Un lunedì degli ultimi di questo luglio sono partito da Rimini per Ravenna (chil. 50), solo, in bicicletta, prima del giorno.
Il sole mi si levò sopra Bellaria, la indimenticabile Bellaria, a quell’ora addormentata nelle sue cento fra ville e casette lungo le dune del mare, addormentato anche lui. Solo l’Uso, l’antico Rubicone, bisbigliava ancora fra i tamarischi le storie di Cesare.
Dopo Cervia la via diventa piana e bellissima e si addentra nella pineta di cui i tronchi disposti come le colonne degli antichi templi, si diramano e si abbracciano in alto in forma di ombrelle. E fra i tronchi luceva in lontananza la linea cilestre del mare con una incomparabile dolcezza. Questa di Cervia è quanto ancora di più intatto rimane di quella selva famosa: paludi e valli di acque salmastre, ove il fiore della ninfea sorge fra le canne, si stendono oggi dove un tempo sorgeva “la divina foresta spessa e viva” per cui ramingò Dante e innamorato della bellezza, ne fece cosa divina e trasportò sul vertice del Purgatorio.
E sulla linea verde delle paludi grandeggia lontano un tempio e una torre tonda. Siamo a Sant’Apollinare in Classe. Quivi le navi di Roma imperiale, quivi le galere bizantine approdarono: triremi con vele di porpora recarono quivi i re più potenti del mondo: sonava l’opera de’ navalestri nel grande arsenale: sorgevano mirabili edifici. Oggi è il deserto: solo rimane questa ruina di tempio. Pure davanti a questa ruina v’è una voce che dice — Fermati, qui i secoli ti aspettano!
Ma ecco una nota un po’ gaia.
Io aveva un fine berretto con la visiera e una maglia tutta bianca, e appena m’accostai al tempio vidi un ragazzetto correre verso casa urlando a squarciagola — Memma memma, l’è arrivè un inglès (Mamma, è arrivato un inglese). — Io non ci fo caso, entro in chiesa e, naturalmente, mi levo il berretto. Ma l’impressione del freddo — sudato come era — fu tanta che visto lì vicino un gruppo di muratori che facevano colazione (in Romagna a far colazione, bestemmiare Dio che è il governo del cielo, il governo che è il Dio della terra, si comincia abitualmente presto) domandai ad uno di essi la sua giacchetta. Era una giacchettaccia, tutta sporca di gesso, di cui io alzai il bavero e strinsi sul petto le falde.
Proprio in quel momento con gran premura e con un gran mazzo di chiavi entra la guardiana. Il ragazzo mi riconosce e mi indica alla mamma.
La donna mi guarda, si rivolge al ragazzo e puntandomi contro il dito, con un disprezzo intraducibile, dice forte — Quel l’è un inglès? — Buttò via le chiavi e mi rivolse superbamente le spalle trascinandosi dietro con dispetto il figliuolo.
Di Sant’Apollinare, magnifico tempio bizantino del secolo V, consacrato dall’arcivescovo Massimiano, non restano che le colonne di marmo greco, reggenti le tre navate, e la tribuna. Delle pitture musive parietali, dei marmi, del pavimento, della travatura a stelle d’oro nulla rimane: asportato, distrutto, rifatto tutto. Anche oggi il vento del mare e la salsedine, entrando per gli aperti finestroni, finiscono per corrodere quanto di intatto avanza ancora del prezioso mosaico che copre la tribuna. Questo del resto è uno dei templi meglio conservati di Ravenna!
Io non dimenticherò mai l’impressione che mi fece la vista di quel mosaico!
Quelle figure palliate a linee rigide, così grandi che si curvano per tutta la volta, fra piante, animali e simboli, quegli stellati cieli, que’ prati, ove le capre pascono i mistici gigli, quelle fuse luci di oro o di azzurro, que’ prodigiosi giochi di ornato, bene hanno un significato, una ragione di essere ed esercitano una suggestione potente. Oh, come al confronto è poca cosa il simbolismo esotico delle arti grafiche che tanto piace ai leziosi esteti e ai nostri raffinati decadenti!
Da Sant’Apollinare a Ravenna il tragitto è breve: cinque chilometri. Con tutta sincerità: a chi è per temperamento disposto a melanconia ed ha qualche notizia di arte e di storia, non è consigliabile la visita a Ravenna; o tutt’al più bisogna fare come fanno i nostri buoni romagnoli delle città vicine: vi vengono pei loro affari, li sbrigano, e poi vanno a mangiare delle eccellenti tagliatelle e a bere dell’Albana squisita al “Cappello”.
A Ravenna il peso delle memorie è ingombrante; la desolazione dell’oggi le ingigantisce in un modo doloroso. A Ravenna v’è troppa roba: vi è Grecia e Roma, Bisanzio e Venezia, Giustiniano e Teodorico, San Vitale e Belisario, Dante e la Divina Commedia, Pier Traversaro e Pietro di Dante, Gastone di Foix e Giorgio Byron, Francesca e la Guiccioli. E per quanto abbiano distrutto di mosaici, vi rimane ancora tanto di figure, di oro, di fiori da farvi sognare vostro malgrado!
Oh quelle sempre ricorrenti grandi immagini di simboli, di animali mistici e di fiori, di santi bianchi, di vergini che barbagliano nell’oro: e quando uscite dai templi quel diffuso splendore di cielo disteso sulla linea bassa delle paludi e dei pini. L’oriente dipartendosi vi ha lasciato bene la ineffabile sua luce! Oh, il fascino delle figure di Giustiniano, di Teodora nella tribuna di San Vitale! Oh sepolcro d’oro di Galla Placidia! Oh statua sepolcrale di Guidarello Guidarelli!
In verità io credo e sento che la storia e che gli uomini scomparendo lasciano pure qualche cosa d’immortale e di inafferrabile, e di non registrabile negli elenchi degli archeologi!
Io non lo negherò: l’anima mia fu compresa dal terrore del tempo che distrugge: ma pure e più fortemente fu vinta da un desiderio di amare. Oh, non sogno di gloria, non trionfo di armi, non desiderio di sapienza mi stimolavano più vivamente tra quelle tristezze di memorie e di marmi, no: ma il desiderio di amare, di sorgere con l’amore alla comprensione di tutto ciò che sfugge alla ragione.
Intendiamoci: Ravenna non è come Roma, come Venezia, come Firenze, dove i monumenti saltano agli occhi. A Ravenna bisogna andarli a cercare o scoprire, cosa non facile anche perchè il genio paesano si è esercitato a mutare i nomi a tutte le vie: il cittadino ignora i nomi antichi, il forastiero i nuovi. Vero è che questa devastazione di una fra le città più gloriose del mondo è relativamente recente.
Ravenna al tempo di Dante (era già corso quasi un millenio dal tempo del suo splendore) dovea serbare, benchè antica e diruta, come la ricorda il Boccaccio, tutte le grandezze delle civiltà sovrapposte: la romana, la gota, la bizantina, l’una trionfante sull’altra senza però distruggersi ma glorificantisi l’una con l’altra. Non era un’età, non era una regione sola: era l’occidente e l’oriente, il genio latino e il genio germanico che si erano incontrati lì nella foresta dei grandi pini. La visione dell’impero che vibra per tutte le cantiche della Commedia, che assurge concreta nel VI del Paradiso, Dante — secondo me — non l’ebbe interamente né da Roma, né dai libri; ma da Ravenna: lì v’era la materia che gli parlava il profondo linguaggio delle cose che nessuno sapeva interpretare meglio di lui. Recatevi in San Vitale, aspettate un poco nel silenzio di quella tribuna — sogno d’oriente — e sentirete l’anima vostra immergersi nel tempo giù: la figura di Giustiniano, prima fra gran corteggio, vi guarda dall’oro del mosaico e dice: “Cesare fui, e son Giustiniano”.
Così quest’altra idea mi venne in mente visitando Ravenna: quel non so che di simmetrico, di misticamente adorno che informa il purgatorio e il paradiso dantesco, non fu in parte, se non inspirato, almeno regolato dalle pitture musive di Ravenna? I profeti, le vergini di Sant’Apollinare Nuovo, procedenti con la corona fra gigli e rose, le figure aggirantisi per le cupole de’ due battisteri, non sembrano forse illustrazioni della Divina Commedia?
Io non cito che alcuni dei monumenti che ancora si conservano, tutt’il resto oggi è rovina e si direbbe mito se i preziosi cimeli che si scavano — la più parte a caso — non facessero testimonianza: ma al tempo di Dante dovea essere da per tutto un trionfo di figure luminose da imporsi necessariamente alla fantasia.
Gli stranieri che dai grandi centri dell’attività moderna vengono numerosi a Ravenna (l’album del Museo reca per la più parte nomi stranieri) io credo si compiacciano in questo cimitero di morti e di vivi; ma per un italiano è cosa che stringe il cuore.
Perché le devastazioni superano il credibile: il sacco di Ravenna, seguito alla celebre battaglia nel 1512, che arse, spogliò, spopolò, ruinò per sempre la città, deve essere stato forse di minor danno che le manomissioni dei frati e dei gesuiti e degli accademici nei secoli XVII e XVIII. Per quella brava gente la mistica linea del tempio bizantino, la purezza di quell’arte costituiva un’offesa al loro senso artistico: buttavano giù quello che per antichità minacciava di cadere, facevano minacciare quello che stava ritto. — Volute, curve e biacca — biacca, volute, linee spezzate, — santi e angeli idropici — fu la parola d’ordine.
Così, ad esempio, si profanò tutto San Vitale; così le colonne del tempio Ursiano, splendida basilica a cinque navate, abbattuta nel 1738, vennero segate come fette di salame e insieme con le transenne o balaustre, traforate a giorno, miracolo di ricamo nel marmo, servirono di pavimento al nuovo tempio. Che dire poi della ignoranza della indifferenza della popolazione?
Nel 1854 facendosi degli scavi per il porto, i lavoratori trovarono un oggetto d’oro: lo trafugarono, lo spezzarono, lo fusero. Era la famosa corazza di Teodorico, completa, d’oro, lavorata a giorno, con intarsiatura di pietre preziose — un valore inestimabile: non ne rimane che un pezzettino di pochi centimetri — salvato dio sa come, e che si conserva nel Museo. E la rabbia dei restauratori? Quante teste di poveri santi vennero asportate e vendute, Iddio lo sa!
Oh se invece di spendere il danaro ad ingombrare le piazze di enormi massi di marmo di Carrara, che tutti assicurano rappresentare i soliti eroi del Risorgimento, avessero provveduto meglio perché la salsedine e l’acqua del sottosuolo non finiscano col far franare ciò che ancora rimane!
Ma via, meglio lasciar Ravenna — meglio e più igienico correre in bicicletta! E così feci una bella mattina dando un ultimo addio alla tomba di Teodorico il cui monolito scomparve in breve tra il verde.
Ridente il mattino, luminosissimo il sole per la verde landa: o sole benefico, quanta gloria e quanta miseria umana tu illumini! Guai se in te, divina materia, fossero i lampi di corruccio che tormentano l’anima umana!
(Alfredo Panzini, Un po’ d’Italia in bicicletta, «L’Illustrazione Italiana», 10 ottobre 1897)
Da Rimini a Ravenna