Recanati e Loreto

Il paesaggio delle Marche — con quelle città irrigidite lassù sovra alture che non sono più colline e monti ancora non sono — è melanconico.
Si vedono e si guardano tutte: Osimo, Castelfidardo, Loreto, Macerata, Recanati. Non benevolmente si guardano e pare dicano l’una all’altra: “Tu sei più morta di me!”.
Io sentivo di entrare nel dominio di un’anima melanconica, e gli occhi teneva rivolti verso ponente, al lontano colle di Recanati. Sopra appunto vi galoppavano le nubi allora; galoppavano e correvano, e per certo effetto di luce lucida e fosca, si distinguevano bene le case della patria tua, Leopardi!
Nella gente che incontravamo per salire a Loreto — e la cupola del Bramante e i turriti sproni del tempio già giganteggiavano sul capo — suonano pure e antiche voci italiche e certi scorci di fraseggiare così eleganti che que’ villani sembrano aver fatto i loro studi esclusivamente su qualche codice del trecento. Cosi la pronuncia nulla ha della sguaiatezza meridionale o della leziosaggine toscana o del rimbombo romano, né della sfumata fierezza umbra: è qualcosa che non saprei definire, ma sento di definire bene dicendo: “È la lingua di Giacomo Leopardi!”. Questo popolo fu il segreto testo classico su cui egli studiò. Eppure quelle parole mi facevano l’effetto di qualcosa di morto che sornuota ad un naufragio; qualcosa che decade e non rinasce più!
E cosi ogni tanto ci si presentava qualche figura di donna, che parea fusa nel bronzo, con certe linee di statue antiche. Anche nell’andare aveano qualche cosa di dignitoso e di composto, come la materiale aristocrazia di una stirpe di cui l’anima è già svanita.
“Sciocchezze tutte le vostre — mi avrebbero potuto rispondere gli uomini e le cose — e stanno soltanto nel cervello di voi. Il vostro compagno non pensa a questo, e anche gli altri ciclisti hanno costume, prima, di bere un boccale all’osteria del ponte, poi fanno a chi regge più in sella per la costa. Ieri poi ci passò in carrozza una coppia di innamorati e trovarono che tutto era allegrissimo e giovanissimo. Emendatevi: il vino dell’Aspio in voi si è mutato in negri fantasmi”.
Ma io seguii questi miei fantasmi. — Perché lassù — accennavo Recanati — fanno tante feste? Lo sapete voi? — chiesi ad una donna che mi camminava del pari.
Ella mi guardò, girò attorno due occhi ebeti, poi disse:
— Sarà per qualche santo nuovo!
— Questa è la verità, buona donna; sono proprio le feste per un santo nuovo. Anche egli ha sofferto e poi è morto affinché questi morti potessero risorgere: lo stesso come ha fatto il nostro Signore Gesù Nazareno. La cupola del cielo è più grande di quella di Loreto e Dio ci fa stare tutti i Santi che vuole.
Così io spiegai, ed ella fece cenno che mi avea compreso benissimo.
Ma per consolazione della vista e del cuore su per le ripe, coperte di pruni polverosi e densi, su cui la vitalba gettava i suoi festoni rigogliosi, si arrampicavano a modo di caprette alcune fanciulline bellissime, ma assai sudicie. Coglievano le more da’ pruni e parte mangiavano, parte, forse imitando il costume di Loreto, infilavano e ne facevano corone.
Mi fermai e dissi ad una:
— Perché non ti lavi la faccia?
Ella mi rivolse il caro volto imbrattato e gli occhi puri e profondi come l’ignoto che è in ogni bambino, e disse: — Pulito come uno specchio! — Ma voi, voi — disse un’altra — sudate che gocciate come se ve la foste lavata!
Avevo in tasca un cartoccio di mentine e cominciai a distribuirne, e allora — io non so come — sbucarono dalle siepi, dai casolari, dalla via, tanti bimbi, tutti laceri, tutti sudici, ma splendenti come teste del Lippi: e finché ebbi delle mentine mi seguirono e i papaveri e i fioracci sterpavano e gettavano, frustando la bicicletta.
Cosi feci l’ingresso nella tua città, Madonnina nera, che stai nella casetta nera, ed hai tante margherite e gemme su di te che riluci anche senza le lampade d’oro!
Piovigginava all’entrare in Loreto ed erano le quattro.
Loreto, come oggi Recanati al Mare, fu una figliazione dell’antica Recanati e diventò poi indipendente e ostile alla città madre. Quindi è città relativamente moderna, anzi agli onori di città venne elevata nel secolo XVI, da non so quale Pio o Sisto; e si vede che quei papi aveano l’abitudine di far nobili le borgate: e quindi tutti gli abitatori di esse diventavano in certo modo nobili da borghigiani o rusticani che erano prima; press’a poco come oggi si fa col cavalierato e con le commende; ma a tutti apparirà chiaro che il sistema dei papi era più spicciativo e accontentava più gente.
Come ognuno sa, il 10 dicembre 1294 la Madonna ci arrivò, dentro la sua casetta, dalla Dalmazia, dove avea dimorato tre anni venendo a punto di Terrasanta; e furono gli angioli che la portarono attraverso il mare, anzi — cosa che pochi sanno — la prima sosta la fece ai piedi del monte in un terreno che era di casa Leopardi: ma essendo nate delle contestazioni e dei litigi per il diritto di possesso della casetta, un bel giorno la Madonnina lascia la pianura e con gran meraviglia vedono che era andata a stare sul monte.
Fu allora, o giù di lì, che rivestirono di fuori la casetta cogli adorni marmi di Carrara, e poi ci elevarono sopra la cupola e attorno il tempio: un tempio grande e munito come una fortezza. Senza dubbio ciò venne fatto nell’intenzione lodevole di impedire ai barbareschi di portar via la Madonna o predarne i tesori; ma io non posso nascondere il dubbio che i Papi come i Loretani imponessero tanto materiale sopra la casetta per impedire che se ne volasse via un’altra volta; la quale supposizione non era infondata considerando le abitudini più tosto randagie di Nostra Signora. Ora è certo che se chiamasse ancora i suoi angeli, questi dovrebbero fare troppa fatica a trarla di lì, oppure un miracolo troppo grande e generoso in questi eretici tempi.
Queste considerazioni io non le ho cercate, ma mi sono venute in mente da per sé, vedendo quella Madonnina in quella casetta buia, con quella luce delle lampade lassù, su l’altare, che par le manchi l’aria e stiasi melanconica fra tante gemme e tanti incensi: Ella che era abituata a vedere così bell’azzurro ne’ suoi viaggi oltremarini!
E poi perché ci fu una donna, la quale mi si accostò e mi disse con grande segretezza: “Vi sono più di quarantamila eretici a Loreto, non degnano niente la Madonna; non badano che a scannare li poveri forestieri. Ma, per amor di Dio, non dite niente a nessuno se no mi scannano a me!”.
Io la assicurai del più completo silenzio, e tranne che trovare un po’ troppo figurate le voci di scannare, di eretici e di quarantamila, per mie esperienze ho notato che presso i Santuari la gente non è molto edificante per pietà; e la Madonnina piuttosto che corone, gemme e tridui, vorrebbe, io credo, un po’ di bontà da’ suoi devoti e non essere tenuta come un valore di borsa.
Piovigginava tuttavia e l’amico Pasini mi assicurava che per la pioggia e la via erta meglio era pernottare a Loreto: buono era il vino e non cotto come costuma nelle Marche: una squisita cena apprestava l’oste, il quale con la mano sul petto mi assicurava che facevamo un pessimo affare a pernottare a Recanati, dove da un mese aspettano gente per queste feste, aspettano e non ci va nessuno.
Tuttavia io voleva giungere col vespero a Recanati e benché piovesse, partimmo.
Ma il cielo fu benigno verso di noi perché dopo essere alquanto andati, cessò la pioggia e l’azzurro dilagò sopra i campi e le valli.
Da Loreto a Recanati sono circa sette chilometri, e varcata la valle del Potenza, la via monta tanto che in alcuni punti le carrozze bisogna avvettarle, come dicono in Toscana; e così piano andando, sospingendo le macchine, ci imbattemmo in due villani i quali menavano i loro buoi: grevi i buoi, grevi i villani, e ci accompagnammo con loro, i soli che per la via incontrammo. Non erano di Recanati, ma di oltre: di Montefano, se non erro.
Domandarono chi eravamo noi e dove andavamo, e noi dicemmo che viaggiavamo il mondo per divertimento. Ci guardarono con occhi che significavano: “Dovete essere ben matti, se dite il vero, a faticare tanto per divertimento!”. Con le parole dissero poi questo pensiero: — Noi invece viaggiamo perché bisogna far così per empirci lo stomaco; per divertimento staremmo fermi.
Domandai poi se si erano divertiti alle feste di Recanati. — Alle feste si diverte chi ha soldi, — rispose uno di coloro, e la risposta mi parve vera. Allora gli domandai chi era questo Leopardi a cui si facevano tante onoranze.
Mi fissò di traverso con sospetto, ma io rimasi calmo e gli feci capire che nella mia qualità di ciclista che gira il mondo, mi era permessa una certa ignoranza delle cose che avvengono in un paese perduto com’è Recanati. Allora i suoi occhi si rivolsero in dentro quasi cercando un’idea, e l’idea venne e mi parve felice più di molti savi discorsi di eruditi e di critici. La mente del villano prese l’Idea e le labbra infine l’espressero. Disse:
— Leopardi era uno della società (intendi, o almeno io così intesi, società liberale, carbonara o massonica) che una volta, quando c’era il papa qui, a Napoli un altro re, i Tedeschi in un altro sito, ha indovinato il Comando (Governo) di adesso. Andò in Parlamento, parlò e fece l’Italia. Siccome poi è avvenuto quello che pensava lui, così adesso gli fanno le feste, avete capito? Ma era, che m’intendiate, un uomo di studi, uno studiante, mica un c……
Altre cose aggiunse il villano: cioè che nella stanza del palazzo dove è nato v’è prima un pavimento d’oro, poi d’argento e poi di ferro : — a noi — disse — non ci fanno veder niente perchè siamo villani, ma se andate voi, chissà che non vi facciano vedere.
Aggiunse ancora che è morto a Napoli avvelenato dai preti: che i preti gli fecero un gran pranzo e gli dissero di pentirsi e rimangiarsi tutto quello che avea detto e che avea scritto. Ed egli rispose: quello che ho detto ho detto, quello che ho scritto ho scritto! Allora gli domandarono di che morte voleva morire. Egli disse: mettete il veleno nella minestra. Essi fecero come lui avea detto, e appena ebbe messo in bocca il cucchiaio si indirizzò su la sedia e cadde giù!
Allora io gli domandai se avea fatto bene lui o aveano fatto bene i preti. Egli allargò le braccia pietosamente come uomo di cui si sforza il pensiero oltre al costume, e infine disse :
— E che volete che ve dica, figliuolo? Ognuno può pensare come crede, ma se tutti potessimo fare una legge secondo il nostro modo di sentire, io sapete che farei? Io prenderei questi buoi e invece di portarli al padrone ce scannerei lo core tanto ho fame!
Entrammo — che il sole precipitava — per l’antica porta di Recanati: su le mura festoni di piante selvatiche; sull’arco della porta una tiara, un nome di un pontefice, un’iscrizione latina.
Per questa porta entrò un tempo Pietro Giordani, apostolo e peregrino di una fede che oggi pur muore, ad incontrare e conoscere il genio dell’Italia nascente: di qui partì in cerca di sua morte eroica per la libertà della Grecia, il conte Broglio d’Ajano abbandonando genitori, famiglia, tutto! Di qui tre volte ripartì Giacomo Leopardi per ricercare, nel suo sublime errore, uomini veri nel vasto mondo: e a Roma, come a Napoli, come a Milano, come dovunque, era il natio borgo selvaggio e la gente vile!
Dentro la stretta via, che seguita a salire, era già buio: era già buio anche perché di qua e di là del selciato a conca, le case sono assai da presso, case grigie, con certe finestrine piccole piccole. Vedemmo però ancora della gente su gli sporti col deschetto da calzolaio giacché, come mi dissero poi, il lavoro delle scarpe è una delle industrie di Recanati. Quella tranquilla gente ci seguiva con lo sguardo con molta curiosità: poi parlavano fra di loro.
Ma da una di quelle finestrelle, fra i garofani, ecco sporse una testolina di giovanetta, nera e curiosa come capo di rondinella dal suo nido sospeso. Non so come un nome mi si presentò: Nerina!, e le palpebre degli occhi miei, che sono in verità assai stanchi ma non piangono più, cominciarono a battere per il fantasma di un nome d’amore!
Ma non molto si sale, che la via spiana, gli edifici si allargano, si innalzano alti, signorili, per una via che è la principale e segue con sinuoso e lungo arco la cresta del colle su cui sorge la città. L’austerità e l’abbandono della città antica si congiungono a non so quale lindura e decoro moderno, e tutto sembra dire: “Signore, se voi veniste quassù con l’intendimento di trovare il borgo selvaggio, disingannatevi. L’ossequio al grande nostro Poeta non ci impedisce di notare un errore di passione, che d’altronde voi stesso potete riconoscere con gli occhi vostri”.
Segno notevole: non fummo perseguitati da mendicanti, non inseguiti da monelli. Questi caratteri di civile progresso più nettamente appaiono quando si giunge alla maggior piazza che porta il nome del Poeta.
Quivi sorge la magnifica torre medioevale, da cui viene il suon dell’ora, quivi il palazzo Municipale, opera grandiosa e moderna, sorta da poco su le demolizioni dell’antico, per collocare in degno luogo il monumento al Poeta.
Il quale monumento, eretto anni addietro, è opera giovanile dello scultore Ugolino Panichi. Di prima vista la statua del poeta in abito di società, ma con sopra una doppia cappa filosofica che arriva sino ai piedi e disegna la gobba, con una enorme testa ignuda, china a terra, è realisticamente suggestionante. Troppo realisticamente! Ma questa osservazione mi venne fatta il dì seguente dall’illustrissimo signor conte G. Leopardi, il quale mi raccontò come uno, appunto della famiglia Leopardi, essendosi imbattuto nel troppo realista scultore, gli chiese: “È lei quello che fa i pupi? Ma lì i ragazzi ci vedranno il bau-bau!”.
A Recanati, come poi mi dissero, non poche sono le famiglie ricche, molte le famiglie agiate e di media cittadinanza, laborioso il popolo, fertili e ben coltivate le terre circostanti, così che quel riposato benessere che si vede, esiste anche nella sostanza. A tale proposito degno di ricordo è il fatto che, nel maggio del ’98, un capitano, mandato colassù per i tumulti, si occupò specialmente di studi Leopardiani, ed i soldati della sua compagnia fecero, io credo, lo stesso, considerando le somiglianze e le differenze tra le molte vezzose Silvie e Nerine del luogo.
Quest’egregia popolazione ha però avuto il torto di credere che una festa di tal genere, come il centenario leopardiano, potesse attirare delle moltitudini, e maggior torto ebbero di prolungarla per più di un mese.
Hanno imbiancato, ripulito, messo le lampadine elettriche, rifatto alberghi e stanno lì ad aspettare che venga gente, e pare ne chiedano al tragico simulacro del Poeta: “Oh, com’è, gloria nostra, che non viene nessuno?”. Ma egli non ode: è assorto nel contemplare la profonda terra.
— Veda — mi diceva un signore — per domenica ventura era assicurato un convegno di seicento ciclisti; ebbene ieri ci hanno telegrafato che non saranno che trecento, e quando saranno quassù vuol scommettere che non arriveranno a cento?
Me ne dolsi, ma ci spiegammo anche perché il nostro arrivo destò così grave commozione: evidentemente ci presero per l’avanguardia dei trecento.
— Non siete voi dei trecento? — ci chiese anzi uno. lo lo assicurai che non appartenevamo a questo numero sacro nei drappelli eroici. La risposta parve renderlo melanconico e disse: “Rimanete allora sino a domenica che verranno degli altri compagni!”, ma ci fu forza rifiutare l’invito.
La bicicletta è utilissima anche per isfuggire i convegni ciclistici.

Sostammo all’albergo Bulli. Esso è davvero splendido, e pieno di ogni conforto moderno e vuol essere ricordato. È posto sulle mura settentrionali della città e cade da grande altezza su torrioni è su orti a gradinate da cui prende la curva la vallata del Musone, la quale si dilaga in vista immensa sino al monte d’Ancona e sino al mare.
Ma allora vi cadeva con la notte e con le ombre una quiete che parea quasi sensibile ed animata: e affacciatomi alla finestra con quel senso di benessere e di stanchezza che invade il corpo dopo copiose abluzioni, distinsi giù nel nero della valle una striscia bianca che disse: Io sono il fiume. E nella mente o laggiù si delineò questo verso: — E chiaro nella valle il fiume appare. — E volgendo gli sguardi in su, proprio oblique e accampanti nel cielo mi ferirono le sette stelle come cuspidi che sole appaiono di qualcosa di maraviglioso occulto nel cielo. Esse dissero alla loro volta: Noi siamo le vaghe stelle dell’Orsa! Viviamo anche dopo la morte dei Poeti!
lo non so qual’immobile frigidezza mi invase l’anima, e sarei rimasto lì assai tempo se l’ottimo Pasini non fosse venuto premurosamente ad avvertirmi egli stesso che gli spaghetti col pomidoro erano in tavola.
La mattina, alle sei, il cameriere, aprendomi la finestra e recandomi il vassoio del caffè, mi assicurò che per recarmi al palazzo Leopardi, che è posto all’altra punta del paese e però assai distante, avrei fatto bene a seguire la via di circonvallazione sotto le mura e così avrei visitato anche i luoghi più cari al Poeta e dove si spirò pe’ suoi idilli. Io mi congratulai con lui di tanta erudizione e seguii il suo consiglio.

Nella terra dei santi e dei poeti. Impressioni ciclistiche di Alfredo Panzini, «L’Illustrazione Italiana», 16 ottobre 1898.

claudioRecanati e Loreto