Emilio Cecchi

Sulla «Voce», diretta da Giuseppe Prezzolini, 17 febbraio 1910.

Alfredo Panzini attira l’attenzione di quanti, non lasciandosi illudere dall’aggressiva rinomanza dei pochi scrittori in gran voga, amano chiedersi se nella opaca zona retrostante allo sfacciato sbrillantio della ribalta, non vivano, per avventura, ingegni sinceri, forze dirette a qualche scopo non ignobile, spiriti assorti in ricerche non volgari. L’esclusivismo luminoso e l’audacia affermativa, caratteristici dei temperamenti destinati a primeggiare, gli son negati. Ed egli compensa queste doti con altre, certamente più equilibrate, ma anche certamente meno fortunate.
Si respira nella sua opera quell’odore di decorosa miseria che è proprio delle famiglie della bassa borghesia, nelle quali l’insistere delle sventure non ha potuto contro la durezza della virtù. Nella luce colata per le mura giallastre e filtrante fra i convolvoli che fanno rete alle povere finestre, si mescola un odore di cibo rialzato dall’acuta nauseabonda fragranza dei farmachi dell’ultima malattia. Da un andito umido e ottuso si vedono le camere spoglie e malinconiche, e il lumino che vacilla in fondo a una di esse sembra vegliar perpetuamente un defunto. In un angolo di cortile, dove un raggio di sole batte sui vasi dei gracili fiori, giuocano due o tre bambini, senza alzare la voce, con una serietà che rattrista. Diffuso in quelle penombre e in quelle luci smorte è il sentore perenne della sciagura e, se è possibile, a far più cupa e micidiale l’inedia, il visitatore, fatuo e avventato, mesce il suo consiglio ironico e il suo giudizio quasi insultante.

In un momento di profonda tristezza storica nacque l’arte di Alfredo Panzini, il cui ingegno, per parte sua, era fatto per assorbire questa tristezza e quasi compiacersi di scavarla e approfondirla, piuttosto che per averne ragione. Il che avrebbe potuto darsi in più modi: per virtù di compatto impeto lirico; per acutezza critica che avesse potuto risolvere quella lassitudine nelle sue tendenze, giustificarla nel significato: che avesse potuto, in una parola, dominarla; infine, per dono di pura e semplice fatuità. Vi son mali fra mezzo ai quali si passa incolumi, unicamente per il fatto di ignorarli. Ma Alfredo Panzini non era un’aquila lirica, non aveva l’occhio tutto assorto a sviscerare i problemi dell’arte e della coltura, non sapeva esser fatuo.
Posto sul confluente di due epoche molto diverse, rappresentate rispettivamente da Giosuè Carducci e da Gabriele D’Annunzio, nei suoi romanzi, nei suoi racconti, nella sua critica, etc, egli è venuto esprimendo, con una velata accoratezza da reazionario, il rammarico di non aver potuto fare ingenuamente squillare la sua poesia nei modi rudi e sereni del maremmano, e, insieme, di non aver superato in un audace e sicuro umorismo certi atteggiamenti odiernissimi, che non lo soddisfano; mentre quell’umorismo che gli è venuto fatto, sembra, ad ora ad ora, oscurarglisi d’intima sfiducia, quasi a dare inconfessatamente ragione alle cose e agli ordinamenti cui sembrava volersi opporre. “Son venuto sempre a questa conclusione: due e due fanno quattro, uno meno uno forma zero; gli uni hanno ragione, ma anche gli altri non hanno torto. Ha ragione l’anarchia, ma la legge non ha torto. Ha ragione lo spiritualismo, come ha ragione il positivismo materialista; non hanno torto le masse socialiste e non hanno torto gli aristocratici del blasone e del denaro. Ottima la pace ma ‘necessaria la guerra. Meravigliosa l’idea di un’unica umana famiglia, e pure santa l’idea della patria. Si progredisce con una gamba e si va indietro coll’altra”.
S’intende come questo luccicare di problemi filosofici, morali e letterari, posti, sovrapposti, e scancellati sempre a mezza dimostrazione, non possa non dare all’opera dello scrittore un carattere di imprendibilità, di irrequieta mutevolezza, che non è fatto per consigliare l’adesione che non discute.
Nel suo spirito un’idea non può vivere della sua pura realtà logica, e si cerchia sempre di un sottile pulviscolo fantastico e sentimentale: gli intrecci dei suoi racconti, la scelta dei suoi personaggi risentono, spesso, di un simile ibridismo. Il suo romanzo è incamminato immutabilmente verso la critica, come la sua critica, anche quando più deliberatamente vuol esser critica, non sa rinunziare alle forme della narrazione. Ma se vi sono narrazioni sostenute da un mannequin astratto assai più grossolanamente di quelle di Alfredo Panzini, l’idea che ne costituisce l’anima, può arrivare ad esservi sentita liricamente, a riscaldarsi di vivo pathos e a lasciare scaturire movimenti di arte sicura. A cagione della sua stessa meticolosità d’analisi, della sua sospettosa scaltrezza, Alfredo Panzini non è giunto quasi mai a questo stato che è condizione prima d’una poesia di vasto respiro. I suoi libri, son come una combattuta partita di scacchi, che ricomincia perpetuamente e perpetuamente rimane in asso. E la sua prosa traduce meravigliosamente questo lucido orgasmo, nel quale la idea di una sorta di fatalità storica onde, oggidì, dopo Leopardi e Carducci, sarebbe impossibile una grande arte, contrasta col desiderio e lo sforzo inconsapevole appunto di scoprire le forme di quest’arte.
Quell’abilità a dedurre forme, frasi, epiteti, movimenti, dagli scrittori aurei per accrescer dignità alla prosa moderna, che il Carducci nella sua opera di rinsanguamento della letteratura italiana seppe comunicare ai suoi migliori scolari, e così ad Alfredo Panzini, ci procura ad ora ad ora lo spettacolo bizzarro di parole che respirano la loro fresca e placida derivazione trecentesca e di modi dottamente latini, fissati in periodi che col loro asintattismo e le loro spezzature si chiariscono moderni come forse neppure il Panzini sospetta. Egli mesce nella coppa della sua poesia, mesce con mano generosa il luminoso nepente che le anime colte sanno attingere alla consuetudine con le divine opere dei padri. Ma poiché una tradizione letteraria, per quanto ricca, non può servire di moneta con cui fare spese di qualunque sorta, e i cuori fertili e vigili hanno in fondo sempre un po’ di debito che li tormenta, spiccia sempre nelle pagine del Panzini, di sotto la rassegnazione, storica, qualcosa da far vedere o intravvedere, da confessare o da far sospettare.
Il passato, robusto ed arcigno, simile ad un vecchio assolutista, ultima colonna di una famiglia minata, sembra nella sua opera comprimere atrocemente, se pure involontariamente, gli sforzi del nipote, troppo onesto per mandarlo al diavolo con allegria, e troppo debole per dimostrargli di fatto la sua indipendenza, col saper provvedere a se stesso, e vivere a modo suo. “Abbi forza d’esser qualche cosa di grande e di degno„ gli dice il vecchio, schiacciandolo con la sua severità, e incitandolo con la parola maestosa. E il rampollo sembra confessargli: “Volentieri! Ma, in fondo in fondo, non veggo di grande e di degno che te. Tu hai fatto tutto quello che io avrei voluto fare…”. Situazione che non saprebbe, certamente, apparir molto feconda, se non si pensasse che questo stesso rammarico, poiché è sentito acutamente e da un’anima pura, può, anche da solo, costituire motivo d’arte sincera, e che, nella sua dimessità e nella sua scialba tristezza, esso merita assai più di tanta impetuosa e applaudita retorica, molto più facilmente e anche molto più vuotamente affermativa.

Sullo spirito del Panzini, nell’età della formazione, passò lo splendore e la rapina di una magnifica visione di arte e di vita. Nel suo libro sull'”Evoluzione di Giosuè Carducci” che, nonostante la scarsezza della documentazione, è certamente fra le poche cose serie scritte intorno a questo poeta, egli narra con parole commosse i giorni della sua gioventù, che furon riempiti da quell’aura purissima e gloriosa. Ma esperienze siffatte posson anche esser tali da imporre definitivamente, ad uno spirito minore, limiti che esso non potrà mai più superare. E invero, in Alfredo Panzini è rimasta incancellabile la coscienza di certi limiti, benché la volontà di varcarli non per questo abbia del tutto potuto tacere. Giosuè Carducci, si sa, non capiva il romanzo. E il Panzini prova il romanzo: ma lo prova come intimamente persuaso delle ragioni di quella non comprensione, che era, in fondo, una tacita negazione. Sicché, sviluppata una situazione la quale, dai dati della piccola vita ch’egli predilige, riesce a condurci in vista ad una grande significazione, a cogliere un soffio di eternità, ecco che, subito, gli vien fatto di ritrarsi, in luogo di buttarsi nel gorgo che egli ha scatenato, e trovarne l’intima legge. Piglia le sue precauzioni, e mette il cuore in pace con una qualsiasi ipotesi, che potrebbe, d’altronde, senza nessun inconveniente, esser sostituita dalla sua opposta, davanti ai problemi filosofici o di grande poesia, quando gli si ignudano di sotto il viluppo dei fatti. Non sa che fiutare un po’, e tornar confessamente un borghese. E lo fa con una tal grazia meneghina, la quale, nei suoi migliori momenti, può anche arieggiare a un che di manzoniano. Sembra considerare tutto il moto della vita come una serie di combinazioni destinate a muover la più o meno ben congegnata e più o meno acuta serie delle nostre osservazioni di sapienza spicciola. Ad ogni avvenimento un pensiero isolato e ben schedato. E a sfogar questa smania di definizioni – non fossero che definizioni puramente ipotetiche – agli alberi lungo i fiumi e sui colli, ai mobili delle case povere e ricche, agli arnesi delle fattorie e degli opifici, ai libri solenni e puerili, e a tutte le cose brute e mute, concede libertà di parola, con una compiacenza che non ci urterebbe, se non vi sentissimo sotto un metodo ed un abuso. Il suo romanzo tende, in ogni fibra, a disfarsi in ragionamenti speciosi. E fuor che per questa difettosa caratteristica, si identifica coi tipi comuni sui quali si modellò il romanzo borghese sullo scorcio dell’ultimo secolo.
In realtà, non nel romanzo lo preferisco. Troppo l’umorista che è in lui soffre di comprimervisi e cammuffarvisi, perchè la sua irriverenza non abbia a recidere ogni tanto quella razionale illusione realistica della quale il romanzo non può fare a meno. Dove il Panzini si concede maggior libertà, egli raggiunge anche maggior determinatezza. Perchè allora ha a disposizione tutti i ferri dei suoi mestieri, e il professore vocabolarista e latinista, aiuta l’artista, mentre questi raggentilisce la polverosa dottrina e la pedanteria che quello, da solo, non saprebbe completamente dispogliare. Ed anch’io credo la sua opera migliore prima delle ultime novelle, debba cercarsi in quella Lanterna di Diogene (1907) dove una specie di italianizzata forma-viaggio uso Heine, non contraddice più i volubili volteggiamenti della fantasia che, gracile e inquieta, non ha la forza di quelle laboriose concezioni che sostengono il fondo omogeneo e costante di tutto un libro. Le ipotesi e le ironie, accarezzate, limate, sbalzate, niellate con l’arte con la quale un argentiere squisito tratterebbe una statuetta civettuola, e poi spezzate di colpo e rifuse d’un tratto in atteggiamenti analoghi ma differenti, fatte risaltar da grazie malinconiche e da asprezze sane, le quali ci rammentano che qualche stilla di liquido sole epico cola nelle vene di questo scrittore, si fanno amare, ci ridono in aspetti indimenticabili (per es. l'”Attrice”), son qualche cosa di schietto e di vivo. Poiché gli è quasi impossibile scordarsi della letteratura, non domandiamo ad Alfredo Panzini lo sforzo ch’egli tenta nei suoi romanzi per darci una realtà ingenua, non vista attraverso le pagine dei libri e le lenti della riflessione e i veli delle reminiscenze. Ingenuo egli riesce, come tutti, quando ci dà immediatamente la sua realtà interiore, che è fatta anche di nostalgie libresche, di curiosità intellettualistiche, le quali non possono esserne astratte ed isolate senza disfarne tutto l’equilibrio. Il suo mondo è un impasto originale di grettezza vissuta e di grandezza sognata, di ironia espressa e di lirismo represso. In vista al palazzo Leopardi a Recanati, dopo averci fatto sentire come egli sa partecipare nella colossale tragedia del poeta, si prepara giocondamente a discendere pedalando la collina, e corteggia, frattanto, un’ostessa, che può rammentare le ostesse non meno simpatiche e paffute de’ “Reisebilder” pur restando perfettamente latina. Il ricordo commosso mormora una preghiera alla divinità dipartita. Ma con quella disinvoltura un po’ ostentata delle persone che hanno un dispiacere in corpo, il professore Panzini debacca, mentre gli ridono i belli occhi promettitori.
Davanti a un cialtrone affamato, si dimanda, con l’oscura inquietudine del borghese che si sente compromesso in una crisi la quale non gli è comprensibile appieno, se veramente l’avvenire non andrà secondo l’inno di Turati, mentre studiando l’evoluzione carducciana, aristocrate come il maestro, era turbato dal “fango che sale” e vedeva nei nuovi orientamenti della democrazia la causa prima della povertà dell’arte odierna.

Il presente lo commuove, ma il passato l’ammonisce, e l’ammonimento talvolta può in lui più della vergine, rischiosa emozione. Tanto più che la scuola alla quale si formò, lo dispose a interpetrare il passato e la storia così da credere che la loro sostanza fosse diversa, migliore e più possente, di quella che costituisce la nostra vita quotidiana e sopporta gli avvenimenti che vediamo svolgersi intorno a noi. Per una curiosa ironia, quella scuola si battezzò dalla critica storica, e non dette né un corpus di idee storiche, né un metodo veramente degno di questo nome. Era un poeta che principalmente la rappresentava, e nella storia mescè troppo della sua poesia. Le epoche gli si risolvevano nelle grandi e fulgenti figure degli eroi. La tradizione classica lo portava ad accarezzare instancabilmente nella fantasia queste figure, splendenti dalle memorie sopra l’evo corrotto. E si formò in lui e, per imitazione, intorno a lui, un dissidio fra l’ieri degli eroi, e l’oggi del tersiti. Si cercò la poesia per dire che la poesia era defunta e l’età era frolla. Superba poesia, come fece il Carducci; arte di schietta traduzione e d’imitazione come fece, per esempio, il Chiarini; arte assai più originale, rinnovata anche dallo spirito di una cultura meno pedantesca, da un sentore più largo dei problemi, delle tendenze, degli atteggiamenti nuovi che cercavano, pur conculcati, di trovarsi una via, come é stato nel Panzini. Una maggior severità o forse semplicemente una maggior maturazione dei tempi, avrebbe portato questi a disfarsi della sua arte, e svolgere, amo immaginar nella storia, facoltà le quali, nell’opera ch’egli ha dato, si sono invece accavallate all’arte, fiancheggiandola, mischiandovisi, lasciandosi sedurre, dalle sue grazie incerte e volubili, all’amplesso sterile dell’Ironia? C’era nel Panzini il senso religioso del fatto storico. Ma il professore dalla umile vita difesa dal misurato stipendio, inebriata di smisurata grandezza, non resisteva, davanti a taluna delle solari ridenti incarnazioni del latin sangue gentile, al gusto di tastare e di ostentare straziandole le sue piccole miserie, e vendicarsene, in certo qual modo, col protestarle dinanzi a quella maestà. La pagina solenne e severa gli finiva spontaneamente in un pupazzo e in una burletta; e questa si ritorceva in una considerazione malinconica, finché la considerazione malinconica si stemperava tendenziosamente in una dissertazione: poiché diverse personalità si agitavano in lui, né mi pare che egli sia mai riuscito a stabilir fra esse una ferma gerarchia. La sua opera resta, così, fino all’ultimo volume, a mezz’aria, senza prendere un aspetto ben definito. Determinata, scolpita, bulinata, con l’insistenza di uno scrittore lessicografo, rigo per rigo, parola per parola, nel suo aspetto generale è dubbia e ondeggiante; e meglio accetta riesce dove si è proposta questa inquietudine, questo ondeggiamento. Vale la pena d’aver perso uno storico per avere un ironista, giacché in fondo, anche se il Panzini è restato preso nella propria ironia, e non ha saputo completamente orientarla, non si può dargli che questo appellativo? Giro la .questione alla buona volontà di qualche filisteo.
A garantire alla sua opera, anche così come fino ad oggi ci appare, la simpatia che non può negarsi agli sforzi nobili e severi, basta la sua purità, la sua asciuttezza, la rapida nudità che concreta le sue sobrie intenzioni.

La solita voce bassa, pacata, che si fa udire quasi con timore, di tra la baraonda contemporanea, a intrattenerci di cose obliate, a ridestare in noi la nostra anima lontana di bimbi pensosi, a risuscitar nelle nostre memorie i sogni sognati negli angoli bigi delle case malinconiche, nei vesperi troppo lunghi delle solitudini prime…. Ecco come Alfredo Panzini si accosta a noi, anche nel suo libro ultimo: Le fiabe della virtù (Treves 1911).
Qualche cosa di estremamente umile ed accorato ci dice: di tanto umile e accorato che, quasi, a momenti, per troppa dolcezza ci fa male. Ma sa anche disfare senza residuo, in fondo alla nostra anima, quei sedimenti opachi che la consuetudine con la retorica e la magniloquenza attuali, che l’abitudine alla disillusione davanti ad ogni nuova opera di lingua italiana, vi avevano lasciato. Chiudendo l’ultimo libro del Panzini ci sentiamo diventati umili, nudi, e, in quella improvvisa purezza, quasi ingranciliti. Ci pare che la cupa malattia verbosa contemporanea sia cosa di un ieri febbrile, per effetto di un incanto piccolo e potente, diventato già estremamente remoto; a quel modo che i pensieri funesti e i propositi insani, nell’anima di un uomo trafitto di inquietudini, si addolciscono di un tratto e vaniscono se, nella mano madida di quest’uomo, si insinua fresca la mano di un bimbo o di una creatura veneranda.
Non che l’arte del Panzini abbia la ingenuità delle cose puerili. Ha ormai la freschezza e la semplicità divina della classicità rinnovata.
Ma a dire dell’arte di questo scrittore, quale ci si presenta in questo ultimo libro, vorremmo uno stile che fosse lo stile stesso del Panzini o qualche cosa di molto somigliante; giacché una modernità cristallina come la sua, non può rispecchiarsi senza distorcersi, che in una perfezione compagna. E in Italia, invece, quella lucidezza e levigatezza di lingua, oggi, forse, non le possiede che lui.
Nemmeno nei momenti di commozione più intensa, questo stile suo consente a inturgidirsi di enfasi lirica, a riaffittire le sue pause. Ma striscia terra terra, rotto, da periodo a periodo, di brevi soluzioni di continuità; e, periodo a periodo, pare insino disarmonico, mentre l’insieme dei periodi nella pagina, e l’insieme delle pagine della novella, risulta di armonia stupenda. Magro, secco di suono, quasi zoppicante, la forza non gli è data dalla preziosità delle parole, né dal loro colore; né proviene dal fatto che il conio delle parole è stato placcato con smalti di epiteti eletti.
Ma le parole vanno nude e solette, e trovano il loro vigore, alla latina, per la loro posizione reciproca nella frase, nelle loro funzioni sintattiche, per via di inversioni di cui spesso, a prima vista, non percepite la ragione armonica; la quale vi si palesa, poi, quando di queste inversioni percorrete, con gusto grande di scoperte poetiche, tutte le pieghe, svolgete tutti gli ondeggiamenti.
Il Panzini non piglia le sue frasi e non le squadra, prima, con il martello e la cazzuola, come fanno i più fra gli scrittori e, ce le danno tutte per un verso, come mattoni per piatto, con il rigo bianco della calcina framezzo. Mura a secco, alla maniera degli antichi, senza più riempire i vani delle sue fantasie aereate, con il calcinaccio trito e il fiacco cemento delle divagazioni, delle descrizioni, delle decorazioni. Forse nessuno scrittore italiano vivente può offrirci esempio, meglio di lui, di come lavorando d’arte si abbia a tener discosto ciò che il De Sanctis chiamava fantasia: attività, poetica, veramente creatrice e invenitrice, da ciò che chiamava immaginazione: attività combinatrice di svolgimenti e di adattamenti. Paragonate, a meglio intendere, Le chicche di Noretta, che contiene un po’ di questo riempitivo, alla novella, Il regno tuo venga, dove tutto vive e si muove per semplice virtù di affermazione, non spalleggiato di armature dimostrative, non bilanciato da contrappesi descrittivi, non impennacchiato di saggi di bravura paesistica, di svolazzi psicologici, quali son tanto cari ai nostri novellieri italo-francesi. In questa novella, e non solo in questa, il Panzini si imposta come un classico poteva impostarsi in una lirica. A voi lettori di oggi, la parola cIassico può far l’effetto di azzardata. Siate certi che se ne scandalizzeranno meno i lettori di domani.
Va avanti, per via di successioni di copule non dissimulate. Una considerazione morale, ma semplice, men che modesta, di quelle che paiono raccattate sulla bocca del volgo, annoda, da ultimo, il ritmo dei periodi sparsi, raccoglie il brivido della commozione, che affiorava per mille vene, conchiude. Ecco una di queste proposizioni di sbocco, spoglia di immagini, senza scaltrezze di numeri, senza costruzione brillante, un po’ professorale, anzi, nella scelta di certi epiteti e di certe movenze. «Spesso la dispietata morte la incontriamo per le vie del mondo, dove i funerali arrestano i commerci della vita, e v’è chi si impazienta e la maledice solo perché ella, la pallida, ritarda la vita, e non pensa che ella è in viaggio anche per noi». Che cosa vi dice? La frase, l’idea del Panzini, fuori del contesto, diventano convenzionali, si scolorano. Nella sua pagina, hanno un valore di risonanza incalcolabile, come il tema sinfonico, che non vige se non fra gli echi della sinfonia.
Questa inalienabilità, questa serrattezza, vi fa un po’ capire perchè l’arte del Panzini, a malgrado della modestia del suo autore, ed anche in questo ultimo aspetto, spesso, perfetto, sia un’arte di aristocrazia, un’arte dura, schiva. E vi fa capire perchè sia stato necessario che un fremito nostalgico della classicità vera, della classicità del Leopardi e del Manzoni, abbia percorso le anime italiane più attente, prima che esse si sieno decise ad accorgersi di questo poeta, prima che sia stato lecito sperare che, finalmente, il pubblico avrebbe accondisceso a compensare con un po’ di amore la solitudine vergognosa nella quale, per tanti anni, l’ha reietto.

Son sette novelle, raccolte sotto un titolo ironico al quale due almeno sfuggono.
«Fiabe della virtù», si, son Le chicche di Noretta; la storia di un’orfana, impiegata postale in un ufficio di sesta classe. Noretta va a rimettersi di salute, in villeggiatura, presso una zia, e il figlio di questa zia, uno scettico malato di incontentabilità e un poco anche di neurastenia, finisce per innamorarsene, e soffre da cane quando la sa fidanzata a un ex-sergente, e, anzi, in qualità di parente più prossimo, deve occuparsi di certe faccende che concernono quel matrimonio. E sono «fiabe della virtù»: L’ultima avventura di Sancio Panza, Le avventure di un pater familias, La repubblica delle lettere: narrazioni delle illusioni di un giovine commissario regio che si reca per la prima volta in missione in un paesello, coll’intenzione di far grandi cose, mentre presto capisce che la meglio è di non farne punte; malinconie intorno la ristrettezza decente della famiglia di un notaio carico di figliuoli; cronistorie delle vicende di un vecchio bibliotecario che, dall’osservazione di certi tipi singolari i quali frequentano la solitudine polverosa della sua biblioteca provinciale, ha saputo dedurre tanta poesia da comporre un grosso libro di novelle: Casi della vita le quali piacciono assai poco, è detto, ai critici del tempo, ma sembran fatte, in tutto e per tutto, per piacere a noi.
Perchè i Casi della vita sono quasi un mito della genesi della poesia del Panzini: poesia si è detto, che risente tutta di un’origine umile, ed anzi se ne abbella come di una indicibile pallida aureola che le fa risalto, a quel modo che la trista atmosfera di un vicolo cittadino conferisce, non si sa in che modo, alla ciocca di rose che si reclina da un muro grommoso, una bellezza patetica mille volte più intensa della bellezza dei roseti felici, nei giardini dalle conche di marmo eletto. Ma se, in queste fiabe, nelle quali il racconto e l’immagine, lasciati in asso, sembran talvolta infilare nella discussione e nel teorema, si trovano mosse e pagine, animate di spunti comici, rigate di razzi critici, nelle quali, come spesso nei libri precedenti, il Panzini, più che di novelliere ci fa l’effetto di un essayst fantastico, o di un lirico alla Heine tradotto in prosa di odore trecentesco da un bello scrittore italiano, la quinta novella: I diritti dei vecchi e dei giovani, rompe già la linea, e tende tutta intorno a un tipo meraviglioso di vecchia cieca e demente, con un procedimento di scorcio, che ricorda le pagine dell’«Attrice», nella Lanterna di Diogene. Il motivo lirico è ancora sfiorato con mano che vuol parere sbadata. Ma vibra con impeto stupendo nelle novelle restanti, dove non vi capita più d’esser disturbati, nella vostra emozione, dal tintinnare gracile del sistro dell’ironia.
Ivi, sentite semplicemente d’essere nell’atmosfera di due capolavori, e due capolavori così caldi e così sconvolgenti, che se, in presenza di essi, il critico può ancora un momento pensare a se medesimo, è per sentirsi felice di aver tempestato e vituperato, per quanto era nelle sue forze, tanta produzione contemporanea, sicché ora, almeno, può portar loro come offerta di gratitudine, quel po’ di amore consentito alla sua anima pedante e velenosa, e che egli non ha mai imprestato per balocco a nessuno.
Che cosa sono questi due capolavori? Uno è la storia di Pierino che, dal collegio, dove a furia di sgobbo riesce a mantenersi a retta gratuita per non sforzare il bilancio familiare, a luglio si mette in viaggio per tornarsene a casa sua, con una bella licenza ginnasiale tutta di otto e nove e dieci, e, arrivato a casa, dapprima non ci trova nessuno, ma, dopo una lunga attesa crepuscolare, passata sfogliando un vecchio libro: una Bibbia, donde la voce dell’infinito per la prima volta gli parla, sente nelle stanze lontane tornare, leticandosl con insulti atroci, il padre giuocatore e la mamma baldracca. E questa è la novella: Il regno tuo venga. L’altra: Il padre e il figlio, narra di un facoltoso bovaro romagnolo, vedovo, con un figliuolo solo, tutto dato agli studi e a scriver libri che nessuno compera né legge. Il bovaro non capisce il figlio, e, nonostante l’ami, lo martirizza rinfacciandogli continuamente la sua nullità davanti alla vita. Ma quando il figlio gli muore, ne sente a un tratto la grandezza, gli fa costrurre un mausoleo, e passa gli anni che gli restano in una superstiziosa adorazione della sua memoria, nel culto delle sue cose, finché, morto anche lui, non vegliano sull’eroe, nella solitudine di Romagna, che le pietre del monumento e un vecchio cipresso…
Storie di «umiliati e offesi» anche queste, insomma, ma meravigliose istorie nella loro squallente semplicità, e delle quali il resoconto poco o nulla può dirvi. Capolavori così rapidi che non potete nemmeno tentar di fissarne l’impressione di grandezza con revocazione di immagini solenni. Vi sfuggono come una rivelazione stessa della vita, che alza il velo di sul proprio volto, un istante, davanti a voi e quando vi riavete dallo stupore, è già lontana. Tutto vi è povero, desolato. Ma corso da un brivido di quella commozione che vibra più poderosa negli attriti della vita più conculcata.

Gli spiriti che sognano e preparano l’arte di domani possono salutare ormai Alfredo Panzini come un maestro; come forse il nostro scrittore più moderno. Debbon certamente guardare a lui, onde imparare, almeno, con quanto ardore contenuto, con quanto silenzio, con quanta paziente eroica ferocia, occorra prepararsi.
Abbiamo voluto rammentare, poco anzi, davanti a questi suoi due capolavori, i poli fra i quali si è aggirata la sua opera precedente. Ed è stato per far meglio capire come egli, ormai, sia ascito dalla incertezza, dalla intima sfiducia che quasi tutta questa opera testimonia. Ha trovato, finalmente, una poesia schietta. Ha aperto una vena sorgiva, che si è versata con impeto esatto nei canali da lungo preparati.
È quella poesia che aspettava l’anima nostra reclinata e assetata, dopo tanta enfasi, dopo tanto stridore di colori veementi. È la poesia delle penombre austere, dove essa potrà ridiventar pienamente classica e vera. A voler intendere tutto il valore di questa poesia bisogna rammentare che i padri non hanno sdegnato concedere a questo umile loro purissimo figlio, affinchè egli potesse cantarla, la loro eterna voce d’oro.

claudioEmilio Cecchi