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Panzini Bellariese

Bellaria sarà prima la sede delle vacanze estive del professore, poi, dopo il pensionamento avvenuto nel 1927, la sua residenza per gran parte dell’anno. A Bellaria Panzini coglie l’occasione per stringere importanti amicizie con i letterati romagnoli: Renato Serra di Cesena, Antonio Baldini originario di Sant’Arcangelo, Marino Moretti di Cesenatico, Luigi Pasquini di Rimini, senza dimenticare gli incontri con Grazia Deledda, che trascorreva le sue vacanze estive a Cervia. In Romagna Panzini coronerà il suo antico sogno di diventare proprietario terriero, acquistando un paio poderi a Canonica di Sant’Arcangelo di Romagna. L’amore per la terra è forse il tema più caro dello scrittore, che lo accompagna per tutta la sua attività, dalle traduzioni di Esiodo, Virgilio e Teocrito, fino ai romanzi “agresti” I giorni del sole e del grano e Il ritorno di Bertoldo, passando per il suo appoggio, sulle colonne del Corriere della sera, alla “battaglia del grano” promossa dal fascismo. Canonica che, ricordiamo, fu scelta da Panzini per l’estremo riposo.
 Più complessa, rispetto alla semplice esposizione cronachistica dei fatti, l’interpretazione del ruolo giocato da Bellaria nell’opera di Panzini, per non parlare della spinosa questione del rapporto con i suoi compaesani.

Bellaria, “rifugio” dello scrittore

Per un critico acuto come Carlo Bo, l’immagine del sole e del mare di Bellaria sono inscindibili dal “vero” Panzini, anzi costituiscono il metro e la misura dell’icona Panzini che egli contrappone alla magnificenza, scintillante quanto vuota, dell’immagine dannunziana. A Gramsci, invece, la campagna romagnola sembra quasi lo scenario in cui lo scrittore può manifestare sui poveri contadini i suoi istinti di truce negriero.
Al di la di queste posizioni, si può sostenere che Bellaria fu per Panzini un rifugio sicuro dalla modernità, un luogo dover poter coltivare il suo amore per la letteratura e per la terra, quasi al modo degli antichi, un paese dove la popolazione non era stata ancora completamente convertita ai costumi e ai consumi della città e dove l’economia era sorretta dai piccoli e medi proprietari terrieri. Questo è il messaggio che ci veicolano I giorni del sole e del grano.
Più discordanti sono i pareri riguardanti l’effettivo rapporto che Panzini istituì con i suoi concittadini e, soprattutto, con i suoi dipendenti. Non c’è dubbio che sulla immagine di Panzini conservata dai bellariesi, che gli è costata una sorta ostracismo postumo, tramontato solo recentemente, nella sua Bellaria pesarono la sua vicinanza a Mussolini e la nomina ad “Accademico d’Italia”.
Su questo tema si confrontano due scuole di pensiero: una ricalca il giudizio gramsciano, che, ricordiamo, è inferito solo dai libri, in primis I giorni del sole e del grano; altri, invece, sulla scorta, per esempio, delle dichiarazioni raccolte nel reportage di Sergio Zavoli Campana, Oriani, Panzini e Serra, vedono Panzini come un padrone sì paternalista, ma pure affettuoso e protettivo.
Più che esprimere giudizi conviene dunque presentare al lettore direttamente i testi in questione così che questi possa formarsi da sé un’opinione.
Procedendo in rigoroso ordine cronologico, passiamo quindi in rassegna un’antologia di passi concernenti Bellaria e i suoi abitanti.
Si comincia, ovviamente, con La lanterna di Diogene. In quest’opera Bellaria rappresenta la meta agognata del viaggio panziniano, un’oasi di pace e serenità, dopo un anno trascorso nell’infernale metropoli Milano. Questo è il quadretto idilliaco, quasi mistico, ispirato a Panzini dal profilarsi all’orizzonte, in piena notte, del paese che ospita la sua famiglia:


La relazione tra Panzini e Bellaria si fa più seria e controversa nel paragrafo seguente, La vecchia e il porcello, in cui una descrizione, diciamo, “espressionista”, di una famiglia di pescatori si è meritata, l’ostilità di molti bellariesi.

A parziale difesa di queste pagine, che a prima vista appaiono offensive, possiamo segnalare che, secondo la testimonianze di Baldini e Pasquini, Panzini preferì per tutta la vita la compagnia di persone semplici, e che negli ultimi anni, seppur famoso e libero da impegni, passò la maggior la parte del suo tempo, invece che in circoli altolocati, nei suoi campi e in giro per le fiere di Romagna a contrattare il prezzo delle sue bestie.
Dopo queste episodio assai controverso sulla famiglia della “vecchia bacucca”, riportiamo, sempre da La lanterna, un paio di vivaci scene di vita quotidiana.
In mezzo alla confusa industriosità della gente bellariese, Panzini, in un brano che sembra anticipare una celebre sequenza dell’Amarcord di Federico Fellini, confessa di essere turbato dalla vitalità e dall’esuberanza delle pescivendole.

Nella Lanterna, Panzini manifesta a più riprese il disagio per le incomprensioni che incontra nei rapporti con la gente di Bellaria, la quale, ritenendolo un “signore”, rifiuta la sua amicizia. Egli invece, che pur in futuro diventerà proprietario di un paio di poderi, si duole di trovarsi nella paradossale situazione di non poter godere né dei privilegi dei “padroni,” né della solidarietà abituale tra poveri. Ad inasprire la situazione intervengono le prime rivolte socialiste, nelle quali Panzini vede la rottura della sua idea di armonia sociale; per di più questi lavoratori lo avvertono, in virtù della sua professione di insegnante, come un parassita sociale, uno che non si guadagna il pane con il sudore e la fatica.

La Lanterna, tuttavia, non contiene solo pagine polemiche e controverse, ma pure alcuni momenti di meditazione serena in cui Panzini sembra, per una volta, riappacificarsi con se stesso e con il mondo. In una di queste occasioni, durante una tranquilla passeggiata sulla spiaggia sul far della sera, gli capita d’imbattersi in una festa da ballo. Come sempre, Panzini indugia quasi compiaciuto nell’osservazione minuziosa dei comportamenti delle persone; assistendo ai capricci dei bimbi e alle innocenti civetterie delle fanciulle, viene quasi da sorridere pensando a ciò che è diventata oggi la moderna “industria del divertimento.

Uno dei capitoli più suggestivi de La lanterna di Diogene è senza dubbio il diciassettesimo, intitolato “La morte dei nobili pini”. Il brano racconta il dolore provato da Panzini per l’abbattimento brutale della “piccola selva” di pini che costeggiava la ferrovia. Questo episodio, che passa dall’elegia all’invettiva, offre a Panzini lo spunto per una amara riflessione sulla crudeltà della società moderna, dimentica di ogni valore al di fuori del più bieco utilitarismo. Lo sgomento per la totale indifferenza dell’uomo verso la natura spinge Panzini ad invocare figure quali San Francesco e Dante, con la struggente consapevolezza che l’armonia tra uomo e natura, fondamento della classicità, è andata definitivamente perduta.

Da Bellaria, Panzini scrive molti dei suoi appunti, quelli coincidenti con le ferie estive, del suo Diario sentimentale di guerra. Proprio a Bellaria, nell’agosto del 1914, Panzini incontra per la prima volta Renato Serra, circostanza dalla quale nascono alcune delle sue pagine più ispirate. Tuttavia interessanti sono anche quelle che trattano le reazioni del nostro piccolo paese di fronte a questo evento apocalittico. Panzini ci presenta una Bellaria quasi inconsapevole della catastrofe, che, non sentendosi parte in causa, continua ad indaffararsi nelle piccole cure quotidiane. Persino qui Panzini non manca di segnalare le incomprensioni in cui continua ad incorrere nelle relazioni con i bellariesi, i quali non riconoscono alcun valore ad una professione intellettuale, e, soprattutto, hanno una visione della società quasi manichea: o si è poveri o si è signori.


Purtroppo, nonostante l’indifferenza del popolo, le conseguenze nefaste della guerra arrivano pure a Bellaria: l’estate è priva di bagnanti, il cibo scarseggia e per i giovani arriva la chiamata alle armi.

Bellaria rappresenta la meta anche del Viaggio di un povero letterato, una rivisitazione, a circa dieci anni di distanza, dello schema de La lanterna di Diogene. Mentre nel primo libro erano controversi i rapporti, o almeno la loro descrizione, dello scrittore con gli abitanti di Bellaria, nel secondo “viaggio” Panzini si dichiara insofferente pure verso il paese, che, pur possedendo in esso la sua residenza estiva, non “sente” come la propria casa. Anzi, al termine delle sue peregrinazioni in treno, ammette di non amare più la sua stessa casa, addirittura di desiderare che essa crolli! Questo astio si deve almeno a tre cause. La prima, ovviamente la più grave, è rappresentata dal ricordo della morte del figlio Umbertino, deceduto a soli dieci anni nel 1910. In seconda battuta, Panzini si lagna per i problemi con il fisco; e, infine, si lamenta pure per l’isolamento a cui lo relega la gente, che come abbiamo visto in precedenza, lo considerava, a suo avviso a torto, un “signore”.
Sempre in questo passo risiede il motivo per cui lo scrittore scelse di non essere seppellito presso il cimitero di Bellaria, che pur tanto amava, ma di riposare a Canonica. Panzini si professa sdegnato del fatto che in occasione del funerale di un suo conoscente non ci fosse stato il consueto corteo di gente ad accompagnare il defunto, e questo perché il morto era colpevole di possedere una villetta insieme a un po’ di terreno. Questa circostanza offre a Panzini lo spunto per un’invettiva contro le rivendicazioni socialiste colpevoli di aver distrutto l’armonia sociale e la fede religiosa. Panzini, che pur non era un credente in senso tradizionale, riteneva che la religione fosse un elemento fondamentale per creare una società più umana, solidale e unita. Comunque è opportuno notare che questo brano risente della disperazione e della tensione drammatica che caratterizzano l’intera opera, che rappresenta il rovesciamento della serenità e della solarità proprie della Lanterna.

I giorni del sole e del grano, opera scritta a Bellaria tra il 1927 e il 1928, sono una collezione di quadretti agresti in cui Panzini, diventato finalmente “padrone”, racconta le sue esperienze nella gestione di alcuni poderi. Un approdo quasi obbligato, considerando, oltre all’amore che lo scrittore aveva da sempre riservato alla letteratura classica sull’argomento (Teocrito, Esiodo, Virgilio, con relative traduzioni), che possedere del terreno era sempre stato un sogno di Panzini, almeno dai tempi della rovina economica del padre.
Sebbene nel testo abbondino i riferimenti e le citazioni in latino dai grandi autori del passato, sono totalmente assenti accenti bucolici ed arcadici, poiché più che della vita dei campi si parla del lavoro, duro, durissimo, quasi disumano, di cui necessitano i terreni. Panzini compone una sorta di epica della vita georgica, e in particolare della figura del contadino, che qui viene tutt’altro che idealizzata, bensì colta nella sua concretezza, nella terribile fatica del suo lavoro.
Panzini ci descrive un contadino scaltro, furbo, egoista, tenacemente attaccato alla vita, infaticabile, un “artista della terra” (cap. V). Artista, però, che, a differenza dei pastori delle Bucoliche virgiliane non suona il flauto, né tantomeno trascorre le sue giornate in ozio a cantare le proprie disavventure sentimentali, ma impugna la vanga e s’ammazza di fatica ogni santo giorno. Nonostante indugi spesso e volentieri sugli aspetti più brutali e animaleschi della realtà contadina, Panzini non cerca mai di condannarla, ma intende descriverne i suoi caratteri ancestrali, fuori dal tempo e dall’attualità, che resistono alle trasformazioni della modernità.
Senza dubbio il personaggio più memorabile del libro è Finotti il mezzadro di Panzini, inquilino della cassetta adiacente alla “Casa Rossa”. Sebbene Panzini lo presenti soltanto nella parte finale dell’opera, Finotti ne diventa quasi il protagonista ed il simbolo. Di Finotti ci viene presentato l’intero campionario di attività: dall’estirpazione delle erbacce fino all’allevamento delle bestie e la cura della stalla. Panzini dimostra nei riguardi del suo mezzadro una ruvida simpatia, anche se non evita di segnalarne, per esempio nella maniera attraverso cui “governa” la sua famiglia, le spigolosità e le asprezze del carattere.
Nell’ultimo brano che riportiamo, Panzini, non senza un moto di disappunto, paventa, attraverso le parole di un giovane studente di scienze economiche suo amico, la scomparsa di questi antichi e valorosi “cavalieri della vanga”, destinati ad essere soppiantati dalla nuova “agricoltura scientifica”.


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