma nessuna, dico nessuna supposizione ci
autorizza a credere ciò nemmeno lontanamente!
— La palla… — cominciò uno.
— Sì, capisco, la palla trovata nella ferita non corrisponde al calibro delle armi degli altri arrestati
come supposti rei — seguitò in tono autorevole il comm. Fabrizi — ma questo è un argomento
destituito di ogni valore. L’arma che non s’è trovata, si può, quando che sia, ritrovare. E d’altronde
io domando e dico, signori miei, se fosse vero quello che asserisce con tanta certezza quel signore,
io domando e dico, perchè quel fittavolo, o possidente o commerciante che sia, non si presenta
alle competenti autorità e non dice: «Sono stato io a sparare!» Sapere lo deve sapere, perchè tutti i
giornali ne parlano! Ora egli non solo non andrebbe incontro a nessuna noia di carattere
giudiziario, ma avrebbe un bel ringraziamento per avere liberato la società da un soggetto
pericolosissimo. Vedono dunque, signori miei, che la loro supposizione cade nell’inverosimile. Ma il tuono autorevole del comm. Fabrizi, invece di acquistare di autorità, si veniva di mano in
mano smorzando e ciò avvenne per effetto di suggestione, giacchè tutta quella gente, pur non
interrompendo il magnifico signore, lo veniva guardando col bianco dell’occhio e con un sorriso di
pietà.
«Dico forse delle sciocchezze?» — si domandò mentalmente il comm. Fabrizi, ed avutane dalla
coscienza risposta negativa assolutamente, replicò: — Vedono dunque, signori miei…»
— Ch’el scusa! — interruppe il maggior narratore con un tono tale di voce che significava che solo
la barba e l’aspetto grave del personaggio lo inducevano ad espressione cortese — ma quando il
fittavolo è andato a dire che è stato lui, quando tutti i giornali stampano il suo nome, chi lo
garantisce dalla vendetta degli altri lôcch? Quelli del tribunale forse? Non sa lei che è tutta una
rete? Il colpo al fittavolo è andato bene, salvo è salvo; conosciuto non è stato conosciuto da
nessuno perchè era notte; vendicato, s’è vendicato perchè l’altro è morto. Se la sbrighi la giustizia a
cercare l’autore del delitto! È ben pagata per questo! Ma lui non si farà mai vivo, glielo garantisco
io: la pelle preme a tutti!
Il comm. Fabrizi a questo terribile ragionamento non ebbe la forza di replicare: si sentì avvilito,
molto avvilito nella sua dignità di magistrato, cosa che in trenta anni del nobile ufficio mai gli era
avvenuto anche davanti alle orride bestemmie dei condannati all’ergastolo. Anche l’immagine di
Temi, effigiata nel gesso, era afflitta.
E avvertendo nella tasca del pastrano un involto che gli dava peso e deformava la linea, lo estrasse
e disse al barbiere:
— Passerò a riprenderlo, ella intanto me lo tiene in custodia.
Era il codice delle leggi!

***

Quando il Commendatore uscì da quella bottega e si avviò al recapito che la amorosa creatura gli
aveva dato, era quasi mezzogiorno: le funzioni della chiesa dovevano essere terminate.
Via X, N. 26, piano III, uscio secondo.
L’indicazione era facile: il salirvi era difficile. Perchè?
Per il rimorso? «Non ti rimorde il cuore, o Fabrizio, al pensiero di quello che stai per fare, di
sciogliere cioè una cellula di quell’istituto del coniugio in sul quale riposa la santità della famiglia e
con essa e per essa tutto il civile consorzio?»
Doloroso a dirsi! La coscienza del comm. Fabrizi, pulsata ancora da questa domanda, non rendeva
più veruna risposta: anzi, cosa più dolorosa e nequitosa che mai, la figura della marchesa consorte
(simbolo vivo del legame del coniugio) con l’adunco naso gli si ergeva innanzi instillandogli un
senso di disgusto presso che fisico, e che pareva aver sede nell’epigastrio come avviene a chi si è
gravato di cibo e di bevanda più che misura non consenta. Per ventitrè anni egli avea concesso alla marchesa consorte tutte le attenuanti, tutte le
giustificazioni che avea negato agli imputati di cui la legge lo faceva giudice: ora non più, nessuna
attenuante, nulla! Un solo, vero giudice: Dracone! Ma che cellula! Egli aveva rimorso di non averle
disgregate prima ed in maggior numero, quando era in tempo!
E il Comitato, ed il senatore X***, celibe, anzi celibissimo e, a’ suoi tempi, scapestratissimo
senatore X***, presidente del Comitato per la salvezza della famiglia?
Al diavolo anche loro! No, non era il rimorso che gli gravava il passo e lo rendeva pusillo al dolce
ritrovo: era il peso della sua dignità, della sua notorietà, della sua gravità professionale. Ah, potere
andare da un barbiere e dire: «toglietemi la mia dignità» come si dice: «toglietemi la barba!»

***

La casa N. 26 si disegnò con i suoi tre piani: silenziosa, decorosa, indecifrabile: piano terzo, scala
seconda.
Un istante di turbamento lo vinse in sul varcar della soglia.
«Infine — pensò — un procuratore, un magistrato può per segrete ragioni d’ufficio giustificarsi se
monta certe scale e bussa a certo uscio» e avanzò.
***

Ma in quel punto, sbucata non seppe egli da dove, si sentì prendere da due mani soavissime e
madide e una voce anelante e timorosa sussurare:
— Per carità, signore, non venga. Il mio tutore è tornato all’improvviso. Sarà per un’altra volta, a
migliore occasione! —
Era lei con i capelli sciolti, in ammirabile veste da camera, sbucata non sapeva da dove.
Il povero Commendatore rimase per un istante immobile: fissò quella testa gentile, quegli occhi
spaventati e accorati come per leggere se diceva il vero: — Va bene — disse poi e discese le scale. E
non mai la parola bene volle appunto significare il contrario.
***
Mezz’ora dopo una carrozza da piazza lo sbarcava a casa sua.
La marchesa consorte venne ella stessa ad aprire:
— Finalmente! — disse — Il senatore X*** che vi attendeva per questa mattina, è venuto egli
stesso qui, ed ha aspettato per un’ora intera! In certi casi la buona educazione vuole che si avvisi!
— Un affare urgentissimo!

***

Nel solito salotto da pranzo la colazione è imbandita: una colazione igienica e semplice: zuppa e
carne di manzo a lesso.
I figliuoli — poverini! — hanno una partita di tennis di grande impegno e non possono essere alla
mensa paterna.
Così dice giustificando la marchesa consorte e coll’occhialino scopre e scruta la nuova foggia della
barba maritale.
Sotto quella silenziosa pupilla doppia, il bollito sembra più stopposo ed insipido che mai! Ma la
domestica, in grembiule bianco, domanda: «Senape inglese o senape francese, signor
Commendatore?»

 

IL TRIONFO DELLA MORALE

La bicicletta è sempre stata una mia ardente passione.
I fisiologi hanno discusso se in bicicletta si possa pensare, anzi no pensare, ma più scientificamente
cerebrare: io non so codesto. So che il pensiero o la cerebrazione più costante per me in bicicletta
è la seguente: «frègatene!» Verbo plebeo, ma espressivo.
Quando l’aria sibila e vi ossigena e vi penetra e vi rende brioso, poroso, ilare, un unico pensiero,
che è sintesi della più solida filosofia, si forma nel cervello: «frègatene!»

***

Però se io entravo in biblioteca con visibili segni ciclistici, o berretto a visiera, o calzoni rimboccati o
l’aspetto franco e lieto di uno che ha respirato bene, che può ricevere dei complimenti da Igea, che
è in riposo cerebrale tanto per istudiar sei ore filate come in tensione di muscoli per liberare la
strada da un paio di importuni, se — dico — il prof. Gaudenzi mi scorgeva in simili condizioni, non
solo non mi faceva alcun complimento, ma non mi onorava più del suo saluto. Perchè bisogna
sapere che il prof. Gaudenzi mi onorava del suo benevolo saluto, cosa che non accadeva a tutti,
anche a persone di ben altro grado e stato sociale che il mio.
***

Chi era il prof. Gaudenzi?
Il prof. Gaudenzio Gaudenzi era un modestissimo, umile grande uomo.
Egli era cioè uno di quei pochi sì, ma caratteristici grandi uomini, indispensabili grandi uomini,
destinati a sostenere la nazione e lo Stato e, se la parola non spiace, la Patria. Ufficio non lieve, anzi
pesante, pieno di grandi responsabilità.
Io ho denominato questo illustre uomo con il titolo di «professore», che è fra i più modesti e
comuni, perchè egli è così generalmente indicato. Del resto egli disponeva di una infinità di titoli;
da quelli cavallereschi a quelli che ogni tanto gli arrecava la posta: titoli decretati da Assemblee, Istituti, Accademie, Consessi, Concilii etc. etc. L’antico Briarèo mitologico non avea tante membra
quanti il prof. Gaudenzi aveva membri con cui uncinarsi socio a tutti i Consessi intellettuali del
vasto-piccolo mondo.
«E se io entro in biblioteca di questo passo è perchè io solo so il peso che incombe sulle mie spalle;
e se io invece di salutare mi limito a stirare le labbra, è perchè c’è il suo perchè!»
Questo sottile ragionamento si leggeva su tutta la persona del prof. Gaudenzi, quando entrava in
biblioteca.
Giacchè il prof. Gaudenzi quando non era in ispezione per il paese, capitava regolarmente in
biblioteca. Entrava stirando le labbra e dondolando il capo in modo che non era facile capire se si
trattasse di un saluto universale generico — come quello che fanno i gran prelati — o di un moto
asseverativo come per assicurare sempre più a se stesso: «Sì, io sono un umile — è vero — ma
grande uomo!» Egli è però più probabile che quello stiramento e quel dondolamento dovessero
costituire un saluto perchè avevano la virtù di far levar su da sedere tutti gli studiosi presso cui
passava; e, una volta levati su, di far loro descrivere una specie di angolo di quarantacinque gradi in
avanti, con la schiena e con la testa. Ma io — ripeto — godevo di uno speciale privilegio. Giacchè il
prof. Gaudenzi, al di là di quella specie di muraglia dei libri da cui veniva circondato, mi sollevava,
mi dondolava la mano, e infine mi permetteva di stringerla: — Che cosa stai facendo di bello anche
tu qui? Oh, bravo, bravo, bravo! — il che tradotto in lingua semplice voleva dire: «adesso vàttene!»
Ed io me ne andavo al mio posto.
Questa speciale benevolenza mi era in certo modo dovuta perchè a quattordici anni io avevo avuto
l’onore di sedere accanto a lui sui banchi della scuola dove egli fin da allora faceva strabiliare
persino il maestro snodando a memoria tutta la filza dei verbi greci irregolari; e da allora andò
sempre più avanti, diventando sempre più brutto, sempre più giallo, sempre più ostinato nella sua
cocciuta volontà di riuscire un grande uomo finchè diventò un vero grande uomo, uno di quei
pochi, sì, ma indispensabili grandi uomini destinati a sostenere la macchina dello Stato: uno cioè
(le mie parole non paiano malevole e sarcastica iperbole) di quei grandi uomini a tipo regolare e
mediocre, debitamente sterilizzati ed enervati che sono un prodotto tipico, un esponente-indice
della civiltà contemporanea. Enervati e sterilizzati delle qualità eroico-geniali come sarebbero
l’indignatio, la magnanimitas, la θεῖα μανία, il furor sacer, ed altre qualità consimili le quali
costituirebbero un tipo umano assolutamente inadatto ed incompatibile col tempo nostro. Non è
vero questo che io dico? Osservate: gli uomini forniti di queste virtù eroico-geniali vengono
regolarmente ed istintivamente banditi dai consigli dello Stato, dalle accademie ufficiali, dalla vita
publica in generale, laddove i grandi uomini di tipo regolare e mediocre ad uso prof. Gaudenzi, figli
legittimi dell’età presente, vengono destinati a molteplici usi nè stanno mai fermi tanto è il bisogno
che si sente della loro indispensabile mediocrità.
Il prof. Gaudenzi apparteneva alla speciale categoria di quegli illustri innocui personaggi i cui nomi
sono tolti ogni tanto dal tabernacolo ed esposti alla venerazione del popolo specialmente quando
accade alcuna publica calamità.
Essi allora, come i grandi clinici, sono chiamati a consulto: esaminano, inquiriscono, giudicano,
mandano. Ad esempio: una battaglia perduta, una banca fallita, una corazzata che non camina, un’alluvione sterminatrice, un campanile che crolla ecc., turbano la publica opinione. Si
domandano dal publico pene severe e giudizi esemplari come e più di quelli di Don Gonzales
Fernandez di Cordova, immortalato da quell’incompreso scrittore che si chiama A. Manzoni.
Troppo giusto! Allora vengono in moto cotesti inquisitori i quali dimostrano che il campanile è
caduto perchè non poteva rimanere in piedi per legge statica, che la battaglia fu perduta perchè i
nemici non avevano studiato strategia e logistica, che le alluvioni sono avvenute per legge
idrostatica giacchè le acque tendono al livello inferiore, che la banca è fallita perchè esiste una
matematica superiore applicata al denaro, la quale non è lecito spiegare nemmeno nelle alte
scuole di commercio, etc.
Queste ragioni, se anche per la loro sottigliezza poco soddisfacessero la publica opinione, ecco
sopraggiungere nuove calamità che fanno obliare le prime, richiedono nuove e più interessanti
inchieste e infine permettono alle cose umane il loro naturale andamento ed oblio.
Al prof. Gaudenzi — venendo al caso particolare — era in ispeciale modo affidata la conservazione
del patrimonio artistico-intellettuale della nazione del che egli teneva conto e ragguaglio
minutissimo e prezioso in un numero assolutamente innumerabile di schede, con cui dava alla luce
molte opere, opuscoli, relazioni.

***

Ma se io conoscevo tutti i suoi titoli accademici, ufficiali ecc. ignoravo tuttavia gli altri estremi della
sua fortuna.
Della quale ebbi piena contezza un giorno, in sull’ora della chiusura della biblioteca, chè mi scosse
un profumo fresco di donna elegante e un passo leggiero. L’egregio ed illustre uomo era
condannato a non poter sorridere se non stirando le labbra, ma questa volta, alla vista della
moglie, lo stiramento fu umile, sottomesso, voluttuoso come quello di un buon cane che si
accovaccia per farsi fare il solletico.
La signora aveva qualcosa da dire e da far valere e per quanto i molti libri le imponessero un certo
rispetto, non poterono far sì che l’amabile voce non suonasse, distinta con un erre di
indimenticabile vibrazione.
— Ma, mio caro, piove, piove a dirotto. Se non penso io alla tua salute, tu non ci pensi davvero!
Aveva con sè il pastrano e l’ombrello.
— Me lo sarei fatto prestare….
— Sì, ma il pardessous, mio caro, tu che soffri di bronchi…!
La figura della signora, come potevo giudicare guardandola di sottecchi, apparteneva al solito tipo
fisso delle donne professionalmente eleganti, ma di qualità superiore: solito ombrello aghiforme,
borsellino oblungo che occupava tutta l’attività di una mano; solita gonna disegnante e rilevante con arte procace le sinuosità della vita, indi le conseguenti sottoposte protuberanze; solito spazza-
strade di merletti multicolori, meritevole o di un premio o di un attestato di benemerenza da parte dell’edile cittadino, deputato alla pulizia stradale. Ma se questi luoghi comuni del vestire potevano
sembrare volgarucci di soverchio oramai, cioè quali si incontrano in ogni figlia di portinaia, essi
erano compensati da una notevole signorilità e leggiadria di forme non comune, le quali se dalla
moda ricevevano alcun manifesto risalto, avevano tuttavia nella natura il loro sostanziale
fondamento. Inoltre la legge uguale della moda aveva alcun particolare suggello in lei, di lei e della
sua feminilità. Io voglio dire che la dama in questione nell’armonia delle tinte, nella ricca
compitezza de’ particolari, nella sobrietà delle audacie aveva raggiunto quella linea difficilissima e
costosissima che costituisce il sommo buon gusto, differenzia la donna elegante dalla donna
galante, la donna della buona società dalla donna da ventura.
Il volto pallido, dalle linee belle e forti, apparteneva a quello stadio fisiologico della seconda
gioventù che è sconosciuta alle donne del buon popolo lavoratore; laddove è frequentissimo nelle
signore di razza: comincia dopo i trent’anni e si protrae spesso sin oltre i quaranta e in alcuni
organismi privilegiati sino verso i cinquanta, con una ben singolare stabilità che non permette
assolutamente di domandare: «Signora, quanti anni avete?»
Fui dunque costretto a formulare questo giudizio sintetico: «Moglie bella, giovane, premurosa,
elegante.» Ma dopo questo primo giudizio mi si presentò naturale la domanda: «Dove la è andata
a pescare?» La supposizione più semplice e conforme al vero fu la seguente: «Quando il prof.
Gaudenzi a quattordici anni era mio compagno di scuola, non aveva altro capitale che la cupa e
disperata tenacia di essere il primo a costo di imparare a memoria tutti i logaritmi, tutti i verbi greci
irregolari. Ad una certa età egli deve aver avuto la fine accortezza di mettere in batteria scoperta
tutte le sue qualità di savio e grande uomo in via di sviluppo, e così ha trovato moglie.»
Osserva, benevolo lettore: molti uomini che dettano legge nella vita degli altri uomini hanno il lor
fondamento in una donna-capitale, in una donna-coupon, in una donna-pozzo di S. Patrizio da cui
attingere. No! non è possibile dettare legge agli altri uomini se le miserabili, inconfessabili
necessità della vita giornaliera non sono ampiamente garantite!
Io stavo così fra me e me pensando e costruendo tali supposizioni quando l’egregio uomo ebbe la
cortese idea di farmi conoscere più compiutamente l’estensione della sua felicità.
Essendo la sala presso che deserta, il prof. Gaudenzi si avvicinò a me: — E vieni — mi disse — che ti
presento alla mia signora.
Mi alzai, fu fatta la presentazione, furono scambiate le parole d’uso.
Sulla porta della biblioteca mi attendeva una nuova sorpresa: tre bambini graduati in iscala
d’organo ma di una medesima candidezza e lucidezza, sotto la sorveglianza di una governante che
si avvistava a distanza di nazione svizzera e di così compiuta goffagine che pareva scelta ad arte per
far risaltare la signora. I tre bambini salutarono l’illustre uomo con l’appellativo soave di Papà! —
Furono tre squilli argentini di vario tuono che illuminarono il volto del prof. Gaudenzi di una
espressione molto affine al sorriso propriamente detto.
— Wie geht es dir?
— Wie geht es dir?
Così aveva suggerito la governante: così avevano ripetuto i tre figli dell’uomo a cui erano concessi
in custodia i capitali artistici ed intellettuali del Paese. Solo il più piccino si impaperò domandando
al babbo come stesse in lingua volgare: cosa che turbò molto l’amor proprio della governante.
Fui presentato, o, meglio, mi furono presentati tutti i componenti la famiglia.
— Lei è scapolo? — domandò allora la signora.
— Sì, signora.
— Male, ma è una diserzione sociale! Vero, amico mio, che è una diserzione sociale?
Il professore assentì blandamente.
— Quando è così, venga a prendere il tè a casa nostra: il buon esempio la aiuterà al gran passo.
Anche il professore insistette perchè mi recassi a prendere il tè a casa sua, nè io, stretto da tante
cortesie, potei rifiutare.
— Ho abituato mio marito assolutamente al tè — diceva la signora nell’andare — ma ce n’è voluto!
— Non è esatto: mi sono abituato benissimo — corresse l’uomo.
— In casa mia i liquori sono stati aboliti assolutamente. Oramai la igiene ha dimostrato che il
liquore è un medicinale; e anche il vino, veda, è in cantina aspettando gli ospiti e le occasioni di
qualche pranzo di carattere ufficiale, ma in famiglia sempre tè. Mrs. X***, una dama inglese, mia
buona amica, che risiede al Cairo da anni, me lo fornisce direttamente: una vera combinazione. E
veda: da che noi si fa uso del tè abbiamo abolito medicine e ricostituenti: mio marito che si
risentiva di qualche indisposizione, ora sta benissimo. Gli alcools, come lei sa, si trasmutano in
sostanze grasse e mio marito non ha veramente bisogno di ingrassare.
L’occhio del marito, perduto in quel momento dietro una qualche scheda, si fissò sulla moglie con
una tale espressione che ella virò di bordo. Ma siccome non esiste in natura la possibilità che una
donna tronchi di botto un suo discorso, così ella filò ancora, ma insinuantemente:
— Concederai che un po’ di moto ti farebbe bene!
— Devo girar tanto pel mio uffizio — disse a sua giusta ragione il prof. Gaudenzi.
— Sì, ma quando il cervello è preoccupato, tu sai bene che l’azione fisiologica dei muscoli rimane
paralizzata. La bicicletta, ad esempio, ti… farebbe benissimo.
L’uomo illustre fremette.
— Mio marito — proseguì quella elegantissima dama — ha una vera idiosincrasia per la bicicletta.
Per me invece, che vuole? è estetica, come trovo estetico l’automobile! Già io sono molto
moderna.
Il marito sostenne che la bicicletta è antiestetica.
La signora sostenne che se il suo illustre compagno avesse potuto scoprire in qualche codice che gli
antichi avevano fatto uso della bicicletta, la avrebbe senz’altro riconosciuta esteticissima.
Per mettere pace in questa divergenza di opinioni io, benchè appassionato cultore della bicicletta,
mi sforzai di ricondurre i due coniugi sul terreno comune e concorde del tè. Ma in compenso della
mia opera pacificatrice l’illustre uomo mi colpì con questa insinuazione beffarda:
— Io credo che tu anteponga il succo classico della vite!
Non ebbi tempo di correggere la malevole espressione che la signora sollevò col guanto una
esclamazione di orrore, e anche la governante o fräulein in omaggio alla natia cervogia, emise un
Pfui! significantissimo per suo conto.
Eravamo giunti.
Io fui presentato, per così dire, all’appartamento: fui presentato alla luce elettrica che lo illuminò
tutto all’improvviso: mi fu fatta fare la conoscenza del salottino della signora, una rivelazione
estetico-floreale, dalle luci voluttuosamente intonate, della stanza da pranzo — stile
compiutamente svizzero — infine siamo entrati nello studio dell’illustre uomo, sulla soglia del
quale la signora osservò col suo dolcissimo erre:
— Qui finisce il mio regno e comincia quello di mio marito: non si meravigli se trova della polvere,
ma qui tutto è verboten, guai a muovere un foglio, guai spostare una scheda!
— Una scheda molte volte è l’opera di un mese di ricerche! — avvertì l’insigne letterato; e siccome
questa notizia doveva essere a perfetta cognizione della signora, così debbo supporre che fosse
rivolta a me.
Le due grandi scansie di noce non potendo più contenere libri, carte, schede, ecc., avevano
riversato il superfluo su di una grande tavola dove raggiungevano altezze piramidali così da
obbligare il mio naso a volgersi in su.
Il chiaro uomo vide il mio naso rivolto in su e sospirò con tutta confidenza: — Un lavoro enorme,
mio caro!
— Ci vuole davvero tutta la memoria di mio marito per tener dietro a tante cose — confermò la
signora.
— Di’ il metodo e la costanza, oltre che la memoria.
— Oh, certamente il metodo! mio marito alle sei del mattino è in piedi, qui al lavoro, e allora
comincia la mia opera di pazienza e di sorveglianza; opera che non surge all’altezza della rinomanza
nè all’onore della gloria, ma come l’umile violetta sparge il suo profumo d’intorno. Bisogna intanto
sorvegliare che nessun rumore sia fatto intorno allo studio, che tutti gli abiti siano pronti, che i
bambini siano puliti, che la colazione sia all’ordine, perchè mio marito è in questo un tiranno
assoluto e terribile….
Quel tiranno e quel terribile furono pronunciati con tanta amabilità che la bocca del grande uomo,
solleticata, si stirò di traverso in una specie di dotto sorriso.
— Tiranno costituzionale, molto costituzionale — corresse.
— Costituzionale, ma sempre terribile!
— Ma tu stessa devi ammettere che se i miei ordini non fossero precisi, se non assoluti, sarebbe
impossibile attendere a tanta molteplicità di cose.
— Verissimo, però devi concedere che una collaboratrice più perfetta del tuo lavoro non l’avresti
potuto trovare.
— Questo è verissimo! — disse il marito.
— Aggiunga poi che la nostra casa è spesso un porto di mare — rincarò la signora — lettere,
postulanti, raccomandazioni, circolari, sollecitazioni, omaggi di libri e di opuscoli, dediche al caro
maestro, all’illustre professore: un vero ufficio di selezione e di corrispondenza che grava quasi
interamente sulle mie spalle. La celebrità è una gran cosa, ma sapesse quante noie si trascina
dietro! (Il grand’uomo taceva). A tutto questo poi aggiunga un’altra erculea fatica, quella di
mandare via la gente con bel modo anzi con la più exquise politesse.
Ora mentre io facevo da fonografo a questo scambio di cortesie coniugali, pensavo che fra tutti gli
articoli di proprietà del chiaro uomo, quello che destava maggiormente la mia ammirazione era la
sua signora.
Intanto il tè fumante in un samovar — Russia autentica — fu servito con tutto il cerimoniale dovuto
alla nobile bevanda nella sala da pranzo. Quivi la signora mi domandò con molta compitezza delle
mie opinioni artistiche, letterarie, politiche, sociali.
Io volevo rispondere cercando di contemperare, come meglio sapevo, l’omaggio alla verità e le
convenienze alla casa e alla dama, ma non ne ebbi tempo perchè l’uomo, facendo precedere le sue
parole da un sorriso che non lasciava sperare una gran lode, rispose per me:
— Il difetto del nostro buon amico è quello di seguire delle idee alquanto eterodosse e in politica e
in arte e in letteratura. Intendiamoci: io non dico, mio caro (evidentemente il prof. Gaudenzi era in
vena di generosità grande: mi regalava un intero discorso) che non si possano seguire anche le idee
eterodosse; queste anzi oggi portano più avanti, forse, che le idee ortodosse, benchè bisognerebbe
anche qui distinguere fra idee eterodosse e idee originali, ribelli, contro corrente, contro onda, e tu
mi hai l’aria di prediligere le idee di questa ultima categoria, le quali non hanno mai recato fortuna ai loro possessori. Il far parte «per se stesso» — come dice Dante — si deve interpretare quale cosa
spettante a lui solo, alla sua più che umana natura, non come massima applicabile alla vita se non
in qualità di ornamento poetico. (La distinzione era sottile: io per esempio da quando lo aveva dato
in custodia al professore di greco perchè imparasse tutti i verbi irregolari, non lo avrei mai creduto
capace di tanta sottigliezza: ma credi, o lettore, che nell’iniquo mondo l’abito del dottore molto
vale a formare il dottore! Poni il paltoniere in toga ed ermellino e in meno che tu non supponga
l’udrai pronunciare parole di non sospettata saviezza). Però — proseguì l’illustre mio amico —
anche nell’essere eterodosso, originale, ribelle alle convenienze ed alle convenzioni, ci vuole
metodo, metodo, metodo: disciplina, disciplina, disciplina; costanza, costanza, costanza! Per far
fortuna come ribelle bisogna essere un ribelle d’ordine. Pare un paradosso, e non l’è! E la verità è
questa che solo dall’ordine, dal metodo, dalla perseveranza nasce quella sottile scienza della vita
pratica in cui sta tanta parte del segreto della riuscita. Tu permetti, è vero, che ti faccia questa
modesta osservazione…?
— Figuratevi, anzi vi sono grato.
— Le tue buone qualità, come l’ingegno, il buon cuore, un certo studio che cosa ti hanno valso?
Ben poco. Alla tua età sei ancora un uccello sulla fronda!
— Ma bisogna prender moglie — disse la signora — bisogna prima formarsi uno stato, e poi il resto
verrà da sè. Il matrimonio per noi donne potrà forse essere una rinuncia; ma per voi uomini è una
condizione indispensabile per riuscire, è un diploma di serietà sociale. Sa quando mio marito
cominciò a fare qualche cosa sul serio? Dopo che prese moglie, dopo che fu sicuro della sua casa, e
poi tu stesso l’hai detto, è vero? «Una buona moglie, una casa ordinata formano l’oasi dove l’uomo
stanco si fornisce di forza e di fede per il cammino della vita!» e con questa raccomandazione di
prendere moglie al più presto possibile fui accomiatato o mi accomiatai, del che non ho sicura
memoria.

***

Io uscii di quella casa mortificato di troppo. Avevo preso una lezione o ripetizione della vita non
richiesta, e mi bruciava la pelle, appunto, perchè vi era molto di vero nelle cose da me udite, viste,
provate. Non che io sentissi rimorso di non aver preso moglie, di non aver casa, di essere uccel di
frasca! sciocchezze! o che mi dolessi dei miei peccati o dello scarso frutto che mi avea dato la vita a
cagione della invincibile mia refrattarietà. Se noi ci privassimo dell’esercizio dei nostri buoni
peccati, troppo sterili e grigi sarebbero questi giorni fuggitivi! Il peccato che non nuoce altrui ma
solo a se stesso, sarà molto perdonato da Dio, ancorchè ciò non sia detto per espresso negli
Evangeli! Dio! Sì lo so, questo nome non ha valore scientifico, ma è comodo ed è stata una gran
melanconica idea l’aver decretata l’abolizione di Dio.
Non io, dunque, ero pentito peccatorum meorum, ma ero afflitto nel vedere come anche la donna
seguisse la fortuna e si aggiogasse docile e lieta al carro del trionfatore. Degli onori, dei titoli, delle
opere, della sfera immensa d’azione del prof. Gaudenzi a me non importava un bel niente. Ma ciò
che mi dava amarezza era il vedere come costui fosse arrivato sino alla conquista della donna, cioè
di quel bene che, quando è bene, è il maggiore dei beni; o almeno permette all’uomo di sprezzare
tutti gli altri beni: e donna bella, elegante, ricca, intelligente (per quello che dà il sesso) graziosa,
accorta, decorativa in sommo grado, collaboratrice preziosissima della sua vita! A questa donna egli intanto ha saputo offrire il fascino di un nome autorevole e riverito come corrispettivo alla
pecunia della dote, e col nome la dignità di rappresentarlo, di sostituirlo, di reggere una casa
grande, bella, comoda, acquetando così la petulante irrequietezza muliebre in un cumulo di lavoro
che ne assorbe e soddisfa la congenita vanità.
Io? Io se volessi permettermi il lusso di una donna non avrei da offrirle nemmeno un posto sulla
mia bicicletta.
E mi ricordo che delle poche amanti che ebbi, se erano buone, intelligenti o pietose, erano — per
così esprimermi — antifisiologiche: se erano belle e piacenti, erano stupide e vane come pàpere:
se accennavano appena di possedere le due qualità della bellezza e del valore, mostravano così
grandi pretese da togliermi ogni ardimento.
Ma è più probabile che io sia stato pessimo intenditore dì donne, e invece di accusare esse è
meglio che accusi me. Di ogni merce conviene avere esperienza prima di giudicarne il valore e il
mercato.
Comunque si consideri la cosa essa era pur sempre sconfortante, e spiega la ragione perchè io me
la pigliassi ancora con l’Arte, idolatrata e perseguitata invano da me con così fremebondo amore.
L’Arte, pura Iddia, no, non porge come le femmine le mammelle alle labbra del prof. Gaudenzi e de’
suoi pari perchè se ne abbeverino, suggere egli non può per difetto di Natura che non volle: ma il
vibrione si è attaccato in qualche parte e succhia sangue e impingue e ingrassa e ne fa adorna sè, la
moglie, la casa. Egli specula, egli sa trarre frutto dal cimitero delle Muse!
O morto nella miseria e nella disperazione, tu, o Foscolo che rendesti la spada alla Fortuna fra le
britanniche nebbie grige; tu, Tasso, anima di luce e di sole all’ombra perfida del cenobio; tu,
Leopardi, sperso nel sogno del verde prato dell’asfodèlo lontano; e voi tutti eroi del pensiero, nobili
api che formaste il miele della vita; rosignoli che così dolcemente cantaste da far obliare ai tetri
umani il dolore e il mistero; viole e rose, che diffondeste senza mercede il profumo su questo
immane sepolcro della terra, voi…. voi pur giovate ai vivi dell’età pratica, maledetta fra le età.
Il vostro cimitero dà frutti a costoro!
Costoro, gli squallidi alchimisti, fanno analisi e filtri del vostro pensiero, del vostro cadavere:
contano le parole che voi avete adoperate, o nobili poeti: pesano e scompongono le vostre anime:
sottraggono, sommano e ne ricavano onori, reputazione, ricchezza.
Sì, sì! È vera la parola del fisiologo: la morte è necessaria alla vita, ma è anche vero che io avevo
ragione di essere seccatissimo.
E non avendo altro sfogo o conforto, bevevo aria pura e correvo in bicicletta e mi confortavo col
verbo plebeo ripetuto nel principio di questo racconto.
Il bisogno di ossigenarmi con una velocità anormale di quindici chilometri all’ora mi si presentava
come rimedio eccellente. In cotesta specie di frenesia ero giunto al punto da reputare inutilissimi
tutti gli studi, e la critica e la filosofia e la filologia e i romanzieri e i bibliofili e gli archeologi, ogni
dottrina insomma e ogni scienza. E poichè l’uomo si compiace che altri approvi e lodi le proprie idee ed io non trovavo nessuno che mi approvasse e lodasse, ma ero solo come l’uomo maledetto
della Bibbia, così mi rivolgevo alle cose e alla materia. E correndo lungo la riva del sonante mare,
buttavo al mare, al sole, al cielo un nome di romanziere, di filosofo, di erudito, di critico, e le
opinioni loro e le loro fatiche. E il mare, il sole, me lo respingevano sdegnosamente: «Sciocchezze!»
A questa prova resistevano solo alcuni pochi poeti, profeti e filosofi, specialmente quelli che meno
avevano scritto e più si erano astenuti dal formare sistemi e teorie. Dante, ad esempio, era
resistentissimo e, o suggestione o realtà, il fatto era che quando io buttavo contro il mare o contro
il cielo un verso di Dante, esso si integrava con la infinita natura come cosa che a lei appartenesse
veracemente.
O meraviglioso, o portentoso effetto!
Il mare, il cielo, i fiori sapevano i versi di Dante con perfettissima chiosa: essi tremavano nel vento,
galoppavano sulle onde, seguivano la bicicletta, palpitavano col canto degli innumeri musici della
natura; dal grillo al rosignolo. Oh, meraviglioso effetto che mi commoveva sino alle lagrime!
Se il prof. Gaudenzi avesse sentito nel suo pensiero balenare qualcosa di simile, lo avrebbe
indubbiamente trasmutato in dieci mila schede: tante quante i seguaci di Senofonte.
Così operando e pensando, io avevo trascurato la Biblioteca dove mi era già un tempo argomento
di conforto il conversare con le grandi anime antiche. Ora io ricercavo invece ansiosamente le vive
anime delle cose: i campi fioriti, il mar risonante, il cielo sereno al bel tempo novo della Primavera
che, dopo il chiuso inverno, era finalmente venuta rievocando nell’anima mia imagini adorne e
sbiadite.
E per mio riposo in quelle lunghe scorribande avevo scoperto, poco discosta dalla città,
un’osteriuzza, obliata e ignorata, un grazioso recesso di pampini verdi e a suo tempo di aiuole di
fragole. Quivi non solo c’era modo di fare una colazione rusticana eccellente ma anche di
aggiungervi una partita a scopa con l’oste col quale mi ero fatto amico. Vi capitavo sovente e fra gli
altri giorni in un limpidissimo venerdì di giugno, un venerdì luminoso, caldo, pieno di vibrazioni e
palpiti procreatori nella natura. I recessi tranquilli dei campi erano pieni di passeri che facevano la
ruota e il minuetto alle loro dame; molte antère delle piante sotto la forza del sole scoppiavano e
nugolette di pòlline erano librate nell’aria; gli insetti si aggiravano in così grande numero da credere
che quel giorno corrispondesse a qualche loro misterioso e sacro rito. Nel cortile solitario
dell’osteria era una vettura chiusa come un enigma e l’ostessa era in molte faccende davanti ai
fornelli.
— Avete forastieri? — domandai.
— Due signori di sopra — disse lei bonariamente.
— Sì, due signori, di cui uno porta le sottane — corresse il marito rivolgendosi a me. Indi rivolto
alla sua donna dicea: — Ed è tanto che te la canto in musica che di questi giri in casa mia non ne
voglio: dico bene o dico male?
Io non potei che lodare il suo sentimento di moralità.
— Oh, dunque….
— Prima di tutto parliamo piano — disse l’ostessa. — Intanto nessuno ti dice che sia un giro: per
me, sino a prova contraria, sono due sposini.
— Già per lei son sempre due sposini — disse sarcasticamente il marito.
— Se non lo sono, meriterebbero di esserlo! Lei, bella! Ma lui? Un cherubino. Cos’avrà? vent’anni!
E vedere come ci è morto dietro, le premure, le delicatezze, le grazie, i bei modi! come c’è
innebriato! sono cose che commuovono….
— Va là, vecchia carampana! — disse il marito.
— Bene so che un omaccio come te non ha più nessun sentimento. Oh, senta — si rivolgeva a me
— una di queste due costolette la voglio dare a lei. Sentirà che bontà! L’altra la accomodo in due.
Già loro non ci badano a quello che porto sul piatto; se è molto, se è poco, se è buono, se è cattivo.
E poi tu, ehi, tu? dà retta: il signore è di famiglia e si può parlar chiaro: se fossero i primi venuti
capisco anche i tuoi scrupoli, ma sono degli avventori che vengono ogni tanto, e avventori buoni.
Se non c’erano loro tutte quelle bottiglie di vino spumante a chi le avresti vendute? e il cognac? Ne
capitasse una al giorno di coppie come quella lì!
L’uomo alzò le spalle e mi stendeva davanti il tovagliolo: — Dopo facciamo la bottiglia a scopa?
— Ben volentieri, amico mio, oh, caspita, anche i tartufi!
La costoletta, sottratta all’agape amorosa e postami innanzi, era enorme e ostentava sul suo
frontispizio un’incrostazione gloriosa di tartufi, come il petto di un uomo ufficialmente illustre, in
un giorno solenne.
L’ostessa sorrise di compiacenza.
Ben tutti sanno che un cibo succolento ha virtù di eccitare il cervello in alcune sue parti onde
queste fanno secernere alle glandole a ciò deputate maggior quantità di succo gastrico. Ne
consegue che l’uomo, più a lungo che non soglia, si indugia presso la mensa.
Così avvenne a me in quel dì chè l’oste attese più del consueto che io fossi pronto per la partita a
scopa.
La bottiglia fu posta fra noi due e ce la disputammo accanitamente.
Un rumore di sonagli e di finimenti già accennava ogni tanto che la coppia amorosa si preparava
alla partenza; il cavallo fu attaccato e la carrozza andò a fermarsi bel bello davanti alla scala che era
in comunicazione con la cucina.
E il mio cuore era sospeso nell’attesa, nè sapevo il perchè.
Non molto dopo i due misteriosi amanti scendevano con grande cautela la scaletta di legno: si
sentiva un piede elegante scricchiolare: e il mio cuore era sospeso.
— Non c’è anima viva — accertò l’ostessa.
E allora — fatta sicura — una voce a me ben nota, se non che infinitamente umile e carezzevole di
figlia d’Eva sottomessa, sussurrò con un erre che mi tolse alle gote ogni flusso di sangue: — Ma lo
sai, Gastone, che io ho dei doveri, dei sacrosanti doveri?
Palpitò un bacio e la voce con l’erre tremò ridendo: — Bambino, bambino mio!
Ebbi a pena tempo di voltarmi che uno strascico setoso e spumoso di femina elegante scompariva
nella vettura chiusa.
Le ruote scricchiolarono nello svoltare, accelerarono il moto: un rumore che durò a lungo
nell’ardente silenzio meridiano: più nulla.
L’oste tendendo tutto l’acume del suo cerèbro nel difficile calcolo finale della scopa, io voglio dire
delle carte dispari e delle pari, non si era addato di nulla. E in fatti è calcolo acuto e richiede molta
attenzione.
— Se le carte sono mie, la bottiglia per quest’oggi la paga lei. — Contò e — Ventidue! — disse con
grande soddisfazione — Però se desidera far la rivincita non mi rifiuto.
— Sarà per un altro giorno, amico, tanto più che oggi è tardi.
— Come le pare.
Saldai lo scotto senza dare a vedere alcuna sollecitudine, ma a pena ebbi inforcata la bicicletta e
l’ebbi avviata con due nervose mosse di pedale, sclamai fra me: «Non sarà mai detto che una
carrozza possa aver ragione di una bicicletta!»
Ma il cavallo o non era di quelli comuni da piazza o la frusta doveva essere caduta con forza sulla
sua groppa perchè la vettura non appariva a nessuna svolta della strada.
E io spingevo il pedale con rabbia crescente fra un nugolo di polvere bianca.

***

Un pompiere che vede indizio di fuoco, un carabiniere che scorge il malandrino, un soldato che ode
il rombo del cannone, un ispettore dei monumenti governativi che osserva un campanile che
crolla, un purus grammaticus che s’abbatte in un errore, sono presi da un’agitazione vivissima: i tre
primi di solito accorrono, il terzo si affretta a stendere un rapporto, il quarto brandisce il lapis
azzurro, giacchè ognuno è portato naturalmente alla conservazione di ciò che reputa affidato alla
sua custodia. Perciò io che avevo per il passato studiato filosofia morale, mi sentii offeso da quel
tradimento: io che avevo per il passato avuto fortissimo il senso della conservazione sociale, fui
turbato da quella azione opposta e dissolvente della conservazione sociale. È vero che dopo sono diventato scettico, ma tenete a mente: se volete trovare ancora un’oncia di fede, andate da quelli
che portano per insegna: «Qui non si vende fede!» come se volete trovare ancora un bricciolo di
onestà, andate da quelli che dichiarano: «Io sono disonesto!» giacchè gli onesti e i credenti si
vergognano di avere i magazzini pieni di una merce che non ha più molto corso in commercio.
E come il vigile del fuoco tira il campanello del proprietario della dimora che arde, così io fui preso
dal bisogno di avvertire il proprietario che la sua moglie ardeva. Per dirgli che cosa? che la sua
moglie ardeva? No! ciò sarebbe stata cosa ridicola, ingenua e perfida: bensì per avvertire
quell’uomo savio e felice che una grande calamità, un grandissimo incendio avveniva nell’artistico e
sacro monumento della Morale.
Cotale incendio e devastazione mi aveva profondamente turbato ed afflitto. Avrebbe turbato ed
afflitto anche l’uomo che avea per suo ufficio la conservazione delle cose belle e buone? Quale
peso dava egli a questo gravissimo fatto?
Giacchè tutto il segreto del vivere è qui: possedere le bilance di precisione per giudicare dei fatti
umani e del loro valore alla stregua della praticità.
Questo, adunque, era l’annuncio: «Amico, un grande fatto avviene: crollano le torri, arde il
monumento della Morale!»
Veramente avrei dovuto dire «era arso!»
Ma bastava poi la somiglianza di un ineffabile erre per affermare che era la casa di Ucalegonte
quella che ardeva?
La più elementare prudenza consiglia in simili casi di usare le maggiori cautele. Dunque anzi tutto
era necessario esser sicuro che la dama fosse lei e non altra.
Fui in vista della carrozza un chilometro prima della città. Finalmente! Mi era nato persino il
sospetto che avesse svoltato per qualche via di traverso o si fosse fermata in qualche villa, perchè
mi pareva impossibile che un cavallo avesse potuto avanzare di tanto.
La carrozza eseguì una manovra abbastanza strana e misteriosa, ma però senza alcuna incertezza,
dalla qual cosa si poteva arguire che non era la prima volta che faceva quel viaggio in simili
condizioni.
Non entrò direttamente in città passando la barriera, ma prese per la via di circonvallazione
descrivendo un lungo arco finchè imboccò i cancelli del giardino publico e cominciò ad aggirarsi
rapidamente per i viali tortuosi e densi di ombra.
Il cocchiere due o tre volte si era voltato indietro con sospetto e ciò mi costrinse a deviare per un
altro di quegli intricati viali.
Così perdei la traccia della carrozza per qualche minuto, quando ad un certo punto fu la vettura
stessa che si incrociò con la mia bicicletta, ben lanciata.
Ebbi — confesso il mio pudore maschile — vergogna di spingere l’occhio dentro la vettura:
vergogna per lei.
«Le tendine sono abbassate!» ma non avea formato questo pensiero che la bicicletta passò dinanzi
alla vettura.
Le tendine non erano abbassate: in fondo era sdraiato un giovane, un bel giovane biondo — come
potei giudicare dall’attimo — uno di quei tanti tipi di stereotipa eleganza e fisonomia che
caratterizzano il ceto ricco e mondano.
E la dama?
Scomparsa.
Un uomo meno preoccupato del gravissimo disastro nel monumento della Morale, avrebbe
ragionato così: la dama è scomparsa perchè è smontata dalla vettura, è smontata dalla vettura
privata per prendere un innocuo calesse da piazza.
Se tu fai la posta davanti alla sua casa, la vedrai fra breve arrivare o a piedi o in carrozza e così
saprai per certo se è lei veramente.
Ma a mia giustificazione debbo dire che io dalla frase udita avevo ricevuto convinzione piena che
fosse lei, e perciò non tanto mi pungeva curiosità di avere per gli occhi maggior conferma, quanto
mi agitava la passione, il dolore di veder crollate a terra le nobilissime torri del più bello fra gli
edifici: quello della moralità della famiglia!
E tutto questo perchè?
Per effetto di una inoculazione di virtù subìta nei primi anni dell’adolescenza. È vero che dopo ho
studiato filosofia morale, anzi ne ebbi laurea di bacelliere. Ma non è stata tanto questa cresima
ufficiale, quanto il battesimo primo nell’antica casa paterna. Esso ha influito in ben mirabile modo
sull’animo mio e mi ha collocato in una tale posizione di rettitudine morale da accorgermi e da
addolorarmi inguaribilmente della stortura morale de’ miei fratelli in umanità.
Semel abbas semper abbas dicevasi un tempo di chi ha portato il collarino del prete; e colui che ha
nell’organismo certi principi opera pur sempre in modo impratico, inconsiderato, come accadde a
me in quel giorno.
Quando mi sono accorto di tale discrasia organica, ho cominciato una cura ricostituente e
depurativa, ma ohimè! con tutte le salsapariglie della negazione, dello scetticismo, del cinismo,
dell’ironia non sono riuscito ad espellere dall’organismo il virus della virtù.
O virtù, virus meraviglioso!
Erano le quattro e in una volata fui alla Biblioteca dove penetrai con impeto, con grandissimo
stupore del portinaio e del solenne peristilio.
Di ciò che feci, del modo con cui diedi l’annuncio del grave disastro non ho ricordo esatto: ricordo
però benissimo che nell’entrare nell’aula molte teste si levarono dai libri e concentrarono verso di
me le luci dei loro occhi e dei loro occhiali con intenzione punto benevola: ricordo che, vedendo
l’uomo, me gli sono accostato con certa foga così da rovesciargli sul tavolo un piccolo baluardo di
libri e da spargere sul tappeto un certo numero di schede: e sopra tutto mi ricordo di avere
balbettato delle parole dolorose e di sdegno.
Fu la voce calma del professore che mi fece tornare in me. Egli aveva deposto le schede e prese a
parlare e diceva pianamente: — Va bene: tu mi racconti che sei solito fare delle gite in bicicletta,
che questa mattina approfittando della favorevole stagione ti sei recato fuori in campagna a fare la
tua solita partita a scopa e che oggi invece sei stato disturbato da una coppia di innamorati….
— Un amore illecito….
— E credi che ciò mi sorprenda? Ma sappilo che di mogli licenziose e di gioventù mondana e
scioperata pur troppo nè oggi nè mai si ebbe a patire scarsezza. Anche il giocare a scopa è un
piacevole esercizio non eccedendo, benchè siano occupazioni poco conformi all’abito che tu rivesti.
Ma io ti domando se è il caso che tu scelga questo luogo e questo momento per venirmi a
raccontare….
— È che…. — balbettai io — si tratta di uno di quei fatti gravi che sconvolgono le basi della morale
e della famiglia e turbano così profondamente che non si può tacere.
— Verissimo — rispose l’uomo savio e pacato — ma sono di quei casi che quando non ci toccano in
via personale, non si levano dalla importanza di un semplice fatto di cronaca, dei quali io non sono
punto curioso, anche trattandosi di conoscenti come pare il caso a cui tu accenni così poco
opportunamente. A dispetto di questi fatti di cronaca che sono sempre avvenuti, la famiglia è
esistita ed esisterà sempre e l’edificio della morale non crollerà, credilo.
— Ma quale morale? — chiesi io.
— Quella scritta sulle dodici tavole eterne del buon senso — rispose l’uomo, e aggiunse in tuono di
ammaestramento pacato — Fra la morale scritta e la morale pratica, tra il paragrafo del codice e la
realtà esiste un tacito accordo che bisogna avere la fortuna di comprendere subito a pena si entra
nell’onore del mondo se si vuol vivere bene ed in pace.
Ma sai tu che se fra le persone di buon senso non si comprendesse questo tacito accordo, la vita
sarebbe una tempesta, una pena, una battaglia senza fine? E poi la donna che tu condanni, è essa
veramente colpevole? Tu che ti diletti di filosofia, non devi ignorare che i fatti umani sono di così
complessa natura, esiste un così delicato intreccio di forze opposte che non sempre è prudente,
spesso anche non è giusto condannare anche nei casi dove la colpa appare manifesta.
Queste parole di ammaestramento cadevano sulla mia inguaribile ignoranza e me ne stavo lì
inchiodato sulla sedia a sentir la predica senza risponder più verbo, tanto che non udii la
campanella del fine nè vidi la gente che andava via: ma quando un passo lieve e una voce
carezzosa con l’erre si fece sentire presso di me, saltai in piedi come di scatto.
— Ma che carattere impressionabile! — disse lui.
— Prego, stia comodo — mi disse la signora e rivolta al marito aggiunse: — Guarda che sei proprio
l’ultimo. Beata distrazione!
— Stavo facendo una ramanzina all’amico — disse il professore — e questa volta proprio sul serio.
— Le ramanzine di mio marito sono terribili — disse la signora e pronunciò quel «terribili» con quel
suo erre affascinante e inimitabile che mi risuonava ancora nel cuore per la frase udita breve ora
innanzi. — Ma io — proseguì abbassando il lorgnon sino a squadrare la punta dei miei stivali — ma
io indovino subito quale è la causa della ramanzina di mio marito. Lei è ciclista, vero? Sappia che
mio marito, che pure è incapace di odiare, odia ferocemente il ciclismo.
— Elvira!
— Confessalo, tu lo odii….
— Io non ho mai detto simili leggerezze di odiare il ciclismo: ho detto e affermo che questa frenesia
per lo sport eccede i limiti del buono e normale esercizio fisico.
— E io invece — disse garbatamente la signora — sarei felicissima che tu imparassi a montare in
macchina; si farebbero delle gite in campagna, con dei tête-à-tête graziosissimi, specialmente in
giorni così belli come questo; e gioverebbe anche a diminuire quel certo embonpoint che non
forma la tua qualità più spiccata. Consulta un medico e ti dirà se io ho ragione.
***
E quando uscimmo dall’aula trovammo la solita fila dei tre bambini di cui la signora in cinque anni
di matrimonio avea onorato il signor marito.

 

IL TRIONFO DELLE ROSE

Il trionfo di Mimì che amava tanto le rose, è nella sua umiltà fra i più gloriosi di cui io abbia
ricordanza.
Come eravate magra! Tutta occhi, tutta capelli, tutta tristizia, tutta bei denti bianchi! Diafana e
preziosa anche allora come una perla!
Il mio amore per voi fu una di quelle febbri acute dei vent’anni che non si dimenticano più!
La colpa di questo innamoramento, oltre che dell’età, fu un po’ di Giovanni Boccacci dove ragiona
della rara bellezza delle donne Bolognesi e un po’ di Olindo Guerrini che aveva spiegato in un suo
fresco idillio il gran mistero de’ bei piedini così ben calzati, verso che pareva fatto con speciale deferenza verso di voi.
Comunque, o Giovanni Boccacci o Olindo Guerrini, la verità è che io mi innamorai di voi in così
pazzo modo che se voi m’aveste assicurato di essere la Venere di Milo, Giovanna d’Arco, Isotta,
Aspasia, Maria Vergine, vi avrei creduto senz’altro su la parola.
In qualche libro francese avevate imparato a bere l’assenzio: e voi lo insegnaste a bere a me.
Non dirò che io ci provassi una speciale soddisfazione a sentirmi bruciare lo stomaco, ma voi
dicevate che era molto piacevole e nobile cosa bere e intossicarsi con l’assenzio, ed io figuratevi!
bevevo.
Macchè! Voi non dicevate di essere nè Venere, nè Aspasia, nè Giovanna; ma semplicemente la
povera Mimì, cioè una piccola gracile creatura dicevate voi di essere, destinata fra poco a morire
etica. Etica! Una cosa deliziosa; morire etica a vent’un anno (allora, scusate, avevate due anni più
di me)! Anzi questa vostra carriera dell’etisia vi commoveva tanto che componeste persino uno
stornello:

fiorin di rosa,
me lo prometti, di’ me lo prometti
di portarmi dei fiori alla Certosa?

Allora, cioè più che tre lustri or sono, non era alla cognizione publica nessuna cura sieroterapeutica
contro la tubercolosi: i sanatori non erano di moda e perciò gli etici, compresa Mimì, erano
destinati a morte lenta ma sicura, ed agli amanti non restava che di piangere amaramente la
perduta compagna. Pianto nel cuore se non pianto su gli occhi mi germogliava vedendo (andavamo
lenti, soli, obliosi dell’ora) sotto il colle fiorito di S. Luca, biancheggiare la Certosa, la città dei morti!
Lì i vostri bei piedini sarebbero rimasti immobili! Oh, mi aveste comandato di morire per voi! mi
aveste comandato di farvi sposa all’altare prima del sopraggiungere della morte! Certo se così
aveste comandato, io vi avrei risposto, come già Lancilotto alla regina Ginevra: «Gran mercè,
dama!»
No! Voi non domandavate così grandi sacrifici nè tanta prova d’amore eroico: per il presente non
domandavate che qualche umile colazione nelle trattorie suburbane dove le sottili, patrie
tagliatelle pasticciate scomparivano sorbite a pena da’ bei labbri a cuore di molle corallo; e per
l’avvenire molte, molte rose per la vostra prossima tomba in cimitero. Voi mi tessevate frattanto
tutta la mia futura vita; felice, ricca, lunga! Non mi invidiavate, non ne eravate gelosa purchè mi
fossi ricordato del vostro stornello e della funerea promessa delle rose.

***

Ebbene no, piccola Mimì! voi non siete morta etica nè in altro modo. O non avete voluto o non
avete potuto.
Me ne duole per le rose e pe’ fiori, e ne godo per voi.
Io da quel tempo — e ne son passati degli anni — ho avuto tante cose da fare che ho dimenticato
le rose, i piedini così ben calzati, gli stornelli, la tisi, l’assenzio (quello ne’ calici, si intende, giacchè
dell’altro assenzio ne ho bevuto sino all’intossicazione) e avrei dimenticato anche voi se voi non
aveste pensato a far noto il vostro nome. Esso dopo alcun tempo mi è corso sott’occhio in qualche
manifesto di commedia: un posto umile, ma comunque una posizione sociale ben determinata,
cosa che non accade a tutti e specialmente alle donne. Ma, benchè mutate in meglio le sorti e
datavi alla nobile arte del recitare, siete rimasta fedele alle vostre antiche abitudini; alle tagliatelle
in ispecie.
Il cameriere del caffè X*** quando, o cara errante, ritornate in Bologna dopo qualche
peregrinazione artistica, presenta a voi, che sedete placida fra i vostri compagni e compagne in
guitterìa — di cui quivi è gran ritrovo — il piattellino delle tagliatelle raccomandate invece delle
rose su la tomba. Capisco, era più igienico e nutriente. Avete fatto bene, piccola Mimì, a preferire
le tagliatelle. Ciò vi ha conservato. Voi siete rimasta la stessa: magrolina, picciolina, palliduccia, co’
begli occhi tondi neri e i bei denti bianchi.
La morte per etisia non ne ha voluto sapere di voi. Il tempo vi ha sfiorato a pena col piumino della
cipria. Capelli bianchi? No! col piumino della cipria che vi dà la parvenza e il profumo delicato d’un
mazzolino di violette, un po’ languide. La tisi è stata interamente fugata. E avete fatto bene. Finchè la tisi era una malattia per così dire ideale, immateriale, si poteva anche essere etici
favorevolmente: ma dacchè la tisi si mutò in concreti orribili bacilli o vermiciattoli, notoriamente
infettivi, voi avete dato prova di senno a non volerne più sapere.
Il signor Koch, co’ suoi bactèri omonimi, ha contribuito a sconfiggere le ultime trincee del
romanticismo elegiaco più di ogni violenta diatriba filosofica.
Con la vostra compagnia guittesca attorno ad un felice istrione, vi siete spinta sino a Parigi, cara
Mimì, e in quella città dalle bellezze famose e trionfali, voi avete ottenuto un successo, e non di
stima soltanto: ciò vi fa onore. Siete tornata in patria, fedele bensì alle natie tagliatelle ed ai
piacevoli conversari del Caffè X***, ma, senza volerlo, la vostra abituale modestia ha subìto alcuna
variazione di tenue e pretensiosa dignità.
Piccola cosa che non vi nuoce punto, anzi vi torna a ben meritata lode. Parigi vi ha convertita
all’ultimo stile: prima erano timidi, vaghi accenni, ma ora è sinfonia spiegata e piena. Oggi la vostra
conversione all’ultimo stile è completa. Siete florealmente stilizzata, piccola Mimì, e non vi
disconviene.
Ai miei tempi, quando fiorivano le violette sul colle di S. Luca o quando venivate meco a S.
Giovanni in Monte

a sentir la tromba
sonar la ritirata

voi non portavate che un anello al dito medio, fatto di un vile chiodo di nero ferro ritorto. Allora
usava così. Oggi le vostre dita sono nascoste sotto una fila di anelli e di pietre di vario colore,
splendore e valore: avete imparato un fare languido, calmo (ricordate un tempo come eravate
nervosa e stramba?) e signorile: la vostra piccola figurina si innalza sopra la liliale foggia di una gran
gonna a strascico; e i vostri magnifici turbolenti capelli neri si sono acconciati a quella composta
pettinatura che è detta verginale e che le gran mondane hanno, con molto acuto senso di
contrasto erotico, adottata.
Che più? Il buon genio che ha presieduto alla vostra vita, vi ha concesso tanto di giovinezza dello
spirito oltre che delle forme da prendere sul serio tutti i non forse, tutti i luminosi vocaboli che oggi
sono di moda. Oggi anche voi parlate raro con atti soavi.
Ma nel segreto del vostro cuore credetelo, piccola Mimì, senza avervene a male, voi siete rimasta
sempre quella buona e piacevole figliuola che eravate prima, fedele in segreto alle vostre antiche
abitudini e specialmente alle tagliatelle pasticciate ed ai ciccioli caldi.
Cotesta cura, aiutata da uno stomaco eccellente, è stata sovrana contro le rughe ed è valsa quanto
il migliore cold-cream.
Io non so se ancora abbiate la melanconia di comporre versi, ma oserei scommettere che vi
permettete ancora il lusso di innamorare di voi qualche imberbe ed ingenuo giovanetto a cui
mormorate ancora, chi sa, forse sul serio e ben persuasa voi stessa:

fiorin di rosa,
me lo prometti, di’ me lo prometti
di portarmi dei fiori alla Certosa?

Giacchè la morte, anche se non di tisi, è pur sempre un’ottima droga nella confezione dei colloqui
d’amore!
Innocente e cara menzogna alla fin fine; e se sul vostro passivo non avete altre colpe, Iddio si
ricorderà benevolmente di voi quando vi dovrà giudicare.
Nè credo proprio che abbiate altre colpe gravi! Avete violato la fede giurata? Avete fatto saltare le
cervella agli amanti? Avete distrutto patrimoni? Avete tentato di impiccare alcuno con astuzie e
pretese di matrimonio? No, nulla di tutto questo e sì che lo potevate, anzi da onesta e buona
figliuola avete, per quello che io ho di memoria, sempre consigliato agli amici di andare ad
impiccarsi altrove.
Un gaio genio ha presieduto alla vostra vita e Iddio avrà molti riguardi per voi come ne hanno tutti
quelli che vi conoscono.
Non rabbrividite! Se quel giorno è inevitabile, se la morte che così di sovente invocaste, è fatale —
essa è pur molto lontana da voi: essa vi lascierà ancora tanto di giovinezza che dopo lo stile
floreale, sopravenendo un nuovo stile, voi ne possiate assumere le parvenze e il costume.
E infine?
Infine non mi meraviglierei che mi capitasse un bel giorno il vostro avviso di nozze e che voi direste
agli amici e alle amiche: «Ora basta. Bisogna che mi metta proprio sul serio!»

 

IL TRIONFO DI PUCCÌN

— Quanti figli avete?
— Due, cioè, veramente, ve ne sarebbe un terzo, anzi una terza — ma questo cioè con quel che
segue, era oramai più pensato che espresso da Almerigo Crosio.

***

Perchè avveniva questo fenomeno strano e doloroso: nel ricordare il numero dei rampolli destinati
a consegnare il proprio nome alla posterità, Almerigo Crosio non provava nessuna di quelle
vibrazioni di gioia che la natura sente nell’atto in cui si estende e propaga.
Il concetto antico del favore di Giove e della benedizione del Signore sotto la specie di una prole
numerosa e sana, non penetrava gioiosamente più nel cervello di Almerigo Crosio, cittadino
moderno.
Non si nega anche oggi la benedizione del Signore. Si dice soltanto che ai tempi che corrono questa
benedizione si accompagna con troppo amore del signor Agente delle imposte, il quale a sua volta
ha un interminabile corteo di impicci, di spese, di nuovi e costosi servizi. Ecco perchè l’antica
benedizione del Signore non è più accolta gioiosamente, ed ecco la ragione per cui Puccìn, terza
figlia di Almerigo Crosio, a tre anni era ancora a balia.
***

Negli antichi tempi entrava, invece, soltanto la benedizione del Signore.
L’incubatrice, il ginecologo, la pediatria, la pedagogia, i poppatoi razionali non erano stati inventati.
In quegli antichi, anzi remotissimi tempi, il buon centauro Chirone, benchè non avesse nessuna
patente di scuola, forniva egregi precetti di morale e di fisica applicata alla fisiologia, e, quel che è
più, non domandava stipendio, anzi faceva altresì da bambinaia reggendo sul bel dorso equino i
pargoletti: la qual cosa avvenne ad Achille che ebbe tutta l’istruzione gratis come si legge nell’Oda
dell’abate Parini. E se per caso mancava la balia, senza ricorrere ai poppatoi tedeschi, ci pensava la lupa, come intervenne a Romolo e Remo; o pure ci pensavano le nobilissime api d’oro a distillare il miele su le labbra degli infanti.
Ed è per queste ragioni che gli antichi raggiungevano nel procreare delle epiche meraviglie.
Danao ebbe cinquanta figlie che diedero il primo esempio storico di nequizia muliebre, uccidendo
in una notte i loro cinquanta mariti.
Priamo procreò quasi tutto l’esercito combattente contro l’implacabile Achille.
Giove dava il buon esempio nel mettere al mondo dei e dee, ninfe ed eroi, cui non bastava la
fecondità di Giunone — questa Zantippe celeste, dalle bianche braccia e dall’iroso cuore.
Anche i patriarchi biblici non erano inferiori in gioia ed in facoltà procreatrici.
Vero è che allora si trattava di propagare la specie su la superficie della vasta e deserta terra, e
perciò più figli si mettevano al mondo e più grande era la benedizione.
Oggi invece il signor Agente delle imposte, fornito delle sue implacabili misure, conta i metri cubi
d’aria di cui è capace il vostro appartamento, e tassa in proporzione.

***

Questa tassa, tradotta in buon volgare, vuol dire: «meno figliuoli fate e meglio è: meno bocche
respiranti e più benedizione!
Non la volete capire? siamo in troppi, anzi troppissimi e perciò tasse da scorticare ai procreatori
eccessivi e legali!»
Voi, ingenuo, rispondete: «ma dove se ne va allora la santità della famiglia, che voi legislatori
proclamate, senza figliuoli?»
Ma il signor Agente delle imposte col linguaggio pratico delle sue bollette vi spiega che la santità
della famiglia è sovente una frase decorativa dei codici e dei testi della morale, un epitheton
ornans come dicono i rètori.
Il fatto è ben diverso.
Ed ecco la ragione perchè quando Puccìn si presentò sull’orizzonte della vita, entrò bensì nel
bell’appartamento di Almerigo Crosio una provetta levatrice con tutta l’antisepsi voluta dalla
scienza; ma non venne la fede, non venne l’esultanza.
Almerigo Crosio in quel giorno ricordò melanconicamente il tempo lontano quando nella sua casa
era comparso il primogenito, ed egli, nella notte della natività, aveva scritto queste parole in un
albo: «Il Signore è venuto a visitarci. È un bambino!» E lo strillo di quell’essere minuscolo che, appena strappato dalle viscere materne alla luce, si era acceso alla vita ed alla luce, gli suonò nel cuore come una benedizione: esso fece palpitare e fremere tutte le sue viscere d’uomo e scrisse ancora:
«Sii buono, sii puro, sii bello! Iddio si manifesta con la bontà, con la purità, con la bellezza. Ore tre
di notte!»
Ed era una cupa notte d’inverno.
Nella stanza della natività la fiamma — vigile — cantava: i lini attorno alla fiamma del focolare
splendevano come il vessillo d’una idea pura e buona! Almerigo Crosio benedisse la compagna
della sua vita e invocò la purità anche su di lei, su di sè, su tutto, purità come la neve che cadeva in
quella silenziosa, cupa notte d’inverno.
Fu cercato un nome venerato e fu imposto al pargoletto.
***

Il secondo nato capitò al mondo con tanta disinvoltura, con gli occhi aperti e i pugni serrati, come
se ci fosse stato altre volte. Reclamò subito con uno strillo i suoi diritti in questi termini: «Non è
pronta la colazione?» Una attonita e ben fornita balia friulana, lì pronta, offerse il caffè-latte caldo
all’impaziente, nuovo abitatore del mondo.
Crosio non scrisse nulla nell’albo.
Molteplici possono essere le cause:
o il rapido progresso delle idee materialiste trovava non più razionale l’invocazione di Dio;
o la purità invocata dal cielo era stata invocata invano (il primogenito, già settenne, era un bambino
terribilmente inclinato a insudiciarsi e a insudiciare);
o l’attrito della vita aveva spente o congelate certe gentili fioriture dell’animo da cui si ricava il
prezioso elisire noto col nome di Fede, che non è soltanto quella che si accende in chiesa.
Il fatto è che Almerigo Crosio non scrisse nulla nell’albo.
***

Ma quando comparve la terza creatura, Crosio pensò che la sua signora provvedeva con troppo
entusiasmo alla conservazione della sua stirpe, una stirpe che non valeva troppo di più di quella di
un altro, anzi che avrebbe potuto anche non essere conservata senza danno della umanità.
Non che Crosio fosse filosofo di professione o desiderasse finire con sè. Crosio era anzi uomo di
affari. Ma appunto l’abitudine di considerare le cose del mondo sempre come un affare, può indurre
talora alle stesse conclusioni pessimiste e terribili come se si fosse filosofi.
Di queste considerazioni chi ne sofferse gli effetti fu Giuseppa, la neonata, la innocente!
Con tanta abbondanza di bei nomi muliebri che oggi l’estetica regala alle donne, fu imposto alla
innocente questo volgarissimo nome di Giuseppa, tolto al calendario nel dì della nascita.
Invano il piccolo essere, dai lini ove era stato posato, faceva capire con due grandi occhi attoniti e
aperti, che anche ella avea diritto al caffè-latte in famiglia: invano protestava con acute strida che
sarebbe stata buona, ubbidiente, e non sarebbe cresciuta proterva, svogliata come i suoi fratelli.
Le proteste non furono accolte.
Il fagottino di quattro chili fu portato via da una robusta balia campagnuola, e non se ne parlò più.

***

Almerigo Crosio si ricordava di avere una figliuola quando scadeva il baliatico alla fine del mese.
D’altronde la sua coscienza era tranquilla.
Non solo la balia era eccellente; ma il balio pure. Il quale, oltre che benestante campagnuolo, era
anche letterato.
Ogni mese costui elaborava una lettera invariabilmente di quattro pagine con un carattere denso
ed irto come quello di un palimsesto, firmata Prosdocimi, nella quale lettera Crosio cercava una
sola frase, cioè questa: «la bambina sta bene».
Ma siccome questa frase richiedeva una ricerca ed uno studio di interpretazione non breve e non
facile, e d’altra parte la lettera veniva per se stessa a significare «la bimba sta bene», e le
occupazioni e gli affari erano tanti, così Crosio finì con lo scorrere a pena quel difficile documento.
Ma oltre che scrittore, il balio si rivelò un bel giorno eccellente oratore.
Chè un giorno Crosio sentì nell’anticamera del suo studio la voce di un tale che domandava
udienza.
— Voi siete? — chiese Almerigo Crosio inquadrandosi duramente sull’uscio.
— Io sono il balio, per servirla.
— Ah, Prosdocimi! Scusate, non vi ravvisavo!
— Sissignore, Piero Medici, o Medici Piero, come si dice adesso.
— Benissimo, accomodatevi, amico mio: io ho sempre letto «Prosdocimi», ma non importa. E Piero Medici fu fatto entrare e adagiare in una poltrona.
— Dunque la bambina sta bene?
— Puccìn adesso sta benone.
— E chi è questo Puccìn?
— La sua bambina. Noi l’abbiamo sempre chiamata così: Puccìn!
Così infatti: Da Giuseppa, Giuseppina: da Giuseppina, Beppa, Beppuccia, Puccia, quindi
maschilizzando come suole talora il popolo i nomi di donna, era venuto fuori un villereccio Puccìn.
Tutto ciò adesso era chiarissimo, e spiegava ad Almerigo Crosio il perchè e il vero significato di una
parola ricorrente in quelle perfide epistole, parola di cui aveva rinunciato a comprendere il senso,
cioè Puccìn.
— Benissimo, benissimo — fece Almerigo Crosio — oh, che forse è stata ammalata?
— In fin di vita.
— E non mi avete scritto niente? — domandò Almerigo Crosio levandosi in piedi con volto adirato.
— Come? Io non le ho scritto niente? Io ho scritto tutto — disse Piero Medici liberandosi a fatica
dalla poltrona, in piedi anche lui.
Il volto sbarbato di quel villano esprimeva una così schietta indignazione che Crosio tacque.
— Noi abbiamo scritto tutto — ripetè Piero Medici con voce trionfale — e li aspettavamo di giorno
in giorno perchè venissero a vedere la loro bambina. Abbiamo colpa noi se loro non sono venuti?
Puccìn — proseguì con gran copia di mimica Piero Medici — era ridotta bianca come quella carta,
pesava come un passerino morto e non si vedevano di vivo se non gli occhi: la sua pelle cascava
come questa qui (e Piero Medici fece saltare su la palma la borsa vuota del tabacco). Lo sappiamo
io e mia moglie quello che abbiam fatto per Puccìn! E il medico due volte al giorno! La gente veniva
per vedere il miracolo della bambina che non moriva. Io per badarla e portarla (non voleva stare
che in braccio) ho perso un mese buono di lavoro; e la pazienza di ubbidire agli ordini del medico la
dice poco, lei? Perchè sa chi l’ha salvata? Il medico. Lui ha detto:
«Se state alle mie ordinazioni Puccìn vive, e se no schiavo!»
E ha ordinato una gran pulizia, un gran dare aria, lavare tutto, tutto misurato, e stare attenti giorno
e notte. La gente diceva che eravamo matti a dar retta a tutte quelle sciocchezze del medico e che
la bambina sarebbe morta lo stesso. Ma ora che vedono Puccìn rifatta, e che è un fiore, un botton
di rosa, un giglio puro, non dicono mica più così! La Befana da un mese gli ha portato il regalo:
Puccìn si è staccata e cammina da per sè. Crosio ebbe la pazienza di ascoltare l’interminabile sproloquio a proposito di un’innocua diarrea
infantile; infine domandò: — Le vostre spese saranno molte?
— Oh, molte, molte, molte! — disse il villano sornione dondolando il capo.
— E avete fatto un conto approssimativo?
— Io, compreso il medico, comprese le medicine….
— Comprese le giornate di lavoro…. — aggiunse Crosio sardonicamente.
— Comprese le giornate di lavoro perdute — ripetè con imperturbabile serietà Piero Medici —
compresa la disgrazia di un vitello che mi è morto in quella circostanza, perchè non ci ho potuto
badare e se ci badavo non moriva….
— Ebbene, compreso anche il vitello?
— Compreso il vitello, io ho tirato una somma di trecento lire, soldo più soldo meno.
A questo punto ebbe fine il discorso di Piero Medici e a questo punto si turbò, ma fu un istante.
Crosio lo vide levarsi in piedi, prendere un’aria risoluta, levar dalla tasca interna della giacchetta
non la distinta delle spese, ma una gran borsa piena d’argento che posò fieramente sul tavolo.
— Senta — disse Piero Medici risolutamente — io le abbuono le trecento lire, le abbuono il
baliatico, le regalo questa qui e lei ci lascia Puccìn!
Era detto!
Almerigo Crosio quando capì, scoppiò in una risata così allegra come da anni non aveva mai riso.
E come rideva così il volto di Piero Medici si abbuiava e si confondeva: l’uomo sentiva di diventar
piccino e finì col rifugiarsi ancora nella poltrona.
— Dunque lei non accetta? — chiese infine. — E noi che eravamo così sicuri che lei avrebbe
accettato!
— Ma volete che io venda i miei figliuoli? O che li pigliate voi per capretti, per vitelli, per galline?
Ma non ebbe voglia di ridere ancora: Almerigo Crosio pensò e si intenerì, prese l’aspra mano di
Piero Medici e la strinse affettuosamente.
— Ah, Puccìn! dover perdere Puccìn! — ripeteva il villano. — Me lo lascino almeno per un
altr’anno, povera Puccìn; tanto da vederla grande!
***

E fu così che Puccìn rimase a balia sino ai tre anni e da allora Almerigo Crosio lesse le lettere di
Piero Medici e qualche volta pensò alla derelitta Puccìn.
***

Dopo un anno Almerigo Crosio si decise di andare a prendere cotesta sua figliuola, e ricondurla a
casa e farla pari nei diritti e negli agi di cui godevano gli altri due fratelli: i quali è cosa dubbia se
avrebbero spontaneamente accettato di suddividere in tre quel caffè e latte eccellente che prima
era solamente per due.
Ben conveniva risolversi a questo passo chè tanto valeva in simile caso accogliere la proposta
venale di Piero Medici.
Il quale doveva essere un perfetto gentiluomo come si accorse Almerigo Crosio quando notò il
modo come era stata allevata Puccìn, e la moglie di lui doveva essere una gentildonna, e di gran
cuore ambedue, sì grande fu la pena loro nello staccarsi da Puccìn!
È dolorosa cosa dovere constatare come si possa essere gentiluomini autentici anche non essendo
passati attraverso il costoso e complicato macchinario che serve ad elaborare gli uomini civili.
Il dogma dell’alfabeto obbligatorio come ne soffrirebbe se il suo orgoglio gli permettesse di
riconoscere questa verità!

***

In un bel giorno d’aprile Almerigo Crosio si mosse per andare a prendere questa sua abbandonata
bambina.
Alla soglia della casa rustica Almerigo Crosio era atteso.
Piero Medici e sua moglie avevano in mezzo una bambina con i capelli biondi, ben pettinati e
spartiti, e con le sottanine ben rosse.
— Quello lì è il papà! — disse Piero Medici additando il sopraggiunto, con un fremito nella voce.
— Quello lì il papà? — domandò dolcemente Puccìn.
— Sì, sono io il papà — confermò Crosio piegando le ginocchia per mettersi all’altezza del volto di
Puccìn.
Puccìn a questa affermazione credette docilmente: congiunse e sporse i labbruzzi.
— Le vuol dare un bacio — avvertì la balia — non vede?
Allora Almerigo Crosio accostò la dura pelle del suo volto e sentì premere contro di sè, come un
suggello di purità, la delicata freschezza di quel volto di raso che vedea, si può dire, per la prima
volta.

— Ma mi conosce? — domandò Almerigo Crosio levandosi in piedi e voleva dire: «La bambina sa
che ha un babbo e una mamma che non siete voi?»
— Sicuro, li conosce tutti! — rispose la balia — Vuol sentire? Puccìn, dove è il papà?
— A Venezia!
— Dov’è la mamma?
— Di sopra.
— Perchè di sopra? — domandò Almerigo Crosio.
— Perchè c’è un ritratto della Madonna della Seggiola e le abbiamo dato da intendere che quella è
la mamma.
— E Pio e Mondino (erano i nomi dei fratelli) dove sono?
— Tutti a Venezia! — rispose con voce dolce e pacata Puccìn.
***

Avete voi mai posto mente alla voce dei bimbi fra i due ed i tre anni, quando cominciano a far le
prime prove dei suoni delle parole? quando le loro movenze hanno grazie inaspettate e veramente
meravigliose come se dentro si agitasse una prima anima pura, la quale per non far morire il nato
dall’uomo e dalla donna, muore essa anima pura e lascia quindi il posto a quell’anima seconda e
diverse che è quella che maturerà con gli anni?
Allora, in quei fuggitivi anni, la voce infantile contiene un’eco come — per porgere alcun paragone
— la voce del ventriloquo. Pare cioè che provenga di lontano: e nella sua semplicità ha fioriture e
vaghezze di linguaggio simbolico.

***
Almerigo Crosio seguitando il discorso, domandò:
— E tu vuoi venire a Venezia?
— Non si dice «voglio» — corresse Puccìn — ma si dice: «per piacere!»
I balii sorrisero e spiegarono che avevano insegnato a Puccìn che non si deve mai dire «voglio» ma
sempre «per piacere!»
— Perchè non si deve dir «voglio?» — domandò il balio.
Puccìn allargò le braccine con un gesto rassegnato e desolato e disse (ora teneva i grandi occhi in
su come per iscrutare quell’uomo nuovo a cui andava connesso il nome venerando di padre):
— Perchè l’erba del «voglio» non cresce neanche nei giardini del Papa.
— Dunque hai piacere?
— Sì, piacere.
Puccìn dopo questa risposta si era allontanata, e ritornò poco dopo.
Aveva un cestellino di giunco sotto il braccio: nel cestellino c’era un pezzo di pane ed una bambola
miserabile.
— Quando le si dice di andare a Venezia, lei corre a prendere il suo cestino e la sua pupa — spiegò
la balia.
Ma gli occhi si arrossarono alla donna, in grande pianto. Lagrimava in segreto anche il balio, e
Puccìn intanto imitava con le labbra il suono dei buffi del treno; e a quel suono il grosso cane
balenava con le pupille iridate e balzava come per avventarsi contro il treno, (la ferrovia correva lì
presso) ma nulla vedendo, s’era accosciato con le gambe davanti ritte, gli occhi interrogativi, la
lingua fuori, davanti a Puccìn come per dire: «Ma ti sbagli, cara amica, il treno ora non passa!»
E Puccìn pur seguitava ad imitare i buffi del fumo.
***

Era una di quelle dolci mattine che a chi ben guarda e sente, sembrano un consiglio di pace che la
terra e le piante danno agli uomini, quando Almerigo Crosio e Puccìn si trovarono soli nel treno.
— Vienci a trovare! — aveva detto la balia.
— Sì, vi verrò a trovare — aveva risposto gravemente Puccìn in piedi sul treno, come una reginella
che rende omaggio ai vassalli.
Ma Piero Medici aveva scosso il capo e avea preso per mano la moglie: — Andiamo, via, andiamo!
— e si erano allontanati prima che il treno si movesse.
Ora, fuggendo il treno, si videro per qualche istante i due balii che si allontanavano curvi, lungo la
via bianca, senza più voltarsi.
— Il zio Piero e la zia Nena — disse Puccìn con l’abituale sua placidezza, additando.
— Ci volevi bene?
— Oh sì, Puccìn ci vuole tanto bene!
Ma Puccìn in quell’istante era molto occupata ad osservare la nuova e instabile dimora dove si
trovava.
Le scosse del treno trasportavano Puccìn da un punto del cuscino ad un punto del cuscino opposto.
Spesso le movenze erano comiche: il bianco del grembiulino davanti, lo scarlatto della vestina di
dietro, l’onda dei capelli, agitati dalle scosse, apparivano ogni tanto, e ogni tanto le pupille si
rivolgevano attonite, più che interrogative, per domandare:
«Ma, caro signor padre, come va tutto questo che qui non si sta mai fermi? è così instabile ed
inquieta la nuova dimora?»
Il padre, Almerigo Crosio, seduto in un angolo, guardava.
Guardava Puccìn, cui il treno faceva ballare una curiosa ridda, e questo pensiero diabolico si
delineò nella mente di Almerigo Crosio: così, ecco: «lasciare aperto lo sportello opposto: attendere
che Puccìn vi batta contro. Non avrebbe sentito neppure un grido: il rosso, il bianco, l’oro dei
capelli travolti un istante, poi nulla, più nulla!»
«Che cosa è stato?» chiederà la vana legge degli uomini.
«Una disgrazia involontaria» risponderà Almerigo Crosio.
E la statistica degli uomini registrerà una disgrazia involontaria di più.

***

Ma Almerigo Crosio al pensiero diabolico rabbrividì, si alzò, andò all’altro sportello e si rassicurò
che fosse ben chiuso, ma, nel ritornare al suo angolo, prese Puccìn per l’uno e per l’altro polso,
davanti a sè, stringendo a pena: poi nel premere andò sempre crescendo. Voleva vedere gli
imperturbabili occhi lagrimare, voleva udire la soave voce tramutarsi nel pianto, voleva che Puccìn
provasse paura non fiducia di trovarsi con lui. Qualche piccola cosa pur il Demonio domanda di
tributo anche gli uomini onesti! E stringeva!
E Puccìn fissava attonita, l’ombra della paura già oscurava il volto, le labbra fecero boccuccia brincia
per il dolore, ma non per piangere, bensì per offrire il solo omaggio che poteva offrire per il riscatto
della pena: un bacio!
Allora le mani di Almerigo Crosio si allentarono. Lasciò Puccìn.
Puccìn tornò a palpare i cuscini instabili.

***

E Almerigo Crosio s’avvide che lo sigaro che stava fumando era pessimo, anzi molto pessimo,
perchè lo faceva stranamente lagrimare.

***

Ma no! Puccìn mostrava di avere una fiducia illimitata in quell’incognito che gli era stato
presentato sotto il nome autorevolissimo di padre: fiducia piena di grazia e di purità: da lui, da lei
venuta fuori quella purità mirabile: da lui, da lei, sui quali la vita, la necessità del lucro, del lusso,
delle convenienze sociali e via e via, aveano — come tossine de’ microbi patogeni — distillato il
veleno terribile dell’insensibilità. Sclerosi dell’Anima!
Eppure quella purità era nata, ed era fatta carne, voce, splendore di rosee carni, di umide pupille, lì
presso di lui! O mirabile potenza ignota che così tutto rinnova e così dispone le vere leggi della
Vita!
Almerigo Crosio prese presso di sè Puccìn, se la ricoverò fra le braccia e la baciò a lungo, a lungo, e
ripetutamente, provando come un refrigerio delizioso nel contatto di quelle fresche carni che
pareano come un riflesso di una freschezza interiore.
Così il viandante arso dalla caldura, roso dalla polvere, fatto bruto dalla fatica, guarda le chiare
acque sorgive e sente la voluttà di sommergervisi.
La riguardò a lungo, e da quel volto venivano fuori delle reminiscenze di sè; anni molto lontani,
quando egli, Crosio, sedeva in grembo della madre sua!
Puro il mattino, soli nel treno: il treno correva con non so quale festività leggiera.
E Puccìn incominciò: cominciò una serie di domande complicate, difficili, insistenti, strane, alcuna
volta paurosamente profonde e senza possibilità di risposta.
Tutti i bimbi quando nel fenomeno luminoso cominciano a distinguere il sole, le piante, gli animali,
fanno di simili paurose domande: paurose perchè pare che un’immane anima filosofica si desti in sì
gracile corpo!
Una sola domanda non venne, questa: «Perchè, caro padre e cara madre, mi avete messa al
mondo? ci avete pensato razionalmente, signori genitori?»
Ma questa dimanda non venne; e quando Almerigo Crosio comperò una bella ciambella, fresca,
dove Puccìn immergeva i suoi dentini e il corallo delle gengive, pareva ella dire: «Ottimo padre mio,
io sto benissimo in questo mondo e questa ciambella è squisita. Non vi date pensiero di me:
batterò la mia strada come tutte le donne, nè più nè meno!»
***

Puccìn — come giunse a casa — fu accolta con grandi segni di giubilo dalla mamma e dai fratelli.
Ma ella non ne parve eccessivamente turbata e commossa. In fin de’ conti ciò le era dovuto nè ella
voleva accettare come grazia ciò che era suo diritto. Caso mai, era in credito di tre anni.
Ai suoi signori fratelli fece poi sin dalle prime mattine comprendere che ella, come era disposta ad
osservare i suoi doveri, così intendeva salvaguardare i suoi diritti e che, secondo i nuovi principi di uguaglianza, la parte di Cenerentola non la voleva sostenere: laonde divisione in tre parti uguali del
caffè e latte!
Avrebbe fatto il possibile per dare il minor disturbo nella casa: e in fatti in un angolo, presso una
seggiolina, Puccìn badava silenziosamente alla sua bambola miserabile e spelata.
Di quando in quando — però — la coglievano dei frulli di bizzarria. Correva di stanza in stanza
spalancando gli usci e fermandosi in attitudine di reginella imperiosa su le soglie.
La qual cosa si poteva interpretare, o come un bisogno di maggior spazio o come un’affermazione
della sua proprietà.
Così pure ogni tanto si affissava nel vuoto, cercando nelle chiuse stanze ciò a cui la sua pupilla era
abituata: il verde dei campi, l’azzurro dei cieli.
«Bù! bù!» faceva ogni tanto, e forse chiamava per reminiscenze il buon cane fedele; o imitava per
suo conto i buffi della vaporiera che sull’alto terrapieno fuggiva presso la villa di Piero Medici.
Ma poichè il cane più non appariva e la vaporiera non passava sbuffante nel verde e nell’azzurro,
così Puccìn docilmente ritornava alla sua misera bambola.
Puccìn, sì, per sempre Puccìn!
— Come ti chiami bella bambina? — le chiedevano quelli di casa facendole intorno corona.
— Puccìn!
— No! il tuo nome è Giuseppina Crosio.
— No! Puccìn! — ed era solo per questo che Puccìn diventava rossa di rabbia come un galletto.
Voleva che le fosse serbato il nome che Piero e Nena, i buoni villani, le avevano imposto.

***

Quanto ad Almerigo Crosio, sentendo di giorno in giorno rinascere più vivo l’affetto per questa già
abbandonata, cara bambina, e rimembrando i lunghi tre anni di indifferenza e di oblio e
comparandoli con il presente amore, dicea tra sè mestamente:
«È ben miserabile in fine questa nostra vita quando ogni volta, ripensandoci attentamente,
troviamo che la somma delle nostre azioni è sbagliata sempre, e ci conviene ritornare da capo
sempre!»

claudioTrionfi di donna