Tre grandi illustratori del Novecento alle prese con Panzini

Lo scrittore romagnolo nei disegni satirici di Amerigo Bartoli Natinguerra, Umberto Onorato e Mario Vellani Marchi.

Parlare degli illustratori del Novecento equivale a scandagliare un mondo di artisti, veri artisti, pittori, disegnatori, vignettisti (ma non solo, come vedremo), che scrissero con i loro tratti una pagina davvero importante della nostra cultura nazionale. 

Alfredo Panzini era ben consapevole della loro arte, e li incluse nelle varie edizioni del suo Dizionario Moderno, sin dal 1905: “Vignetta: per figuradisegno, riprendesi dai più rigorosi puristi (fr. vignette da vigne). Voce sancita dall’uso”. Poi catalogherà anche “Macchiettista: disegnatore abile nel fare macchiette. Riproduttore di tipi”. E da amante del genere umoristico, non gli sfuggì nemmeno il celebre settimanale satirico Il Pasquino che vide la luce a Torino nel 1856: “Governo ladro! e, compiutamente, Piove, governo ladro!, motto del giornale il Pasquino. Nel 1861 i mazziniani avevano preparato a Torino una dimostrazione; ma il giorno fissato pioveva, e la dimostrazione non si fece. Il Pasquino pubblicò allora una vignetta rappresentante tre mazziniani sotto un ombrello al riparo dalla pioggia dirotta e ci mise sotto la leggenda: Governo ladro, piove! Si dice per dileggio di coloro che attendono, tutto fan derivare dal governo (è detto anche sul serio, senza il piove)”, così nel Dizionario Moderno.

Il genere satirico fu molto amato da Panzini, che addirittura nel suo Il Conte di Cavour, che farà storcere il naso agli storici e che pubblicherà da Mondadori nel 1931 con notevole successo, inserì le feroci “caricature” del Fischietto, che andò a scegliere personalmente a Torino. La sua firma comparve qualche volta su Il travaso delle idee, dove fu non di rado anche bersaglio delle penne appuntite della redazione ma questo non gli impedì di dedicare loro una voce del Dizionario Moderno sin dal 1905: “Travaso (delle idee): per passaggio (influsso) dei pensieri da una in altra mente si dice talora per celia; e il vocabolo travaso, che è proprio de’ liquidi, acquistò tale nuovo e ridicolo senso da un povero onesto uomo, morto da poco in Roma, il quale aveva alcun splendore geniale fra molte stranezze e pazzie, Tito Livio Cianchettini. Costui componeva, stampava e vendeva un suo giornaletto intitolato II Travaso d’idee. Il primo numero vide la luce in Pavia il 16 agosto 1869″. Il lemma che occorre scandagliare con attenzione per cogliere l’umorismo di Panzini si trova proprio sul Dizionario: “humour” (in fondo a questo articolo), manifesto del suo pensiero sulla materia ma anche del suo modo di concepire la vita e le lettere: Lo humour “è la speciale disposizione che un’alta intelligenza (per lo più artistica) ha nel penetrare facilmente, sottilmente insino al fondo occulto delle cose, vedere le fronde e le radici, la scena e il retro-scena: quivi le cose umane appaiono ben diverse e ben diversamente congiunte che non siano nell’apparenza: ciò che alla superficie è comico, al fondo può essere tragico, e viceversa”.

Ci dedichiamo questa volta a tre figure particolarmente rilevanti che hanno colto un po’ dell’essenza di Panzini nei loro disegni satirici: Amerigo Bartoli Natinguerra (1890 – 1971), Umberto Onorato (1898 – 1967) e Mario Vellani Marchi (1895 – 1979).

Il primo è stato un eccellente pittore (insegnò anche all’Accademia di belle arti di Roma), ritrattista raffinato e disegnatore satirico di spessore: i suoi ritratti di Ardengo Soffici, Cardarelli e Roberto Longhi (quest’ultimo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma), per citarne solo alcuni, sono dei capolavori. Si occupò di Panzini, tra gli altri, sull’Almanacco del Resto del Carlino e sulla Gazzetta del Popolo. Su questo quotidiano nel 1934 fissò l’immagine simbolo più rappresentativa di Panzini, cioè quella del lessicografo in abiti da accademico d’Italia e con il sigaro toscano tra le labbra (ricorrente nelle sue illustrazioni, lo ritroviamo anche nel ritratto di profilo) impegnato a diagnosticare lo stato di salute della lingua nazionale.

Con Umberto Onorato l’immagine di Panzini cambia: il volto corrucciato e serioso creato da Bartoli lascia il posto a linee essenziali che restituiscono ironia, luce e leggerezza, ridisegnando i contorni di un aristocratico e bonario professore, “pizzicato” nelle sue avversioni verso la società del benessere (emblematica quella che ha per titolo “il telefonofobo”).

Originario della Puglia, dopo una gavetta nella quale si fece notare come realizzatore di cartoline illustrate e disegnatore pubblicitario, Onorato cominciò assiduamente a sfornare vignette per riviste e poi per il teatro, dove darà il meglio di sé e dove sarà anche scenografo e costumista. Ideò manifesti per il teatro e il cinema e Giorgio De Chirico lo paragonò a Toulouse-Lautrec. I suoi lavori comparvero, ad esempio, sulla Tribuna, sul Travaso delle ideeLe grandi firmeLa fiera letterariaIl DrammaMarc’Aurelio, ma fu anche illustratore di libri e raccolse le sue migliori caricature in due volumi: Pupazzi. Caricature del teatro di prosa (1930) e 100 pupazzi di teatro(1934). Molti originali di Onorato si trovano nel fondo che porta il suo nome nel Museo teatrale del Burcardo.

Su «Il travaso delle idee» nel marzo del 1933.

Mario Vellani Marchi introduce uno stile ulteriormente nuovo nell’immortalare lo scrittore. Ma vediamo prima qualche notizia su questo pittore emiliano (allievo dell’Accademia di belle arti di Modena) sbocciato a contatto con la laguna veneta, l’isola di Burano (“Burano è già di per se stesso un paesaggio dipinto”, dirà) e la città di Milano. È qui che entra in contatto con i cenacoli di artisti, scrittori, editori, musicisti e giornalisti che amavano riunirsi in locali come il ristorante Boeucc, la pasticceria Marchesi o Bagutta e questo spiega perché per circa mezzo secolo ha disegnato forse come nessun altro la vita intellettuale di Milano ed è stato illustratore di novelle su «La Lettura» del «Corriere della Sera» che aveva anche la collaborazione di Panzini. All’inizio degli anni Trenta raccolse in volume i suoi nudi femminili (Ceschina editore) e fu subito chiaro il valore di Vellani Marchi, tanto che qualcuno ha associato il suo segno elegante e continuo a quello di Matisse. Ha esposto alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma, alle Biennali di Milano, ha viaggiato (Germania, Austria, Svizzera, Francia, Inghilterra, Marocco) e dipinto le sue peregrinazioni all’estero. Sul versante delle testate che lo hanno ospitato, vanno ricordate oltre a La Lettura, almeno La fiera letteraria, la Gazzetta del Popolo e L’Illustrazione Italiana.

Il suo Panzini è tutt’uno con alcune delle opere che ha pubblicato perché si è occupato di lui per il “lancio” di libri usciti da Mondadori: La bella storia di Orlando innamorato e poi furioso e Rose d’ogni mese nel 1933 sulla «Gazzetta del Popolo». Il Panzini accademico (dal 1929) è ormai il contrassegno peculiare del personaggio, che infatti viene raffigurato anche da Vellani Marchi con la feluca e la caratteristica uniforme.

Humour: è parola inglese di provenienza latina (humor = liquido): Humor in tedesco, in francese humeur, in italiano umore, benché presso di noi prevalga l’uso della forma inglese. La definizione di questa voce è molto difficile benché molte siano le definizioni date, alcune assai eleganti e sottili, ma forse troppo ristrette secondo che il definitore ebbe in mente l’uno o l’altro umorista. Lasciamo le goffe definizioni che danno alcuni dizionari, come spirito bizzarrosommo del comico etc., e vediamo di rendere meglio il vero. L’umore è la speciale disposizione che un’alta intelligenza (per lo più artistica) ha nel penetrare facilmente, sottilmente insino al fondo occulto delle cose, vedere le fronde e le radici, la scena e il retro-scena: quivi le cose umane appaiono ben diverse e ben diversamente congiunte che non siano nell’apparenza: ciò che alla superficie è comico, al fondo può essere tragico, e viceversa. Ma questo al buon pubblico non si può dire giacché, o resterebbe offeso dalla verità o non crederebbe. Ne deriva quindi da parte dell’umorista una speciale maniera di esprimere il vero; una maniera velata, bonaria, semplice e solitamente comica, giacché il contrasto tra la realtà, la verità ideale e le operazioni umane è tale che il più forte sentimento è quello del riso: questo riso può tuttavia svolgersi per una gradazione amplissima, secondo l’indole dello scrittore: sorriso melanconico, impercettibile, caustico, beffardo, diabolico. Il pessimismo sta di solito come substrato di questo riso, ed è naturale: la miserabile contraddizione umana non è componibile in modo alcuno. Questa aristocratica disposizione dello spirito fu coltivata come forma d’arte specialmente dagli inglesi, dei quali la letteratura ben risente di tale spirituale tendenza. La letteratura tedesca ha pure umoristi ammirevoli e profondi. I francesi sono piuttosto arguti, lepidi, che umoristi. In Italia tracce di umorismo possiamo trovare finissime presso alcuni latini, in parecchi trecentisti, in Dante, e umorista vero è l’Ariosto (il più semplice — infatti — tra i pomposi umanisti del suo secolo, semplice pur nella vita privata). Senonché amore della verità vuole poi che si dica come il popolo italiano tenda specialmente a gustare i generi letterari ampollosi, artifiziosi, retorici, fucati, alieni cioè dalla semplicità che è la condizione prima, il substrato, per così esprimermi, dell’umorismo. Di ciò molte prove si potrebbe addurre di cui qui non è il caso ragionare, basti l’accennare al fatto che I Promessi Sposisono più specialmente popolari ed in onore per la loro sapienza evangelica e bellezza morale che per il loro sottile umorismo; e un altro libro, ricco di vero umorismo, è mal noto al pubblico grosso: Le confessioni di un ottuagenario del Nievo. Il Leopardi ed il Carducci non sono certamente assai conosciuti per il loro umorismo. Da umore presso di noi si formò l’aggettivo umoristico a cui il popolo diede un senso che proprio non ha nulla a che vedere con l’umore. Dicesi volgarmente giornale umoristicopoesia umoristica etc, dove si contiene alcuna facezia, libera e grossolana, spesso sconcia: proprio il contrario del vero e proprio umorismo. La qual cosa, volendo esser sottili critici, può dimostrare appunto che il nostro popolo italiano non intende l’humour: non ne ha la voce e, avutala, la torce ad altro senso (se pure a tale significato popolare non influì il nostro, umorebell’umorebuon umore; ma non mi pare). Quando volle ridere, creò un genere suo proprio, nazionale, cioè il burlesco (bernesco). Fra gli scrittori, godettero di vera popolarità in Italia quelli che, per temperamento ampolloso erano del tutto alieni dall’umorismo, ad es. il Marino nel seicento, e, ai dì nostri, il D’Annunzio.

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