Panzini scrittore “americano”

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Per andare da Bellaria nella Serenissima bisogna entrare nello spirito del Camel Trophy. In realtà non guasterebbe nemmeno l’equipaggiamento da Transamazzonica visto che la maledettissima via Romea costringe a zigzagare Tir e buche nell’asfalto che sembra- no crateri. Due ore e quaranta minuti di calvario per giungere a Venezia. Ma merita il sacrificio se si parla di Alfredo Panzini per una volta senza i paraocchi deformanti coi quali la Repubblica delle Lettere ha catalogato lo scrittore con la bicicletta: “minore” e antimoderno, o, addirittura, “scrittore di punta del regime” e come tale non più di moda. In realtà Panzini fu fascista a modo suo e spesso e volentieri sparse qua e là nelle sue opere deflagranti stonature rispetto al registro dell’ortodossia in camicia nera. Non sarà un caso se l’antifascista e senatore repubblicano Aldo Spallicci già mezzo secolo fa lo discolpò da collusioni: «Il fascismo con tutte le parate militari, dietro le quali c’era il vuoto, non poteva avere le simpatie di un uomo che amava tanto la semplicità e la realtà delle cose».
L’occasione per la riscoperta veneziana dell’autore della Lanterna di Diogene è fornita dall’Accademia Panziniana bellariese, custode della modernità antimoderna di Alfredo (promotrice anche di un premio giornalistico nazionale sul tema del viaggio in bicicletta a lui intitolato, che coinvolge fra gli altri in giuria Sergio Zavoli, Aldo Cazzullo e Mauro Mazza), e da alcuni docenti del Foscarini e dell’università Ca’ Foscari. Perché Venezia? Perché qui, appunto, studiò il giovane Panzini, al Convitto Foscarini, dal 1875 al 1882, lasciando di quel periodo nei suoi quaderni (due anni fa donati dalla Fondazione Carim alla stessa Accademia) tracce corpose di applicazione feconda e di studio matto e disperatissimo sui classici ma anche di dolorosa lontananza dalla spiaggia di Rimini. E al Foscarini si è svolto il 13 e 14 marzo 2013 il convegno “Panzini scrittore europeo” in occasione di un anniversario che, fra l’altro, unisce Panzini e D’Annunzio: il centocinquantesimo della nascita. Coevi ma antitetici, tanto che il primo fu definito “l’anti-d’Annunzio”. Panzini definì il Vate «specialista in isquilli». Geniale. Ma al Foscarini si è parlato solo di Panzini, non di D’Annunzio, aprendo però squarci nuovi e addirittura inediti. Mary Ann McDonald Carolan, docente di letteratura moderna alla Fairfield University (Connecticut), ha detto che «Panzini fu riconosciuto in America come uno dei più importanti scrittori della sua generazione».
Dal 1928 al ’33 – ha spiegato – si sono susseguite negli States traduzioni di novelle e altri scritti di Panzini, ma già prima le antologie scolastiche avevano reso ragione della caratura dello scrittore di Bellaria. Su Panzini si è formato Carlo Golino, pescarese ma trapiantato in America dove ha insegnato a lungo diventando pure rettore della Massachusetts University, a Boston. Si scopre così che Golino scrisse la sua dissertazione per il dottorato in italianistica alla California University, Berkley, nel 1948, proprio su Panzini. Ha fatto tesoro del lessicografo bellariese anche
Charles Southward Singleton, docente ad Harvard, che Montale definì «l’americano che ci spiegò Dante». Sempre da oltreoceano viene fuori che Panzini fu molto e ben recensito sul New York Times (anche per la penna del mitico Henry Furst), che di lui si occupò anche Vanity Fair, e che alla fine degli anni Venti Panzini era considerato dagli americani il «miglior scrittore di prose italiane», un «talento acuto nell’osservazione di uomini e cose». Per gli statunitensi, il romanzo Io cerco moglie è «il libro più comico dopo il Decamerone».
Sconti ne fece sempre pochi Panzini, e con quei suoi occhi azzurri come il cielo passò ai raggi X anche le virtù e i vizi del romagnolo, il «più allegro e generoso del mondo (a non toccarlo negli interessi), ma rissoso, clamoroso, sensuale e pochissimo spirituale». Un «popolo simpatico il romagnolo, se non soffrisse della malattia dell’entusiasmo verbale che, a pensarci bene, è una forma anch’esso di sensualità». Ma unico e irripetibile: «Rimanete fedeli alla Romagna, è l’unica terra in cui si conserva quel poco di buono che è rimasto nel mondo».

Claudio Monti

(Questo articolo è stato pubblicato sulla terza pagina de La Voce di Romagna in data 20.3.2013)

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